Classe 1963, da Bauru, Júlio César rinverdisce, tre lustri dopo l’addio di Altafini, la tradizione dei brasiliani importanti della Juventus. Esploso con la maglia verdeoro ai Mondiali messicani del 1986, Júlio César strappa un buon contratto in Europa ai francesi del Montpellier e non si capisce come italiani, tedeschi e spagnoli se lo facciano scappare. In Francia, il ragazzo inizialmente patisce il clima e solo dopo un paio di stagioni torna ai livelli del 1986.
Quanto basta per richiamare l’attenzione della Juventus appena affidata all’estroso Maifredi, che ha fatto man bassa di campioni all’attacco (Baggio, Hässler, Di Canio) ma che dietro appare piuttosto fragile. In extremis, dunque, arriva il difensore brasiliano: passo felpato, buona visione di gioco, lancio lungo all’occorrenza e un tiro portentoso.
È decisivo in Coppa delle Coppe quando, nella partita di ritorno della semifinale, incontra il Barcellona in un Delle Alpi stracolmo: annulla da solo le folate dei catalani e propizia l’episodio decisivo, la punizione di Roberto Baggio per il goal dell’1–0 che, peraltro, non basta a proiettare la Juventus verso la finalissima. Tornato al timone bianconero Giovanni Trapattoni, Júlio César è confermato e inizia una nuova vita: in una squadra più bloccata, con uno stopper vero (Carrera), diventa un libero molto elegante e la Juventus riprende immediatamente quota, arrivando seconda alle spalle del Milan e sfiorando la vittoria in Coppa Italia.
«A Torino mi sono ambientato subito – confessa – la città la sento oramai mia; bella e storica, praticamente unica. La Juventus? Nessuno ha il fascino di questo club. Per non parlare, poi, dei nostri tifosi; in qualsiasi città o stadio d’Europa, anche il più piccolo e impensabile, non siamo mai soli. Ho modificato il mio modo di giocare, adattandomi al campionato italiano. Prima cercavo di uscire dall’area di rigore con il pallone tra i piedi e di impostare una nuova azione, anche quando mi trovavo in una posizione difficile; adesso gioco sempre di prima, ma quando vengo assalito dagli avversari e la mia area di rigore è piena di giocatori, non ci penso due volte e lancio via il pallone».
È il preludio alla miglior stagione del brasiliano, il 1992–93, l’anno della conquista della Coppa Uefa. Júlio César forma, con Kohler Eisenfuss (piede d’acciaio), la miglior coppia difensiva del nostro campionato, nonostante la frattura di una gamba, che lo tiene fermo per ben quattro mesi. Era l’inizio di ottobre, a Napoli, il giorno del primo successo esterno bianconero del campionato: «Rompersi una gamba è scioccante, ma lo è ancora di più rimanere fuori dal giro, camminare con le stampelle, vedere gli altri che giocano e non poter fare nulla per contribuire. Nella disgrazia, mi ha aiutato molto stare in famiglia a Campinas. Lì, con i miei amici, ho accelerato i tempi di recupero; ho svolto decine di sedute fisioterapiche, mi sono dannato l’anima per recuperare. Posso garantire che il primo allenamento a Torino, con i compagni e Trapattoni, è stato emozionante».
A trentun anni, nel 1994, è ceduto al Borussia Dortmund, dove raccoglierà altra gloria. In bianconero, comunque, si fa ricordare assai bene, con 125 partite e sei reti, di cui due nelle coppe europee.
VLADIMIRO CAMINITI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 1991
Non ho mai avuto dubbi nell’indicare in Júlio César un autentico asso. Perché scarpinando si impara e Mexico City non poteva mentire. Sull’altura avevo visto all’opera quel fortissimo, altero “centre half”, quel formidabile autentico artista della difesa, che sa tramutare in offesa, con un piede calibrato e potente, all’altezza di un piazzamento sempre magico. Non sto ingannando il lettore. Sto piuttosto narrando uno dei più grandi difensori naturali del calcio mondiale. Se il lettore consente, Júlio César attinge al piazzamento ed esprime nel campo una lievitante forza fisica. Che ha qualcosa di belluino, di magnetico, ma sempre su piani di euclidea espressività.
Il suo apparire nella Juventus è stato accompagnato da critiche che definire cattive è davvero poco. C’era una punta, e comunque un’ombra di razzismo, in quei giudizi estivi, ed anche successivi alle prime partite in coppa e campionato. Era vero, invece, che Júlio César stava ancora guardandosi in giro, si ambientava nella nuova maglia, cominciava appena a conoscere i nuovi compagni, era tutto nuovo per lui dopo gli anni, diciamolo pure, romanzeschi e pionieristici di Francia. Parma–Juventus gli do sette. Cesena–Juventus, io lo trovo fortissimo. È troppo lento per giocare in Italia, è il refrain dei media. Una colossale balla.
Júlio César, classe 1963, di Baurù, ex asso del Guarani, già del Brest e del Montpellier, può iscriversi ai ruoli dei grandissimi difensori brasiliani di ogni tempo, uno come i magici Nílton e Djalma Santos, uno con tutte le stimmate della classe. Non vedete l’eleganza sontuosa della sua corsa, la sicurezza luciferina del suo anticipo, la cattiveria leale del suo tackle? V’è forse in Italia, a parte Franz Baresi, un difensore con il suo stacco, con la sua belluinità e la sua eleganza? Eppure il trapianto di Júlio César nella Juventus non è stato facile visto che, molto superficialmente, certi commentatori (ad esempio Sivori, e lo scrivo con malinconia) sostenevano che mai il Brasile ha avuto grossi difensori. Si tratta di un’affermazione un po’ settaria, se ci è consentito scriverlo, a proposito di un giocatore che abbiamo molto amato, ma non il commentatore televisivo. Non è vero, poi, che il Brasile mai abbia avuto grandi difensori. La storia bisogna conoscerla, e Sivori non la conosce. Io me la coccolo, la storia, me la bevo nelle mie letture lunghe e interminabili. Io penso che la storia sia tutto per uno scrivano di calcio.
E so che Júlio César ha avuto un antenato in Domingos da Guia, il quale senza essere insuperabile come difensore puro, era insuperabile come artista, fu il più pagato dell’America ai suoi tempi, era alto e agilissimo, era un pennello come tocco di palla, era un virtuoso. Ecco, per me Júlio César è ancora meglio. Domingos giocava nei giorni del nostro Mondiale in Francia, rimane agli archivi come proverebbe la grande partita che nel 1938 Domingos giocò contro la Cecoslovacchia. Il Brasile vinse 2–1, e stiamo parlando della Cecoslovacchia dei Plánička. Non si improvvisa nulla.
Júlio César è arrivato nella Juventus nel momento giusto. Egli ha maturato in Francia esperienze composite che non gli hanno poi dato nulla. Gli hanno invece tolto. Lo hanno fuorviato sul piano tattico e dell’impegno professionale e quel certo dilettantismo, o goliardismo tattico, che oggi cerca di curare Platini commissario unico, lo aveva un tantino sminuito, e tutto considerato emarginato dal novero dei grandi giocatori mondiali, quale sacrosantemente è.
C’è tanta spocchia in giro, ed anche i tanti procuratori mica sanno vedere e capire. Doveva intervenire la Juventus. Vedete? La Juventus non si smentisce. E oggi con Luca Cordero di Montezemolo e Bendoni procede per la stessa strada seguita da Boniperti. Serietà, professionalità, capacità di scelta fuori dagli schemi seguiti da chi non ha idee nuove. La Juventus nuova è anche splendidamente Júlio César, l’erede, con qualcosa di più, di Domingos da Guia.
ERNESTO CONSOLO, DA SOCCERNEWS24.IT DEL 26 MAGGIO 2017
Diceva Giovanni Arpino che il dialogo alla Juve l’ha insegnato a tutti Giampiero Boniperti, coi suoi silenzi e gli sguardi. Bisogna star zitti e tener duro per partire da un lavoro come lustrascarpe di Bauru e arrivare alla Seleçao. E poi alla Juventus. Soprattutto se la tua famiglia è ferita. Da un padre che ti ha dato il nome di un imperatore romano, ma poi svanisce. Se tua madre fa la donna di servizio e tira su anche l’altro figlio. Che si chiama Cassius Clay. Già, perché prima di affogare in una bottiglia, il padre stravedeva per la boxe e la storia romana. E dunque Júlio César da Silva. Prima della rapida esperienza come aiutante muratore, è intento a togliere la segatura dai mobilifici, a racimolare l’essenziale come custode di automobili (annesso lavaggio) e portaborse al mercato. Anche se sogna Zico e Ademir da Guia, Júlio César è soltanto il raccattapalle del Noroeste, la squadra di Bauru. Da queste parti è cresciuto calcisticamente un certo Pelé. Ma, quando si presenta l’occasione, Júlio César sbatte contro l’ostacolo più grande: Dona Leny, sua madre. Per tre volte gli fa saltare infatti il provino coi campioni del Brasile del Guarani di Campinas, finché Júlio César scappa di casa: prontamente arruolato. A tredici anni giocava con quelli di venti, figuriamoci a quindici. «Nel calcio, come nella vita, bisogna adeguarsi a ogni situazione». A testa alta, fa il mediano. Arriva il primo contratto professionistico e il dirottamento in mezzo alla difesa. Incrocia i guantoni con un attaccante abbastanza promettente: si chiama Antonio Careca, che diventa subito suo amico. Passano pochi mesi e Dona Leny si trasferisce a Campinas, perché, a sedici anni, Júlio César è in prima squadra. E coi biancoverdi del Guarani ci prova anche il fratello Cassius. Ma Dona Leny preferisce continuare a lavorare. Rimarrà, tra l’altro, presto vedova.
Il tecnico del Guarani si chiama Zè Duarte e dispensa professionalità. Sarà come un nuovo padre per Júlio César. Che diventa il Tedesco. Dieci anni al Guarani e arriva la Nazionale. Ma davanti trova un monumento come Oscar. L’esordio nella Seleçao del richiamato Telê Santana, l’8 aprile 1986 a Goiania, è una partita che non vedremo più: Brasile–Germania Est 3–0. Poi alla vigilia di Messico 1986, Oscar viene messo da parte. E Júlio César viene universalmente eletto il miglior difensore centrale della competizione. Un esordiente veterano con la forza fisica e quella dei nervi distesi. E si becca un altro soprannome, sinistro e puntuale come un temporale messicano: La Muraglia Nera. Al Jalisco di Guadalajara il quarto di finale è Brasile–Francia, ma per Platini e soci è come se fosse in trasferta: sulle tribune una grande onda gialla. Una bandiera verdeoro costa il doppio di una francese e una maglia di Zico costa il triplo della maglia di Platini. «È meglio di una porta blindata», prova a smontare Júlio César il tecnico francese. A disturbare il tedesco anche Marzia, una splendida ragazza messicana che, pur di avvicinarlo, s’intrufola dappertutto, anche nelle conferenze stampa. Nessun riscontro. È una partita stupenda. Macchiata solo dal protocollo dei calci di rigore. La Seleçao esce di scena e il Tedesco sbaglia un penalty (in ottima compagnia). Il portiere francese Bats, che ha già parato un rigore a Zico, dice a Socrates «Scommettiamo che me lo tiri a destra?». E proprio lì lo prende. Júlio César è stato il migliore in campo del Brasile e giocando tutti i supplementari con un infortunio. Si carica sulle spalle non solo la sconfitta, ma il peso della Nazione: «Sono andato sulla palla tranquillo e quando l’ho vista finire sul palo, volevo sprofondare. Mi vergogno di questo errore e non mi sento più degno di indossare la maglia della Nazionale, perché l’ho fatta troppo grossa. Credetemi non ho il coraggio di tornare a casa. Mai in vita mia ho provato una delusione così forte». La Francia concede l’onore delle armi. Platini promette che, quando tornerà nella sua scuola calcio di Perpignano, dirà ai suoi allievi di ricordare il goal di Careca.
Le grinfie del calcio europeo arrivano e Júlio César va al Brest, dove fa coppia centrale col Campione del Mondo Brown. In Francia avevano fallito Jairzinho e Paulo Cesar e il tedesco riesce a riscattarli. E vince una Coppa di Francia al Montpellier. Anche se si adatta in fretta al gioco a uomo, la Nazionale abbottonata di Lazaroni non lo vede più. C’è una florida generazione di difensori centrali: Mauro Galvão, Mozer e Ricardo Rocha, i tre presunti titolari. Poi Aldair, Ricardo Gomes e André Cruz. Che rifila una gran punizione a Zenga in amichevole, ma non giocherà nemmeno lui. Per qualcuno, Ricardo Gomes al posto di Júlio César è una bestemmia. «La convocazione dei ventidue ha tenuto conto prima degli aspetti politici che di quelli tecnici. Non ho pagato solo io, ma anche gente come Neto e João Paulo». In compenso a Italia 1990 Lazaroni porta Renato Portaluppi. Forse Júlio César paga la scarsa intesa con Geraldão nel sonoro 0–4 in Coppa America contro il Cile. Lazaroni gli concede un’altra chance contro l’Olanda in amichevole, ma la porta è chiusa. E Pelé s’infuria. Il paese resta freddo per una squadra che non capisce. Non capisce perché cinque difensori, perché Dunga giochi sdraiato. Che è un modo brasiliano per disprezzare il tackle. Si esce agli ottavi contro l’Argentina. Mentre Careca scarica addosso al tecnico tutte le colpe e se ne va in vacanza nella sua fattoria di Campinas, la stampa brasiliana di Lazaroni dice: «Deu burro (è uscito l’asino)».
Dopo un mese di report positivi dalla Francia e in assoluto silenzio, il 13 maggio 1990 Júlio César è intanto atterrato all’aeroporto di Torino–Caselle: è il nuovo difensore centrale della Juventus di Maifredi. La stampa locale, solitamente attenta, non se ne accorge nemmeno. E al Tedesco va bene così. «Sinceramente non è che mi dispiaccia leggere un articolo su di me o pubblicata una mia foto. Soltanto vorrei non accadesse tutti i giorni». Viene accontentato e qualcuno, come Vladimiro Caminiti, avvisterà sintomi di razzismo. Che merita ancor meno spazio. «Forse qui molti pensano che tutti i brasiliani vivano ballando samba e bevendo Caipirinha. Mica è vero. Come non è vero che tutti gli italiani suonano il mandolino o mangiano la pizza. Del Carnevale di Rio so quanto voi, l’ho visto in televisione». La Nazionale di Bearzot, dopo la “tragedia” del Sarriá, la conosce invece quasi a memoria. Porta a Torino la fidanzata e Dona Leny. Gioca ogni tanto a biliardo, che è l’unico filo che lo tiene legato al padre. Anche se Boniperti non c’è, si prova a perpetuarne i successi. E i silenzi. Júlio César parla poco ed è titolare inamovibile. Non lo smuove nemmeno Galia che, anzi, ci rimette una caviglia in allenamento. Finché Gianni Agnelli benedice l’ossimoro: «Sembra un tedesco, non un brasiliano. Eppure l’abbiamo comprato per un pezzo di pane». Appena 250 milioni di lire. Un giocatore con la muscolatura tipica dei giocatori di colore dà molto lavoro ai massaggiatori. Ma non teme gl’infortuni. Semplicemente perché nelle mutandine tiene un “patuà”, un amuleto fatto di osso di gatto.
Dai tempi di Josè Altafini, quasi vent’anni, non arriva un sudamericano alla Juve. Guai a provare a risalire all’ultimo difensore. La Juve maifrediana ne prende cinque dal Napoli in Supercoppa, ma viene presto assorbito come calcio d’agosto. A Taranto lo snodo dell’ottimo avvio di stagione, dove la Juve perde inopinatamente: Maifredi sacramenta e promette: «Qualcuno a novembre va via. In ritiro da domani». Il Taranto ha vinto proprio grazie a un clamoroso buco di Júlio César, ma la partita conta poco. Non partirà nessuno e a un certo punto la Juve è in testa alla classifica, imbattuta. Perde solo a Bari, dove Júlio César è assente. Poi si fa cacciare per proteste nel derby, ma anche il Torino è in dieci. Assente anche col Cagliari che, incredibilmente, rimonta due goal al Delle Alpi. E a San Siro dove il Milan di Sacchi imperversa. Rientra contro il Napoli in casa e spacca in due la partita. Quando attraversa il campo lanciatissimo, costringe il portiere Galli al cartellino rosso. La Juve vince e Júlio César chiude in attacco. Ma col Genoa presta il fianco a Skuhravý e Maifredi non ci gira intorno: «Abbiamo preso un goal che non puoi vedere in Serie A». Júlio César apprezza la (nuova) juventinità ed è strutturato per reggere l’urto. È lui che prova a convincere Baggio a tirare il rigore di Firenze. Le goleade contro Roma, Inter e Parma sono i fuochi fatui di una Juve che, dopo svariati lustri, scende dall’ottovolante fuori dall’Europa. È il momento del Trap, che esalta la visione di gioco e il tempismo nelle chiusure della Muraglia Nera. Si afferma adesso come libero naturale, disimpegni in guanti gialli e prepotenti avanzate. Ma stare accanto a Kohler e Reuter per un tedesco (nero) deve aver avuto un effetto balsamico. Coi tre (e non solo) il Trap cementa la “sua” Juve. Che è l’unica a tenere il passo del Milan di Capello. Júlio César segna contro la Cremonese con una sassata su punizione. Identica a quella che aveva sedato il Parma. Quella di Cremona è la partita numero 1.000 della Vecchia Signora in Campionato. Intanto è tornato anche Boniperti. Proprio nella peggiore partita di Júlio César, la scia del Milan svanisce. Tre svarioni nel derby contro il Torino, come se, ogni tanto, si avvalesse della facoltà di non difendere. In quel 5 aprile 1992, giornata elettorale decisiva, il Milan dà spettacolo contro la Samp per l’allungo che significa scudetto. Agnelli disegna così la curva dell’attenzione: «Ogni tanto Júlio César si sente come sulla spiaggia di Copacabana». Ma nella finale in cui sfuma la Coppa Italia, Júlio César è fuori per squalifica. La muraglia tiene anche se Trapattoni prova quella zona che Maifredi aveva abiurato. Nessun patuà può invece resistere a un contrasto con Thern: salta cinque mesi di una squadra anonima. Non va più allo stadio nemmeno Agnelli. Per alleviare la sofferenza, Júlio César se ne torna a Campinas. Rientra e, durante un’altra pennichella, regala il goal all’Inter. Si riscatta subito segnando il goal vittoria ad Ancona. Che è una piccola svolta. La Juve travolge Torino, Milan, Lazio e Fiorentina. Sprinta e vince la Coppa Uefa. Intanto c’è un nuovo tedesco, Andy Möller.
Quando Júlio César va via, stavolta va proprio in Germania. Anzi nella grigia Ruhr. In quel Dortmund, per qualcuno, manierato, quasi un cimitero di elefanti che corrispondono agli scarti della Serie A italiana. Ma che vince due campionati su quattro, diventa Campione d’Europa e del Mondo. È il finale col botto dei trentaquattro anni. Il passaggio al Botafogo non lascia tracce. C’è un proverbio brasiliano che dice che “si torna a casa per raccontare la storia, non per continuarla”. Qualcuno ricorda un suo tiro che, timbrando la traversa, rimbalza quasi a centrocampo. Molti invece hanno proprio dimenticato Júlio César. E a lui va bene così.
3 commenti:
Ricordo ancora una sua bomba che colpì la traversa e palla che rimbalzo fino quasi a metà campo...
DEVASTANTE
Un difensore tremendo, formava una coppia con Kohler di ottimo livello.
Lo ricordo ai mondiali col Brasile, elegantissimo e potente.
Qui da noi avrebbe meritato di più, e Maifredi gli fece fare delle brutte figure con un assetto di squadra scriteriato.
Poi si è "vendicato" col Dortmund, pieno di ex juventini frettolosamente scaricati...
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