martedì 27 agosto 2013

EUSÉBIO


Era pigro e sonnolento il Portogallo, in quel finire degli anni Cinquanta, sotto la cappa vischiosa della lunga dittatura di Salazar che, più che reprimere, addormentava le coscienze in un tran tran quotidiano meschino come il suo “conductor” fatto, per i più, di ignoranza, religione, scarso reddito. E delle manie di grandezza sanguinose e un po’ ridicole che lo tenevano abbarbicato alle sue colonie africane, la Guinea e il Mozambico, ultime vestigia di un impero che un tempo aveva dominato l’Africa, l’Asia e il Sudamerica.
Il piccolo Portogallo degli incombenti anni Sessanta si attaccava coi denti a quei brandelli africani, fronteggiando una scarsa resistenza, che allora era solo agli albori, e perseguendo la pietosa bugia di una difficile integrazione, trapiantando nelle colonie religione, cultura, usi e costumi. Ed il “fùtbol”. L’unico campo in cui quel simulacro di integrazione funzionava davvero. I ragazzini neri o meticci copiavano il calcio dai colonizzatori e lo giocavano a piedi nudi nelle strade polverose o sulle spiagge della grande isola.
E i talent scout venuti dal continente dirottavano i più dotati verso i locali club calcistici che erano poi le succursali delle grandi squadre lusitane, pronte ad accogliere i migliori. E girarli poi magari alla Nazionale. Quella portoghese naturalmente, perché nell’ideologia corrente le colonie erano solo territori d’oltre mare e gli abitanti cittadini europei, portoghesi in questo caso. Come detto, un sistema che funzionava. Per i più fortunati almeno.
Con Eusébio funzionò a meraviglia. Era nato a Lourenço Marques (oggi Maputo), sulle rive dell’Oceano Indiano, ultimo di otto figli, orfano di padre a cinque anni, cresciuto nella dura povertà che la madre poteva loro offrire. Il pallone lo calciava per strada, a piedi nudi per necessità, finché non entrò nello Sporting di Lourenço Marques, affiliato allo Sporting Club di Lisbona, che dunque lo considerava suo. Ma il Benfica lo sottrasse agli storici rivali con un colpo di mano pirata.
Così, a sedici anni, Eusébio trasferì la sua vita nella Lisbona sonnolenta ed un po’ magica raccontata da Pessoa e dal talento nuovo di José Saramago, e cantata, con la triste nostalgia del “fado”, dalla voce giovane di Amália Rodriguez, nei locali fumosi ed umanissimi della città vecchia, lungo le stradine tortuose che salgono e scendono su per i quattro colli, lungo i quali la città si snoda affacciata sull’Atlantico.
Il giovane mozambicano non ebbe problemi di integrazione, né calcistici né umani. Quella che era una finzione politica per lui era, e sempre più divenne, una naturale realtà. Eusébio da Silva Ferreira era un giocatore del Benfica, cittadino portoghese, speranza fulgida di una Nazionale che si affacciava per la prima volta alle grandi ribalte.
Lo chiamavano la Pantera nera. E ci fu un tempo in cui la Pantera prese il posto della Perla nera sul trono precario del football. Era il tempo dei mondiali d’Inghilterra. Un piovoso luglio del 1966. E nel Goodison Park di Liverpool l’abdicazione avvenne in diretta intercontinentale ed assunse l’iconografia plastica di Pelé in ginocchio, malamente ferito da un intervento assassino e lui, Eusébio, che si avvicina e, chinandosi, gli pone sul capo la mano in un gesto che offre conforto e, silenziosamente, chiede scusa per l’intervento duro del compagno.
È la fine del terzo mondiale di Pelé, la fine del Brasile sconfitto 3-1 da un Portogallo alla sua prima esperienza in una fase finale di Campionato del Mondo. Un Portogallo che passa di vittoria in vittoria, grazie ai goal a ripetizione del suo neretto timido che stupisce il mondo per la velocità delle sue trame, la sicurezza e la pericolosità delle sue manovre d’attacco.
L’incoronazione del nuovo sovrano avviene qualche giorno dopo, il 23 luglio, in una notte di gloria e miseria. Perché in quella sera d’estate, nello stadio della patria dei Beatles solo il talento e la grinta di Eusebio trasformarono in trionfo il disastro e dissolsero l’incubo giallo della Corea che, dopo aver inflitto all’Italia la sconfitta più umiliante della sua storia, stava sommergendo 3-0 gli increduli lusitani. Poi avvenne il miracolo. Partendo dalla destra o dalla sinistra, retrocedendo fin sotto la propria porta a cercare il pallone, con la fretta disperata che lo svantaggio impone, Eusébio si lancia in avanti con quella sua progressione morbida, felina, che gli ha guadagnato l’appellativo di Pantera, infila in velocità uno, due, tre avversari eppoi lascia partire il tiro che ha secco, potente, preciso. Segna 4 volte, su azione e su rigore ed offre a un compagno la palla del quinto goal.
Alla folla piace chi segna ed il clamore del Mondiale amplifica le gesta degli eroi della pedata, così il giovane mozambicano che “vibra por los goles”, che non ama discutere di tattiche, di posizioni, di piani per la battaglia, perché a giocare ed a segnare si diverte, viene di colpo considerato da tutti come più bravo di Pelé, più completo di lui, in possesso di un repertorio di gioco superiore, di più ampio respiro. Gli entusiasmi di un giorno illuminato dalla grazia e dal talento? Certamente. Ed, infatti, Pelé riprenderà presto il suo trono nell’immaginario collettivo.
Ed Eusébio, che proseguirà con la maglia del Benfica, la sua squadra di sempre, una carriera ricca di successi; ancora non lo sa ma ha raggiunto quella sera, nello stadio di Liverpool, il momento più alto della sua parabola di calciatore.
Aveva solo ventiquattro anni, cinque anni di professionismo alle spalle, qualche scudetto e due Coppe dei Campioni strappate entrambe, nel 1961 e 1962, al Real Madrid di Puskás e Di Stéfano, il primo stop al dominio continentale dello squadrone di Santiago Bernabéu.
E se la prima volta lui era solo una riserva in panchina, giovane diciannovenne di belle speranze che aveva esordito in prima squadra solo otto giorni prima, il 23 maggio 1961, segnando 3 goal all’Atletico di Lisbona, la seconda Coppa portava largamente la sua impronta. Era stata una dura battaglia, sul filo dell’equilibrio. Poi, mentre gli assi madridisti si spegnevano lentamente sotto il peso della fatica moltiplicata dagli anni, la stella del giovane Eusébio brillava nel cielo di Amsterdam, quel 2 maggio 1962, segnando, in finale di partita, i due goal che fissavano il punteggio su 5-3 e regalavano al Benfica la seconda Coppa dei Campioni.
Altre due le aveva perse, nel 1963 e nel 1965, in finale contro il Milan di Altafini e Rivera e contro l’Inter di Herrera. Perché Eusébio da Silva Ferreira è stato campione in un’epoca di campioni, ha sfiorato l’ultimo splendore dei Di Stéfano, Gento, Puskás, Santamaría, ha giostrato nell’epoca dei Garrincha, Altafini, Suarez, Bobby Charlton, Beckenbauer, Rivera, Pelé, coetaneo di Zoff, Facchetti e Mazzola.
Tutti quelli che, a suo dire, mancano al calcio attuale. E lamenta quella penuria che «al giorno d’oggi porta i tecnici a privilegiare il collettivo ed il risultato».
Lui, l’uomo che ha conquistato undici scudetti, cinque Coppe del Portogallo, le suddette Coppe dei Campioni, sette volte capocannoniere portoghese, Pallone d’oro nel 1965, Scarpa d’oro mondiale 1966, capocannoniere ai Mondiali d’Inghilterra con 9 goal, 313 reti in 291 gare con il Benfica (una media di 1,08 a partita), 64 presenze in Nazionale e 41 goal (record portoghese), che appese le scarpe al chiodo nel 1975 per poi riprenderle e concedersi due anni di esperienza americana, prima di tornare a Lisbona entrando con mansioni varie nello staff tecnico del Benfica, dice di non vivere di ricordi, «perché questo non aiuta ad andare avanti ed i paragoni con me ed i miei tempi non hanno senso».
Non si considera sorpassato né mummificato. Un tempo sognava l’Italia, dice, ed aveva firmato con Moratti un contratto che la chiusura delle frontiere, decisa dalla federazione italiana dopo il disastro coreano, rese vano (sempre la Corea sul suo cammino!); ha tifato Danimarca ai Mondiali messicani del 1986, ammirato la Dinamo Kiev ed il suo calcio da laboratorio, e professa illimitata ammirazione per Arrigo Sacchi: «il migliore di tutti, un uomo nato per vincere».
Gli schemi scientifici non c’entrano. È questione di personalità, «io questa gente la riconosco, appartengo alla stessa famiglia», e senti vibrare nelle parole l’orgoglio ingenuo della Pantera che sfidava O’ Rei. Perché ha un bell’aggiornarsi, ma dentro vive la convinzione profonda che «il calcio è sempre quello e da che mondo è mondo lo fanno i calciatori. Uno come Pelé farebbe nel duemila quello che ha fatto fino al 1970, Idem Di Stéfano, che per me resta il più grande, il più completo».
E lui, Eusébio da Silva Ferreira, il ragazzino venuto dalla salsedine dell’Oceano Indiano, sarebbe ancora Eusébio, l’artista che illuminava, con il suo talento, l’atmosfera sonnolenta ed un po’ bigotta della Lisbona di Salazar.
La dittatura ora non c’è più, spazzata via negli anni settanta dalla Rivoluzione dei garofani, quando i giovani ufficiali, molti provenienti dal Mozambico, misero fiori nei loro fucili suscitando quel crogiolo di entusiasmi e di speranze che ogni rivolta ideale porta con sé. Il Mozambico riacquistava l’indipendenza e si avviava alla costruzione di un incerto futuro, i legami con il nuovo Portogallo per nulla spezzati, troppo fitto l’intreccio di interessi economici culturali che la decolonizzazione si lascia dietro.
Eusébio, scelse di restare nella sua patria di adozione, senza suscitare riprovazione né scandalo. Perché lui è il Benfica. E la nazionale portoghese ha ancora bisogno di lui. Ed intanto si gode i complimenti del Capo dello Stato e le parole di Amália Rodriguez, che rimpiange i suoi balzi felini ed il suo talento. E la Lisbona che non è più, affogata dalla violenza nuova della modernità e da una povertà antica che sembrano aver sostituito la dittatura scomparsa ed affogato le illusioni generose di una fugace primavera. Anche la “saudade” ha perso spessore e Saramago è partito, sdegnato, in volontario esilio.
Eusébio intanto studia con coscienza ed umiltà le nuove frontiere del “fùtbol”, poi entra la domenica allo stadio del Benfica per farsi applaudire sulle note del “fado” dalla massa di tifosi, che vive di ricordi e di sentito dire, e con loro insegue sull’erba le immagini antiche di un calcio “bailado” che hanno la consistenza labile ed il sapore acre della nostalgia.


tratto da: http://www.storiedicalcio.altervista.org/index.html

2 commenti:

Thomas ha detto...

“Il pallone racconta” una bellissima “storia di calcio”
Bello, veramente bello
Dopo averlo letto, posso dire “il miglior modo per iniziare una giornata”.
Ciao e a presto

Stefano ha detto...

Il modo migliore per cominciare la giornata è leggere questi commenti.
Grazie e buona giornata anche a te.