Anni Trenta: c’era una volta la Juventus e l’altra Italia, una 520 Torpedo può essere acquistata con 10.000 lire, le prime immagini sonore arrivano nei cinematografi, una copia di un quotidiano costa venticinque centesimi, un pasto al ristorante cinque lire. Mumo Orsi sale sul tram in corsa, ha un morbido Borsalino in testa, le scarpe lucide di vernice, il cappotto di panno blu. L’Italia freme per Mussolini e il ciclismo. Peppin Meazza sta riempiendo stadi, cuori e reti, l’Ambrosiana deve accettare il comando della Signora di Edoardo Agnelli e del barone Mazzonis.
L’avventura comincia il 28 settembre dal 1930 alle quindici e trenta campo di Via Marsiglia, Juventus-Pro Patria con la prima partita di campionato.
«Noi non andavamo in ritiro, sapevamo controllarci. Anche alla domenica ognuno di noi poteva pranzare a casa e raggiungere lo stadio. Eravamo organizzati, la Juventus era l’unico club che disponeva di un magazziniere con tre valigie piene di indumenti e di scarpe da gioco, nessuno di noi doveva fare il facchino nelle trasferte. Vincemmo otto partite consecutive senza accorgercene, i giornali di Torino scrivevano che stavamo confermando le attese, quelli di Milano ci snobbavano. Io ero giovane, presi il posto di Barale sul finire di stagione, per non mollarlo più. Quella Juventus era una famiglia, un gruppo compatto. Se non c’è spirito di corpo uno squadrone si trasforma presto in una squadretta. Eravamo amici, ci vedevamo spesso fuori dal campo».
Giovanni Nini Varglien nasce a Fiume, il 16 maggio 1911. Giocatore dal fisico imponente, raggiunge i 183 centimetri (un vero colosso, per la sua epoca) e sa disimpegnarsi ottimamente sia in difesa che a centrocampo. Cresce nella squadra della sua città natale, la Fiumana, con la quale esordisce, il 6 gennaio 1929 contro il Napoli, nella Divisione Nazionale, nonostante non fosse ancora diciottenne. Nell’estate dello stesso anno passa alla Juventus.
«Mumo Orsi è stato il più grande, poteva fare tutto e tutto faceva, come Platini. Combi fu un portento, Rosetta era fortissimo ma pelandrone, Caligaris lanciò la moda della fascia alla testa, per ripararsi dalle cuciture del pallone. Lo imitò immediatamente Bertolini. Barale era, come Rier, un modesto giocatore, Mosca ed io to¬gliemmo loro il posto in fretta. Cesarini incantava in una partita e faceva dannare in un’altra, non era tipo da campionato ma da gara. Vecchina era già anziano, Gioanin Ferrari era il maestro d’orchestra, bravo in difesa e a centrocampo, ma non segnava molti goal, Mumo lo ricordo in una partita a Brescia, quaranta gradi all’ombra, un milite svenne per la canicola, noi eravamo cotti. Mumo sembrava una rondine, volava nell’aria. Io? Bravo, più di mio fratello. Ho fatto di tutto, terzino, mediano, mezzo destro e interno sinistro. Edoardo Agnelli era il presidente e il barone Mazzonis l’uomo che decideva ogni affare. C’era una commissione tecnica che faceva la cernita dei migliori giocatori del campionato, poi i dirigenti e l’allenatore sceglievano i nomi. La spesa veniva ripartita in sedicesimi tra gli Agnelli, le famiglie Mazzonis, Levi, Tapparone e altri ancora. Costruirono una Juventus fortissima in difesa, che è stata poi la caratteristica di sempre, l’ambiente societario garantiva a noi tutti sicurezza anche finanziaria. Per lo scudetto prendemmo un premio di 5.000 lire, ne furono esentati Combi, Rosetta e Caligaris che avevano firmato un contratto particolare, 60.000 lire a testa all’anno, compresi gli eventuali premi».
Rimane a Torino anche durante la seconda Guerra Mondiale, giocando il campionato bellico del 1944; lascia la Juventus nel 1947, dopo aver vestito per ben 389 partite la maglia bianconera e realizzati quarantatré reti. Nel suo palmares, figurano anche i cinque scudetti consecutivi e le due Coppa Italia del 1938 e del 1942.
«È importante quello che succede nello spogliatoio, undici assi che non si parlano o che litigano formano una squadretta. In questo sì, la Juventus è sempre forte, è il suo stile».
VLADIMIRO CAMINITI
Energico, spigoloso, sfrontato nel tackle, fortissimo di testa, belluino nella pugna audace e non sempre verace, amò riamato una graziosa atleta senza responsabilizzarsi. Dissipò, preferì vivere solitario spremendo inutili piaceri. Giocatore forte e duttile, anticipò i tempi di terzino mediano mezzala in egual modo formidabile.
FRANCO BADOLATO, DA “LA STAMPA” DEL 17 OTTOBRE 1990
Solo Boniperti ha indossato la maglia della Juventus per più partite di Varglien II, scomparso l’altra sera a Trieste. Già questo dato spiega che cosa ha rappresentato nella storia di questo glorioso club quel Nini che vinse con la divisa bianconera gli scudetti del quinquennio.
Era giunto a Torino appena diciottenne dalla Fiumana, squadra della città dov’era nato il 16 maggio 1911. Avrebbe lasciato la Juventus solo nel 1947, a trentasei anni compiuti, per un’ultima stagione a Palermo prima di intraprendere l’attività di allenatore con Sestrese, Atalanta, Novara e Vicenza. È proprio Varglien II, che pure non fu mai titolare inamovibile, chiuso prima dal fratello Mario Varglien I, poi da Depetrini e Rava, il giocatore che ha idealmente collegato la Juventus di Combi Rosetta Caligaris a quella di Boniperti Hansen Præst, la Juve irresistibile degli anni Trenta a quella che avrebbe dominato agli inizi degli anni Cinquanta. Perciò dal ceppo bianconero, dai tifosi di un tempo era ricordato con molto affetto.
Scapolo, aveva vissuto gli anni della vecchiaia dividendosi tra l’alloggio della centrale Via Po a Torino e un appartamento a Sanremo. All’inizio di giugno era stato colto da un ictus che l’aveva lasciato semiparalizzato. Dal Mauriziano di Torino era stato trasportato a Trieste nell’ospedale, dove lavora come medico il figlio della sorella. Il peggio sembrava passato, così ricordano gli ex compagni Rava e Depetrini che erano andati a trovarlo un paio di volte. L’altra sera l’arresto cardiaco.
Strano destino quello di Varglien II, chiuso nella Juve da Depetrini, in Nazionale da Rava, i suoi più cari amici. «Quando venni a Torino, nel 1933 – ricorda Depetrini, settantasette anni – in mediana giocava ancora titolare il fratello, con Monti e Bertolini. Ma anche quando Varglien I smise, per Nini non cambiò molto. Oramai era diventato buono per tutte le occasioni. Un grande giocatore, s’intende, che in campo non tirava mai indietro le gambe. L’ho visto prendere il posto ora di Caligaris e Rosetta, ora di Cesarini e Giovanni Ferrari. Sì, si può dire che è stato un Furino di quegli anni, l’amico Bosco rammenta che una volta giocò perfino all’ala».
Piero Rava è del 1916. Nel 1929, quando Varglien II cominciava la sua lunga stagione in bianconero, lui entrava a far parte delle squadre giovanili bianconere. Divennero amici. «Tra Giovanni e il fratello Mario c’erano forti differenze – sostiene Rava – anche strutturali. Nini era più eclettico mentre Mario ha sempre ricoperto il ruolo di mediano destro. Invece Giovanni cominciò da mezzala per trasformarsi in mediano e finire da terzino».
Anche Ugo Locatelli, stessa classe di Rava, ha giocato con Varglien II: «Lui mediano sinistro ed io terzino sinistro. Molto forte fisicamente e tecnicamente discreto – spiega Locatelli – era anche veloce e abile nel gioco di testa. Un galantuomo. Sfortunato anche, chiuso in Nazionale da Rava. Innamorato della Juve, giocava sempre per vincere, non si fermava mai, correndo grossi rischi perché dai contrasti usciva sempre più malconcio dell’avversario. Ma con la forza della volontà si rialzava e vinceva, per la Juve, la sua unica squadra…».
1 commento:
bellissimo racconto...
Giuliano Varljen
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