martedì 19 marzo 2013

PUSKÁS E L’ARANYCSAPAT

La seconda Guerra Mondiale è finita da poco ed anche l’Ungheria, come l’Austria e la Cecoslovacchia, risente enormemente dei disastri lasciati dal conflitto e delle contingenti difficoltà in cui versa il paese. L’ambiente calcistico deve sopportare anche un vero e proprio saccheggio dei vivai da parte delle grandi squadre europee, ma l’ancora di salvezza è rappresentata dal grande interesse dell’Esercito ungherese per questo sport. È, infatti, sul telaio della squadra dell’Esercito, ossia dell’Honved, che la Nazionale magiara da vita ad un glorioso periodo che la porta ad essere ammirata in tutto il mondo, a tal punto da essere nominata Aranycsapat, ovvero la squadra d’oro.

A cominciare dalle Olimpiadi del 1952, la squadra capitanata da Ferenc Puskás consacra la propria supremazia in Europa. Il 21 luglio di quell’anno anche gli olimpionici italiani di calcio si rendono conto della forza di questa squadra e, nonostante la presenza di campioni quali Pandolfini, Venturi, Neri, Corradi, Bugatti, per citare i più noti, la squadra azzurra subisce una sconfitta secca e senza appello (3-0). In semifinale, il rullo compressore granata, sconfigge anche i campioni uscenti della Svezia e, nella finalissima, l’Ungheria, confermando un momento di grazia, supera nettamente (2-0) anche la Jugoslavia, vincendo la medaglia d’oro.
Questa squadra è un insieme di grandi talenti, resi ancor più forti da un modulo tattico, non originale, ma sicuramente ideale per i tempi. Potendo contare contemporaneamente su un nucleo prodigioso di fuoriclasse, il tecnico Gustav Sebes allestisce una tattica assai spregiudicata ed altamente spettacolare; ripudiato il libero o difensore aggiunto, l’Ungheria si schiera con tre difensori in linea davanti al portiere, due autentici mediani, un centravanti arretrato e quattro attaccanti.
La difesa può contare su un solo uomo di vera classe, il portiere Gyula Grosics, numero uno dell’Honved. Davanti a lui, la retroguardia è composta da Buzánszky, Lantos, Lóránt e Zakarjás; nessuno di questi calciatori raggiunge la superba classe dei compagni di squadra, tanto che la difesa viene considerata il vero e proprio tallone d’Achille della compagine magiara. Il quadrilatero di centrocampo si compone di un poker irresistibile di giocatori. Più arretrato giostra József Bozsik, ineguagliabile mediano di propulsione, la vera cinghia di trasmissione del motore ungherese; viene ancor oggi considerato il miglior mediano di ogni tempo, per tecnica, visione di gioco e carattere.
Perno della manovra è Nándor Hidegkuti, finto centravanti, a cui viene attribuita la paternità della classica figura del centrattacco arretrato, mentre la mossa fu in realtà un evento occasionale, che accadde quando si rese indisponibile il titolare della maglia numero nove, Palotas. Hidegkuti mette a disposizione tutto il suo immenso talento nell’interpretare il ruolo, risultando l’elemento cardine di tutte le azioni ungheresi, che sono piuttosto semplici: una volta venuto in possesso di palla, Nándi smista su uno dei due estremi laterali, giocando in posizione di interno centrale; in questa maniera, riesce a creare grandi spazi per gli inserimenti da dietro dei due reali attaccanti, Puskás e Kocsis.
La “W” a tridente si è così trasformata in una “M” a due punte e ciò sembra una rivoluzione tattica, ma tale figura è stata anticipata già all’inizio del secolo da José Piendibene nel Peñarol con il famoso attacco ad abanico, ovvero a cuneo rovesciato. Sulle fasce, due lavoratori dotati di tecnica e capacità realizzatrici: a destra, Zoltán Czibor, abile nel dribbling e nel tiro piazzato, chiamato a coprire le folate offensive dei compagni ma, nel contempo, a spingersi all’attacco per tentare la soluzione personale ed a sinistra, il più modesto Toth (spesso sostituito dal più anziano Budai) in qualità di uomo di raccordo e cucitura delle azioni.
I veri protagonisti della squadra sono però i due attaccanti: Ferenc Puskás e Sándor Kocsis. Il primo, colonnello dell’esercito ungherese, possiede qualsiasi dote richiesta ad un calciatore, escludendo forse il colpo di testa. Nel corso della propria carriera, Öcsi (ovvero, il ragazzino) realizza 1.328 reti, tra partite di club e di Nazionale. È perfetto in tutto: stop, tiro in corsa e da fermo, dribbling, lancio a corta e lunga gittata, nello stretto e nei larghi spazi. Sándor Kocsis è prestante, seppur abbastanza filiforme e fa dello stacco imperioso il suo colpo vincente. L’elevazione è la sua caratteristica principale: saltando un attimo prima od un attimo dopo l’avversario, riesce sempre e comunque ad arrivare all’impatto al momento giusto. È uno specialista supremo, anche se questa non è la sua sola qualità.
La fama dell’Aranycsapat raggiunge livelli altisonanti, tanto che sir Stanley Rous, presidente della Federazione inglese e futuro presidente della Fifa, invita gli ungheresi a giocare contro l’Inghilterra, ovvero contro gli inventori del football. La Nazionale inglese non ha mai perso a Wembley anche se, in verità, il mitico stadio di Londra era stato conquistato nel settembre del 1949, quando la Nazionale albionica era stata sorprendentemente sconfitta per 2-0 dall’Irlanda, ma lo smacco era pur sempre rimasto in un ambito britannico.
Sebes è talmente sicuro della grandezza della sua squadra, che lascia agli inglesi la scelta del luogo e della data. Rous indica ovviamente Wembley ed il mese di novembre, ben sapendo che è il mese preferito dai calciatori inglesi, col suo freddo pungente ed il terreno allentato, che favoriscono le qualità atletiche. Gli ungheresi, inoltre, sono a fine stagione, alla vigilia del letargo invernale, mentre il campionato inglese entrava nel vivo.
L’home record resiste da novanta anni quando, quel pomeriggio di quel 25 novembre 1953, che resterà nella storia, con la direzione dell’arbitro olandese Horn, gli scatenati ungheresi lo sbriciolano, travolgendo l’Inghilterra, in virtù non soltanto di un superiore repertorio individuale, ma anche di un gioco nuovo, che faceva improvvisamente apparire vecchio e superato l’invidiato sistema.

Questo il racconto di quella mitica partita: «Vedi quel tipo basso e ciccione? Lo faremo a pezzi, insieme a tutti i suoi compagni!»
Questa non troppo profetica frase, viene pronunciata pochi minuti prima dell’inizio della partita che avrebbe cambiato la storia del calcio. Narra la leggenda che il bislacco profeta fosse il difensore centrale e capitano degli inglesi, il grande Billy Wright. Alla luce di quanto sarebbe accaduto, il capitano inglese, ha sempre sdegnosamente negato: «Non ho mai parlato di ciccione, notai solo che le scarpe degli ungheresi avevano, sotto la caviglia, una forma di pantofola. Non sono neanche attrezzati, dissi al mio amico, ma purtroppo lo erano eccome».
Il calciatore basso e ciccione si chiama Ferenc Puskás e quando Wright prova ad affrontarlo, lui, spalle alla porta, piroetta su sé stesso facendosi quasi una finta, accarezza il pallone con la suola dello scarpino, per poi girarsi e mettere in rete uno dei goal più memorabili di ogni tempo. Dopo appena cinquanta secondi, l’Ungheria è già in vantaggio e, dopo nemmeno mezzora, vince 4-1.
«È stata una gara tra cavalli da corsa e cavalli da tiro», commenta Torri Finney, anche lui tra gli undici traumatizzati in campo, insieme agli oltre centomila spettatori.
Dopo oltre cinquanta anni gli inglesi ricordano ancora quel pomeriggio: il “Sunday Times”, in occasione del cinquantesimo anniversario della partita, ha spedito un cronista a Budapest, per scoprire che nella città vecchia c’è un bar che si chiama “6-3”, cioè il risultato di quel giorno; il Parlamento magiaro ha dedicato una seduta per ricordare «il giorno in cui una gara sportiva diede dignità al popolo ungherese, che ancora risentiva delle tante sofferenze patite durante la Seconda Guerra Mondiale».
Come si può capire, è stata molto più di una partita di calcio: gli inglesi se ne stavano meravigliosamente isolati, intangibili sovrani di un’altra dimensione, superiore a tutte le altre; gli ungheresi, campioni olimpici, erano solo i sudditi di uno stato satellite comunista. La cortina di ferro era impenetrabile e, per gli inglesi, informarsi sull’avversario era considerato disdicevole; alla vigilia del match, Gianni Brera incontra il direttore tecnico inglese, Winterbottom, per chiedergli se avrebbe marcato a uomo, con lo stopper, il falso centravanti Hidegkuti.
«Winterbottom mi guarda come una dama può guardare in giardino una lucertola scodata. Il nostro stopper seguirà Hidegkuti fin quando lo riterrà opportuno», avrebbe poi riportato il grande Brera. Finì trentacinque tiri in porta a cinque per i magiari. Gli inglesi giocarono da retrogradi (il 2 marca l’11, il 3 marca il 7, il 5 marca il 9, etc.), ma in realtà nessuno riuscì a marcare nessuno, perché l’Ungheria aveva inventato il calcio totale, portando in attacco quattro, cinque od anche sei giocatori. Ruoli intercambiabili, un centravanti che era uno specchio per le allodole, un laterale difensivo (Buzánszky) che faceva l’ala ed una tecnica di base eccezionale.
Forse la più grande formazione di tutti i tempi. Quel giorno, a Wembley, nacque l’idea di squadra, ben oltre le individualità: «Scherzavo con i compagni della difesa e dicevo di non preoccuparsi. Se prendiamo un goal, ne facciamo altri due», racconta Hidegkuti.
«Il nostro allenatore, Gusztav Sebes, ripeteva sempre che la dura lotta tra capitalismo e socialismo era più forte nel calcio che altrove; lui faceva di ogni partita un affare politico», spiegò il portiere ungherese Gyula Grosics. Per il cronista del “Times”, le maglie granata degli ungheresi trasformarono lo stadio in un luogo popolato da sguscianti spiritelli rossi.

Logico, a questo punto, pensare che l’Aranycsapat sia la grande favorita dei mondiali svizzeri del 1954, ma il destino si fa beffa della grande superiorità della nazionale magiara; infatti, è sconfitta in finale dalla Germania, che vince grazie anche a qualche aiuto chimico, tanto è vero che quasi tutti i giocatori tedeschi verranno colpiti da uno strano morbo itterico, con pesanti conseguenze che mineranno il fisico, tanto da costringerli ad interrompere momentaneamente l’attività.
Gianni Brera, però, non è d’accordo: «Mi picco di essere stato il solo o comunque uno dei pochi ad intuire che la finale avrebbe avuto un esito di origine agonistica più che tecnico tattica. I magiari mi hanno dato ragione infilando subito i tedeschi e confermando di non sapersi difendere. I loro schemi sono pervenuti a creare non meno d’una decina di palle goals ma quasi tutte sono finite addosso al portiere Turek, che ci ha fatto la figura del campionissimo. In realtà, gli ungheresi boccheggiavano: giunti a concludere, non avevano più né lucidità né forza per indirizzare la palla. Conclusi i mondiali 1954, i tedeschi sono tutti finiti all’ospedale con l’epatite: è voce comune che si siano drogati come cavalli, secondo dettami biochimici allora ignoti agli altri comuni mortali. Sta di fatto che la loro vittoria aveva sorpreso troppa gente per non sembrare anche un furto. Sullo slancio di quella, però, i tedeschi seppero mirabilmente restare alla ribalta del calcio mondiale. Andassero dunque pianino, i malevoli e gli invidiosi, a pigliarli per ladri di titoli e di onori internazionali. Qualità di vivaio e civiltà sportiva garantiscono per loro».

Così Puskás racconta quel Mondiale: «Sono passati tanti anni dal giorno della finale, ma non riesco a dimenticare e molta gente mi chiede e si chiede ancora come fu possibile che a Berna consentissimo alla Germania di vincere il titolo, dopo averla battuta per 8-3 negli ottavi di finale e dopo essere stati in vantaggio per 2-0 nell’incontro decisivo. La verità è che io stesso non so darmi una risposta, tutto quello che accadde in quei novanta minuti mi sembra inspiegabile, come il fatto di aver perso l’opportunità di trascorrere le vacanze accanto alle nostre famiglie, come ci aveva promesso il governo di Budapest; era il regalo se fossimo diventati campioni del mondo. Nessuno dubitava che questo sarebbe accaduto, specialmente i giornali sportivi che ci avevano già attribuito l’etichetta di squadra più forte del mondo, senza neppure aspettare che la finale venisse giocata, dimenticando così due cose fondamentali: che il pallone è rotondo e che il nostro momento più brillante lo avevamo vissuto a cavallo tra il 1950 ed il 1953. Raggiungemmo proprio quell’anno il massimo della fama, battendo l’Inghilterra a Wembley per 6-3. Sfatammo così trionfalmente il tabù di una squadra che, da che calcio era calcio, non aveva mai perso in casa con nessuno. In realtà la grande Ungheria di cui facevo parte era nata nel 1946, dalle macerie stesse della guerra e, come tutte le squadre, era soggetta ad una fatale involuzione e ad un’altrettanto fatale caduta. Nel 1954 era già cominciata la nostra discesa e ce ne accorgemmo troppo tardi, quando oramai la Germania ci aveva strappato il titolo di campioni del mondo con un incredibile 3-2. Ma prima ancora che dai tedeschi, fummo battuti dalla nostra supponenza, da quell’invisibile patina che si sovrappone alla forza di volontà, quando gli elogi sono troppo numerosi. L’appannamento fu inevitabile, nonostante avessimo raggiunto un ottimo livello di concentrazione nei trenta giorni in cui eravamo rimasti in ritiro sull’isola Margarito, in mezzo all’Adriatico. Gli allenamenti non erano però così rigorosamente scientifici come quelli di oggi e giocammo soprattutto una serie di partite amichevoli. Non dimenticherò mai il giorno in cui battemmo l’Inghilterra, a Budapest, per 7-1. Uscendo dagli spogliatoi ci sentimmo come dei veri e propri idoli, adorati da tutto il paese, acclamati per la strada, in tutte le città ungheresi. Giungemmo in Svizzera due settimane prima della nostra partita d’esordio, ed alloggiammo a Salothuru, sulle Alpi. Tutto era splendido, come il nostro debutto contro la Corea del Sud, che venne sbaragliata per 9-0. Poi venne il turno della Germania: la battemmo per 8-3 e questo fu il principio della fine; io mi infortunai dopo uno scontro con Liebrich ed i tedeschi approfittarono della partita per studiare il nostro meccanismo di gioco. L’infortunio mi impedì di scendere in campo nelle due successive battaglie che disputammo contro Brasile ed Uruguay. Contro i verdeoro, passammo in vantaggio per 2-0, ma i nostri avversari riuscirono a pareggiare e vincemmo, con un po’ di fortuna, per 4-2 in mezzo a colpi bassi, polemiche ed espulsioni. Contro gli uruguagi si ripeté lo stesso film; passammo in vantaggio per 2-0, subimmo un altro pareggio e sul 2-2 fummo fortunati a segnare con Kocsis proprio nel momento in cui Rodriguez Andrade, il miglior difensore mai visto in tutta la mia carriera, si trovava fuori del campo infortunato, a causa di uno scontro con Czibor. Il risultato finale fu di 4-2 e ci qualificammo per la finale, ma ci eravamo mostrati di nuovo battibili. Il 4 luglio 1954 giocammo la finale a Berna. Ancora una volta ci portammo sul 2-0 con un goal mio ed uno di Czibor; io ero stato autorizzato a giocare soltanto a mezzogiorno. Nel finale del primo tempo ci deconcentrammo, perdemmo il controllo della palla e ci ritrovammo negli spogliatoi sul 2-2. La Germania era una squadra molto protetta in difesa e con due campioni straordinari, Fritz Walter, il regista, e Rahn, un attaccante inarrestabile; fu quella forse la prima squadra moderna ad usare la tattica di gioco in una chiave collettiva. Eckel scese in campo quel giorno come stopper su di me, ma si spostò spesso anche su Czibor e su Kocsis. Ci impedirono con piccoli trucchi ostruzionistici di dare libero sfogo alla fantasia, che era la nostra forza, e vinsero con la sola qualità in cui ci erano superiori: la potenza. Rahn mise a segno il goal del 3-2 e sanzionò una sconfitta che meravigliò il mondo intero. Ma i primi a restarne stupefatti fummo noi».

Gustav Sebes, responsabile tecnico della Nazionale e vice ministro dello sport ungherese, dice, con la saggezza del senno di poi, che è stato un grosso errore schierare Puskás ancora convalescente, cedendo al suo desiderio di ricevere la Coppa del Mondo nelle proprie mani e quella meravigliosa, irripetibile squadra, imbattuta per quattro anni, si sciolse come neve al sole, contro avversari che corsero come topolini siringati. La gente che scende in piazza a Budapest, dopo quel 3-2 truccato, protesta anche contro il regime; c’è chi lo considera il seme della rivolta del 1956, quando i carri armati sovietici entrarono a Budapest, costringendo i migliori rappresentanti della Nazionale ungherese a riparare all’estero, mettendo la parola fine sulla gloriosa storia dell’Aranycsapat.
Il ciccione piccoletto col ciuffo impomatato, Ferenc Puskás, giocò mezzo morto la finalissima svizzera, dopo che un infortunio lo aveva azzoppato nella prima fase del torneo e qualcuno gli scrisse il necrologio anticipato; ma l’uomo che inventò il calcio moderno, si sarebbe preso la soddisfazione di vincere cinque scudetti e tre Coppe dei Campioni con il Real Madrid, l’ultima nel 1966, a quasi quarant’anni. Felice ed imprendibile come in quel pomeriggio inglese del 1953.

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