Un colpo di spugna ad Atene. È il verdetto di Basilea, la deliziosa città nel nord della Svizzera, dove la Juventus conquista, il 16 maggio del 1984, la Coppa delle Coppe. Soltanto il Milan (due volte) e la Fiorentina hanno iscritto il proprio nome nell’albo d’oro italiano della manifestazione.
La Juventus insegue un altro sogno internazionale dopo quello coronato nel 1977 a Bilbao, in Coppa Uefa. Basilea è straordinariamente bella, le costruzioni sono carezze al verde smeraldo dei prati e dei campi. Il Medio Evo si respira negli angoli delle strade, nei selciati dei viali, nelle piazzette che spuntano come incantesimi improvvisi, nelle torri con gli orologi, nelle colonne e nelle fontane che rappresentano allegorie campestri, guerresche e religiose.
La Juventus vi approda in un giorno di primavera. Il cielo ha il colore dei pastelli e sfuma all’ora del tramonto in un rosa struggente. La vigilia è scandita da un’eccitazione strana: c’è bagarre per i biglietti che scarseggiano e che puntualmente ricompaiono, nelle mani dei bagarini, il giorno della finale. Il ricordo della sconfitta di Atene in Coppa Campioni, le immagini dei bianconeri più simili a fantasmi che a calciatori, il pianto di tifosi vinti dal disinganno sono fotogrammi da cancellare. È l’imperativo categorico e Trapattoni fa leva su questi elementi psicologici per preparare il match con il Porto.
La Juventus vi approda in un giorno di primavera. Il cielo ha il colore dei pastelli e sfuma all’ora del tramonto in un rosa struggente. La vigilia è scandita da un’eccitazione strana: c’è bagarre per i biglietti che scarseggiano e che puntualmente ricompaiono, nelle mani dei bagarini, il giorno della finale. Il ricordo della sconfitta di Atene in Coppa Campioni, le immagini dei bianconeri più simili a fantasmi che a calciatori, il pianto di tifosi vinti dal disinganno sono fotogrammi da cancellare. È l’imperativo categorico e Trapattoni fa leva su questi elementi psicologici per preparare il match con il Porto.
La Juventus conta ancora su cinque Campioni del Mondo (Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e Paolo Rossi; non c’è più Zoff, che ha scelto la strada del pensionamento per raggiunti limiti d’età). Tacconi, Bonini, Brio, e Vignola completano la truppa italiana, gli stranieri sono Platini e Boniek, due assi di Coppa.
Trapattoni conosce i portoghesi per averli osservati attraverso i videotapes. Li studia con ossessione. La zona, il pressing, il rischioso espediente del fuori gioco. Tutto è mandato a memoria, con puntiglioso scrupolo. Trapattoni è come un elefante, non dimentica i rilievi che gli vennero mossi all’indomani della sconfitta con l’Amburgo, ad Atene nel 1983. E sono diventati, con il tempo, scheletri scomodi dentro l’armadio delle sue ambiziosi. Perciò nella vigilia di Basilea, il Trap convince Platini ad una posizione prudente, a rinunciare a licenze stilistiche per mettersi al servizio del collettivo. Un sacrificio tattico val bene una Coppa!
L’arbitro è il terribile Prokop della Germania democratica, un dirigente industriale che ha partecipato ai Mondiali di Argentina e di Spagna. Le dichiarazioni degli strateghi, Trapattoni da una parte ed Antonio Morais dall’altra, si sviluppano secondo temi diversi: il Trap è sicuro di essere il più forte e dispone di uomini goal come Platini, Boniek e Paolo Rossi; Morais si sente più debole, ma ricorda la finale di Atene, quando i super favoriti bianconeri chinarono il capo davanti al sinistro infido di Magath. Inoltre, il trainer portoghese sa di contare più sul complesso che sulle individualità.
L’aspetto scenografico si annuncia stupefacente. La Svizzera assiste, in quei giorni, al più colorito e massiccio trasferimento di tifosi. Quelli bianconeri sono 50.000 ed arrivano con ogni mezzo, percorrendo strade perfino impossibili, e sono pacificamente chiassosi. Il serpente di macchine di fan juventini sembra che raggiunga i 200 chilometri di lunghezza. Inaudito! Ma non tanto, se si pensa che la “Vecchia Signora” è la squadra che vanta il maggior numero di sostenitori in Europa.
Nel giorno della finale, alle 18:30 della sera, lo stadio St.Jakob è un’esplosione di pacifica ebbrezza. I 10.000 portoghesi, paganti per la verità, oppongono una resistenza un po’ sbiadita nell’innocente gioco di colori. Il tramonto è dolcissimo anche se nell’aria c’è un vago annuncio di pioggia. All’improvviso, un treno dipinto in bianco e nero sbuca da un filare di alberi fioriti. E sembra sfiorare i muri di cinta dello stadio. È una tradotta con un carico di tifosi juventini. Quando passa davanti al St.Jakob, il macchinista mette in funzione il segnale festoso, è un fischio che attira l’attenzione del pubblico che affolla lo stadio. Ma già s’intravvede, più indietro, un secondo convoglio con un carico di bandiere bianconere. Sono attimi di commozione.
La partita è stupenda. La Juventus ha appena vinto lo scudetto e tenta il bis in Coppa, come nel 1977, quando aggiunse al titolo italiano una prestigiosa Coppa Uefa. È definita, quella di Basilea, una battaglia di stili e di uomini. Spunti di notevole intensità tecnica da una parte, compattezza strategica dall’altra. Fiammate bianconere illuminano il cielo di Basilea, che si fa sempre più triste e piovigginoso; un gioco consorziale è quello dei portoghesi che sono organizzatissimi. Vignola, piccolo centrocampista dal sinistro preciso come un cecchino, fa esplodere di gioia lo stadio dopo 13 minuti.
L’illusione che il match sia deciso da quella prodezza non contagia nessuno, anche se il più delle volte il successo in Coppa va alla squadra capace di passare in vantaggio. Trascorrono infatti sedici minuti e Sousa rimette tutto in gioco con un pallone molto tagliato.
Il Porto mostra la miglior immagine di sé, perfino inedita, la Juventus non indulge a raffinatezze tecniche e leziosismi stilistici e pensa soltanto a dare concretezza agli schemi. La vecchia guardia, da Tardelli a Gentile (partita superlativa, la sua), da Cabrini a Brio e Bonini, si rimbocca le maniche ed estrae la scimitarra dal fodero. I fendenti della difesa tengono a distanza il pericoloso Frasco, il cannoniere Gomes, ex scarpa d’oro, ed il vitale Vermelhinho.
L’umiltà e la determinazione della Juventus hanno il sopravvento. Dall’esperienza di Atene trae utilissimi insegnamenti. Platini si sacrifica in un gioco oscuro ma utile e tiene impegnato Pacheco che lo marca da vicino, alla faccia della zona. Boniek cresce con il trascorrere dei minuti e diventa per il Porto una mina vagante. Il pubblico è rapito da quel gioco senza pause, senza risparmi di risorse fisiche e mentali.
Quattro minuti prima che i giocatori imbocchino il boccaporto che conduce negli spogliatoi per la sosta, la dama in bianco e nero passa di nuovo in vantaggio. L’iniziativa a percussione è del polacco Boniek. Zibi è attorniato da tre avversari, compreso il portiere Zé Beto, e la sua straordinaria potenza muscolare gli permette di sfondare quel muro. Lo stadio ha un sussulto. Ma non è fatta. Manca ancora un tempo da consumare.
Il tema non cambia, nella ripresa: il Porto non si rassegna, attacca con manovre ad ampio respiro e porta le offensive per linee esterne. Il cuore della “Signora” è robusto, la vecchia guardia si esalta, Gentile diventa il protagonista di una difesa insuperabile. La partita a scacchi tra Antonio Morais e Giovanni Trapattoni è vinta dal tecnico lombardo, Vignola e Boniek sono gli alfieri che danno “matto” al Porto. La Juventus conquista la seconda coppa internazionale, aspetta quella dei Campioni, al cui assalto si dedicherà a partire dal settembre successivo.
Negli spogliatoi c’è l’aroma inebriante della felicità. Soltanto per Boniek e Gentile l’aria è di smobilitazione. L’Avvocato ha parole di elogio per il polacco, ma con una eloquente riserva: «È stato molto bravo, ma un giocatore non si deve giudicare per una sola partita. Del futuro non mi piace parlare».
Trapattoni sospira: «Atene è vendicata ed i tifosi che quella volta rimasero delusi possono rifarsi oggi».
Boniperti esulta, madido di tensione, sudore e spumante. Aveva promesso di restare legato 90 minuti alla sedia della tribuna d’onore. Non ha resistito ed ha aspettato il termine delle operazioni nel chiuso dello spogliatoio. Sofferenza o scaramanzia? Un dilemma al quale il presidente non saprà mai dare una risposta. Nemmeno per se stesso.
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