Giallo come il sole, rosso come il cuore. Era il 30 maggio 1984 e da una strabocchevole ed arroventata Curva Sud uno strano striscione, lirico nella sua semplicità, occhieggiava verso l’erba tagliata di fresco di uno stadio Olimpico mai così colmo e sovraeccitato. Quella sera Roma si era fermata. Per una volta si era lasciata scivolare giù dalle spalle i suoi abituali panni di metropoli cinica e caotica, per lasciarsi avvolgere completamente da un palpitante drappo giallorosso, tra le cui pieghe sussultava e fremeva tutta la città: dai quartieri storici romani Testaccio, Trastevere, Parioli, fino alle nuove alienanti periferie dei mostri di cemento e dei quartieri-dormitorio.
Racchiusa e compresa in quella finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool c’era tutta Roma. C’era chi aveva fatto carte false per procurarsi un biglietto di curva ed ora, agitato da un anormale senso di euforia, aspettava in piedi l’inizio dell’incontro. C’erano migliaia di persone che si erano riversate nelle piazze per vivere la partita attraverso la coralità di un megaschermo, tra bandiere, lazzi e qualche birra. C’era chi si era organizzato con gli amici e vedeva la finale in TV, seduto in poltrona ma con un batticuore da spalti. Infine c’era anche chi (come i cugini laziali) mai come quel giorno avrebbe voluto nascondersi sottoterra, ma che la partita la guardava lo stesso, se non altro per gufare.
All’Olimpico l’atmosfera era ormai carica di elettricità. I tamburi battevano, s’intonavano i primi cori, applausi propiziatori scrosciavano con un fragore assordante. I giocatori stavano per scendere in campo, erano lì nel sottopassaggio, come gladiatori attesi al combattimento decisivo. Tutto lo stadio, all’unisono, li chiamava con i nomi di battaglia. «Ago, Ago, Agostino goal»: i tifosi cantavano e si riempivano già gli occhi con una delle sue punizioni, uno di quei missili terra-terra che correvano a filo d’erba per andare ad insaccarsi nella rete avversaria. Il coro sfumava in un boato: la Roma, la grande Roma dello scudetto, stava entrando in campo. Bruno folletto Conti saltellava su una gamba e sull’altra più freneticamente del solito, er portierone Tancredi sfogava tutto il suo nervosismo masticando furiosamente un chewingum, maestro Liedholm ricercava la perduta compostezza nordica lisciandosi di continuo i capelli.
Ma ecco che finalmente anche il capitano si portava al centro del campo. Agostino Di Bartolomei (Diba o Ago per la Curva Sud) sembrava essere l’unico a rimanere imperturbabile sotto il peso di quel frastuono che, soffocato da una spessa coltre di fumogeni, arrivava deformato alle orecchie. Fascia di capitano al braccio e capelli nerissimi scolpiti sulla testa, Diba (romano fin dalla culla, romanista dai primi vagiti) non mostrava alcun segno di emozione. Non una smorfia, non un sorriso, non un cenno. Niente. Eppure intorno a lui lo stadio sembrava un vulcano sul punto di esplodere.
Ma forse, proprio dietro l’impenetrabilità di quegli occhi scuri e di quello sguardo accigliato, era nascosto tutto l’amore che Di Bartolomei nutriva per la sua Roma. Forse, magari quasi furtivamente, anche lui aveva gettato uno sguardo a quello strano striscione sentendosi ribollire dentro: giallo come il sole, rosso come il cuore.
Sono le otto di mattina del 30 maggio 1994 quando Di Bartolomei (non più Ago, non più Diba, non più il capitano dello scudetto e di tante altre battaglie, ma solamente, normalmente e banalmente Agostino Di Bartolomei, uomo qualunque andato a rinfoltire la desolata pletora degli ex a vita) si alza dal letto. Agostino esce dalla camera in silenzio, come al solito, per non svegliare la moglie Marisa, ex hostess conosciuta nell’anno dello scudetto. Scende piano le scale della sua abitazione (una magnifica villa immersa nel verde di San Marco Castellabate, piccolo borgo del salernitano raggomitolato sulla riva del mare) quindi apre un cassetto e ne estrae una delle sue due pistole. È una Smith & Wesson calibro 38. Di Bartolomei la carica, si sposta in veranda e là, nel silenzio, ancora in pigiama, preme il grilletto e spara. Un colpo dritto al cuore.
Giallo come il sole, rosso come il cuore. Sono passati dieci anni da quella sfortunata finale di Coppa dei Campioni. Dieci anni esatti. Ed è il destino forse, chiamiamolo pure un destino crudele e beffardo, quello che ha voluto che quello striscione partorito dall’ingenua fantasia di qualche tifoso, tornasse alla memoria. Destino, perché nello stesso giorno, con cadenza decennale, al popolo romanista due volte il cuore si è fermato e due volte il sole si è oscurato. Destino, perché quel giallo e quel rosso si sono sovrapposti, confusi ed annullati entrambe le volte, per poi riemergere con più forza di prima: mai come dopo quei due 30 maggio i tifosi hanno avuto bisogno di sole e di cuore. Destino poi, soprattutto perché quel sole e quel cuore hanno corso lungo un filo dipanatosi attraverso dieci anni e con agli estremi gli spasimi di due diverse disperazioni, ma anche di due diverse generazioni.
Quelli che erano i campioni di ieri sono gli ex di oggi, quelli che sono i campioni di oggi saranno gli ex di domani, in una spietata continuità di ricambio fisiologico. Ed in mezzo a questo vortice senza un inizio né una fine, oltre agli anni che passano ci siamo noi, ci siete voi, ci sono tutti. C’era anche Agostino, ma non ha resistito. È rimasto vittima della sindrome da viale del tramonto, ha azzardato qualcuno. Non ha retto al grande vuoto che si era creato nella sua vita dopo l’abbandono del calcio, hanno sostenuto molti. Certo è che finché sei là, sotto la ribalta, per quanto se ne dica l’ambiente dello sport è un ambiente protettivo.Per cinico e impietoso che possa sembrare, quello dello sport è un cantuccio che ti difende dall’aridità della vita e dei sentimenti. Finché dura.
«Sto fra due mondi, ma non mi sento a casa mia in nessuno di essi», diceva Tonio Kroeger riferendosi alla sua condizione di artista fuorviato. Ed in effetti anche tutti gli ex campioni possono essere definiti artisti fuorviati, sospesi tra il limbo dei ricordi e la banalità del presente, spesso senza riuscire a trovare una precisa dimensione.Il dramma di Di Bartolomei e di tanti ex forse era tutto qui, in questo ritrovarsi ad essere artisti della vita. Non tanto per la celebrità, né per il genio, quanto per la diversità e l’unicità con cui si dipanava la matassa della loro esistenza.
Nel testo di una sua canzone Bruce Springsteen dice che per arrivare un giorno a camminare nel sole, bisogna prima adattarsi a percorrere le vie secondarie, quelle più in ombra. Ecco, gli ex si trovano ad affrontare la problematicità di un percorso esattamente inverso a questo: ritrovatisi personaggi ad appena vent’anni, spesso arrivati a quaranta sono costretti a reinventarsi uomini comuni. E proprio in questa anomalia risiede la caratura artistica della loro vita.
Dieci anni prima Ago era là, sotto i riflettori dell’Olimpico, all’apice della carriera calcistica. Dieci anni dopo Agostino viveva diviso tra piccole partecipazioni ad imprese, proprietà immobiliari e vari progetti. Ha scelto di andarsene e lo ha fatto fedele alla sua immagine di anti eroe, senza grandi proclami, senza che intervenissero eventi sconvolgenti. Per lui ha agito la solitudine ed il dolore, per noi, dopo, le recriminazioni ed il rimpianto. Ed è inutile stare a scavare e a sondare alla ricerca di una parola, di un nome, di un indizio.Per capire quel gesto bastano le parole di uno come lui, anch’esso anti eroe, anch’esso a suo modo artista: Amleto. «Morire per dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore e le mille offese naturali di cui è erede la carne. Morire per dormire. Dormire, forse sognare».
Tratto da: http://www.storiedicalcio.altervista.org/index.html
LUCIO IACCARINO
Uno dei simboli della Roma campione d’Italia nel 1983. Capitano umile e faro di tutti i giallorossi: regista, leader carismatico, tiratore scelto ed esempio per tutti! I trionfi in campo e la tragica scomparsa…
Il testo e la melodia di uno dei capolavori di Francesco De Gregori, La leva calcistica del ‘68, è stata spesso trasfigurata dagli sportivi e dagli appassionati di calcio. Nasce e prende corpo una predisposizione d’animo favorevole a campioni e uomini del passato, che possono identificarsi nel protagonista della canzone. La malinconia, la storia di un idolo dolce e silenzioso che ha toccato i vertici e il fondo senza mai cambiare apparentemente espressione o modo di esprimere i sentimenti: Agostino Di Bartolomei era un campione triste che avrebbe da sempre meritato di più, sin da quando giocava e predicava calcio e passione. Canzoni, poesie, una strada, un parco, suggestivi racconti e soprattutto la memoria storica di chi viveva lo sport senza isterismi ma col cuore e il cervello in simbiosi continua.
Il 30 maggio 1994 Di Bartolomei si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola al cuore; per l’Italia intera fu come una cannonata nello stomaco. Nelle prime ore molti erano talmente allibiti che si convinsero che la notizia fosse falsa, un assurdo e tragico errore da parte delle agenzie di stampa. Il mondo del calcio non poteva crederci: la bandiera della Roma, tanto schiva e introversa nella vita quanto determinata e fondamentale in campo, aveva spiazzato tutto e tutti. L’incredulità si impadronì del popolo giallorosso, soprattutto quelli che avevano avuto l’onore e il privilegio di conoscerlo e apprezzarlo da vicino.
Agostino nacque l’8 aprile 1955 a Roma e cominciò ad amare il calcio nel quartiere Tor Marancia: già da piccolo l’intelligenza e il tocco di palla erano sue prerogative. Quando passò alla Primavera della Roma finì spesso sotto la lente d’ingrandimento dei tecnici del club capitolino. Persino l’illustre Nils Liedholm, che a quei tempi dispensava calcio e saggezza a piene mani, andava a vederlo giocare coi suoi compagni e fu fra i primi a entusiasmarsi e credere in lui. Il solo freno per Agostino, almeno secondo i preparatori atletici, era l’apparente lentezza che per qualcuno era indolenza e per altri poca esplosività dei muscoli. Giocando a centrocampo la mancanza di velocità poteva indubbiamente rappresentare un handicap da non trascurare. Ma i detrattori furono ben presto zittiti, e Liedholm del resto faceva sempre di testa sua: Di Bartolomei aveva i crismi del grande ragionatore, come un architetto capace di organizzare e puntellare qualsiasi tipo di manovra, offensiva o difensiva. Quella del 1972-73 è la sua stagione d’esordio in A e, con pazienza e determinazione, conquistò con merito le chiavi della linea mediana giallorossa. Per farsi le ossa, nel 1975-76, passò in prestito al Vicenza, collezionando trentatré gettoni di presenza e quattro goal. La breve avventura in Veneto fu preziosa per acquisire fiducia e scaltrezza: dodici mesi dopo Agostino era tonico e plasmato a dovere per la sua Roma. L’obiettivo comune era già inciso nella sua mente: vincere e passare alla storia col suo primo e unico amore!
Di Bartolomei divenne il fulcro di un progetto vincente e affiorarono in toto le sue qualità di uomo d’ordine, di centromediano eclettico e di un uomo dal grande senso di appartenenza in un gruppo che voleva primeggiare. In quegli anni la Roma conquistò tre volte la Coppa Italia (1980, 1981 e 1984) e l’indimenticabile storico scudetto del 1983. Il portiere era Franco Tancredi, in difesa ricordiamo l’imberbe Vierchowod, il roccioso Nela e quel fulmine di Maldera; le stelle assolute erano l’ala Bruno Conti e il brasiliano Falçao, l’imperioso Carlo Ancelotti, in attacco l’agile Iorio e il bomber di razza Pruzzo: ragazzi assetati di trionfi che realizzarono la grande impresa. La Roma si schierava secondo il modulo della zona pura e riusciva a vincere e dare spettacolo nello stesso tempo: Agostino era centrocampista ma sovente era anche libero, garantendo pragmatismo e solidità nei momenti difficili di una partita. La sua intelligenza sopraffina, i traversoni e i lanci millesimati, la potenza e la precisione nei calci di punizione e nei rigori erano le qualità tecniche che gli conferivano l’autorità necessaria per farsi ascoltare in campo e nello spogliatoio. Agostino divenne capitano quasi per acclamazione popolare; il senso di responsabilità che avvertiva per un ruolo probante e difficile lo rese un uomo squadra e un simbolo. Introverso e timido sulle questioni personali, Agostino era in grado di compattare i compagni in campo e mantenere l’unità del gruppo anche nei momenti delicati.
1983-84: un’altra stagione difficilmente dimenticabile per i romanisti. In quei mesi si concretizzò la trionfale cavalcata della Roma fino alla finale (che quell’anno era in programma proprio allo stadio Olimpico) della Coppa dei Campioni. I giallorossi eliminarono IFK Göteborg, CSKA Sofia, Dynamo Berlino e Dundee in un crescendo di emozioni e gare dal grande spessore tecnico. In tutto il torneo Agostino Di Bartolomei vestì, manco a dirlo, i panni del capitano coraggioso, quasi sempre fra i migliori in campo. La semifinale merita un applauso ancora più convinto: gli scozzesi del Dundee si aggiudicarono la partita d’andata in casa con un perentorio 2-0 (goal di Dodds e Stark) ipotecando così il passaggio alla finale. A Roma Pruzzo raddrizzò la situazione con due reti nel primo tempo pareggiando i conti, mentre dopo pochi minuti della ripresa fu proprio Agostino Di Bartolomei a coronare il sorpasso trasformando il 3-0 su calcio di rigore. Del resto dal dischetto era un killer freddo e glaciale, forse proprio per esorcizzare il testo della canzone di De Gregori. Non bisogna mai aver paura di tirare un calcio di rigore…
Tant’è vero che fu sempre lui il primo ad andare a segno dal dischetto nella finale con gli inglesi del Liverpool, il 30 maggio 1984. I novanta minuti regolamentari si erano chiusi 1-1 per merito delle reti di Neal e del solito Pruzzo. La lotteria dei rigori premiò gli inglesi 4-2 (Conti e Graziani fallirono il loro tiro anche a causa delle celebri pantomime dell’istrionico portiere Grobbelaar) e il sogno della Coppa Campioni svanì nella maniera più beffarda.
A braccetto col maestro Liedholm, Agostino cambiò squadra nell’estate del 1984 firmando per il Milan: certo dire addio alla Roma (contando anche le coppe, totalizzò 308 presenze con sessantasette goal) fu traumatico e quasi surreale. Col Milan di Farina restò tre anni, segnando nove goal: successivamente passò al Cesena (coi romagnoli l’ultima avventura nella massima serie). Il sipario della sua invidiabile carriera si concretizzò in C1 con la Salernitana, e nonostante l’età avanzata diventò un idolo anche in Campania. Il suo ultimo goal da professionista, realizzato il 27 maggio 1990 a Brindisi, fu fondamentale per i granata che anche grazie a lui approdarono in Serie B. L’universo calcistico era tutto per Agostino Di Bartolomei che, nonostante avesse avviato alcune attività lavorative per conto proprio, più volte aveva manifestato la voglia di rientrare in altre vesti in quell’ambiente che tanto gli aveva dato. Voleva, sopra ogni altra cosa, diventare allenatore dei bambini e degli adolescenti, di costruire una grande scuola calcio a San Marco di Castellabate, il paese natale della moglie dove ormai viveva stabilmente.
Quel colpo di pistola spazzò via tutto, e dopo anni i motivi del gesto restano purtroppo oscuri e amaramente irrisolti. Qualcuno ipotizzò delusioni professionali, altri l’incombenza di problemi economici o depressione. Quello che però resterà per sempre nella memoria di tutti è l’immagine di un campione umile, altruista e sempre corretto. Nel giorno dei funerali, ricordando il suo sorriso triste, i suoi ex compagni e i tifosi espressero commossi un solo concetto: ”In tutta la sua storia, la Roma non avrà mai più un capitano forte e coraggioso come Agostino Di Bartolomei”!
3 commenti:
Bell'articolo.
Grazie da parte di un romanista.
bell'articolo come sempre stefano
Ho visto da poco un bel film-documentario sulla storia di Ago.
Si chiama 11 metri, si trova in rete in streaming.
Emozionante.
Posta un commento