Il primo anno con Casiraghi e Rui Barros fa faville, vincendo una Coppa Uefa e una Coppa Italia, facendolo entrare nel cuore dei tifosi che lo accostano a un altro idolo, Pietro Anastasi, anch’esso siciliano, anch’esso esploso in provincia.
«Da quando ero ancora un moccioso, l’unica cosa che contava per me era segnare, a dispetto di tutti, compagni e avversari. Una voglia sfrenata, che non è mai finita. Ma io non potevo cambiare, perché se perdevo quella mia voglia matta di goal perdevo tutta la mia forza di calciatore. Da noi, per emergere, devi avere la fortuna che qualcuno venga a scovarti. Non ci sono scuole calcio, i club investono poco nel settore giovanile. Ho conosciuto tanti ragazzi che potenzialmente sarebbero stati dei talenti e che si sono scoraggiati. Io ce l'ho fatta, perché ho avuto il coraggio, magari l'incoscienza, di puntare tutto sul calcio: dopo un anno e mezzo che aggiustavo le gomme, e dopo, sfinito, mi andavo ad allenare, ho deciso che dovevo scegliere. E ho scelto il calcio, dandomi una scadenza. Se non avessi sfondato, mi sarei rimesso a bottega. Non sono uno sprovveduto. Gli anni che ho passato a Messina mi hanno insegnato qualcosa, anche perché ho avuto allenatori bravi a disciplinarmi. Ho sempre cercato di giocare per la squadra, almeno finché non vedo la porta. In quel momento scompare tutto. Siamo io, lei e il portiere. Se capisco che c'è il varco giusto, io ci provo. Un attaccante deve ragionare così e fidarsi del proprio istinto. Altrimenti quando segna?»
Attaccante tutto istinto vive il suo momento di maggior fortuna con l’esordio nella Nazionale di Vicini per i Mondiali casalinghi del 1990. Parte in panchina come riserva di Gianluca Vialli, ma il suo ingresso in campo è un’esplosione. Chi non ricorda i suoi occhi spiritati in quel Mondiale che ci vide al terzo posto? Uno sguardo che è entrato nella storia. La capocciata contro l’Austria, ai Mondiali italiani, gli ha stravolto, esaltato e distrutto la vita; lo stato di forma assolutamente pietoso di Vialli e Carnevale impone il suo impiego e Totò risponde. Trascinato-trascinatore da-di un’intera nazione, vive il Mondiale con un’aggressività, un’intensità e una pressione disumane: a Mondiale finito è completamente svuotato, prosciugato.
«Speravo di giocare qualche minuto, ero già al settimo cielo per la convocazione in Nazionale. Certo, in allenamento davo tutto me stesso per convincere l'allenatore, ma nemmeno un folle avrebbe mai potuto immaginare cosa mi stava per accadere. Ci sono periodi nella vita di un calciatore nei quali ti riesce tutto. Basta che respiri e la metti dentro. Per me questo stato di grazia è coinciso con quel Campionato del Mondo. Vuol dire che qualcuno, da lassù, ha deciso che Totò Schillaci dovesse diventare l'eroe di Italia '90. Peccato che poi si sia distratto durante la semifinale con l'Argentina. Una disdetta: abbiamo preso solo un goal in quell'edizione dei Mondiali, e quel goal ci ha condannati».
I fiumi di inchiostro, i chilometri di pellicola e gli ettari di immagini a lui dedicate lo innalzano a livelli di popolarità da psicosi; facile pronosticare che avrebbe pagato tutto quel clamore per il quale era inadeguato sotto vari punti di vista. Alle largamente preventivabili difficoltà della stagione successiva i media, la critica e i tifosi avversari e non (Totò era diventato un personaggio nazional popolare, come si diceva allora) gli presentano il conto, ovviamente troppo salato per lui.
Con la Juventus due lunghe stagioni d'ombra: undici reti in ventiquattro mesi, pochine. In crisi con la zona di Maifredi, in difficoltà persino negli schemi dell'italianista Trap. E le polemiche continue: le voci sul suo matrimonio in precario equilibrio; i cori razzisti in ogni stadio («Ed è triste che siano state le città del Sud, Bari e Napoli, ad avermi insultato di più»); il «Ti faccio sparare» rivolto al bolognese Poli («Era una frase detta così, nella foga del momento, ma non dovevo dirla: ne pagai a lungo le conseguenze»); il pugno contro Baggio («Nella Juventus e in Nazionale siamo diventati amici. Dividevamo la stessa camera, lui parlava poco, io niente. Eppure, nonostante questo, una volta facemmo a cazzotti. Anzi, fui io a rifilargli un pugno»), segni grandi e piccoli di un disagio, di una solitudine. Però, fiera. E tutto si può dire di Salvatore Schillaci fuorché dubitare della sua autenticità di animo persino esagerata. Per questo la fredda Torino non l'ha mai contestato né troppo fischiato, per questo le sue clamorose gaffe sintattiche suscitavano sorrisi ma non scherno.
«Sono rimasto un bravo ragazzo e lascio la Juventus senza polemiche. L'arrivo di Vialli mi ha messo fuori gioco, comunque auguro ai bianconeri ogni fortuna. Oramai la Juve è solo un ricordo: saluto i tifosi, gli ex compagni, Boniperti e Agnelli, tuttavia mi sento già interista purosangue. Ho ottenuto il massimo, sognavo la maglia neroazzurra e avrei accettato di restare fermo se non fossi riuscito a raggiungerla. I soldi non sono tutto. Tra l'altro vado a guadagnare meno. L'Inter mi piace, ha programmi importanti. Riparto da zero a ventisette anni e cerco una rivincita».
Gli anni seguenti occupano un posto marginale nelle cronache sportive e costituiscono argomento di dibattito per la stampa scandalistica e per il pattume televisivo. Nella sua vicenda umana e professionale c’è molto della società italiana che si apprestava a pagare il conto, salatissimo, dei fiammeggianti anni Ottanta. Un giocatore che ha dato tutto ed ha vinto poco, ma che ha saputo sfruttare la grande occasione che ha avuto.
VLADIMIRO CAMINITI LO RACCONTA NEL 1991
Prendiamo Schillaci, che la fantasia popolare ha soprannominato Totò, come il paradigma di una certa Sicilia, soprattutto di una certa Palermo, nuova e antica, ma non originale, semmai tormentata e dolorosa, la Palermo del quartiere CEP dove questo calciatore dalle straordinarie qualità istintive è nato, andando a farsi notare verso i sedici anni come scatenatissimo centrattacco dell’Amat.
Il Messina lo acquistava quando aveva diciotto anni; nella squadra peloritana, Schillaci riusciva non senza fatica a mettere in chiaro le sue risorse di attaccante solista tanto egoista da apparire egotista, un pezzo d’autore, un calciatore di ruolo centravanti che si batte soprattutto alla luce del goal conquistato di forza, con lo scarto saraceno dei lombi, con l’orgoglio smisurato del povero.
Gli attaccanti devono essere poveri, per risultare a conti fatti ricchi; e arricchirsi sul serio. Più Salvatore Schillaci sale di categoria, più si affina la sua azione di vertice rampante del gioco, in B con il Messina fa molto meglio che in C, tredici goal nel 1988, ventitré nel 1989 quando, in mezzo a mille titubanze, quel grande dirigente sgombro da pregiudizi che è Boniperti si decide a ingaggiarlo, e il picciotto del CEP corona il suo sogno lussurioso: giocare nella più bella e gloriosa squadra d’Italia per la quale ha sempre fatto il tifo, fin dall’età scolare. Che poi la scuola l’abbia spesso marinata per giocare a calcio, dopo avere inghiottito frettolosamente un pane con le panelle, è inevitabile; così nascono i grandi calciatori, quelli con la vocazione nel sangue.
Grande attaccante, Schillaci è di sicuro. Osservatori superficiali si limitano all’aspetto dell’egoismo per bocciarlo. All’inizio della sua attività nella Juventus, Totò era visto male e mal giudicato anche dai migliori notisti torinesi, cito Salvatore Lo Presti e lo stesso Enzo D’Orsi (che personalmente metto un palmo su di altri); ma si sbagliavano, e lo avrebbero ammesso. Quanto al sottoscritto, il cammino inverso.
Colgo subito la dote primaria del giocatore nelle sue partite agostane, lo saluto come il centravanti atteso dopo Anastasi, ma nei rapporti diretti trovo infinite difficoltà non dico dialettiche ma di intendimento, proprio per l’estrazione sociale diversa, il povero scrivano borghese, figlio di violoncellista, e il ragazzo povero del CEP, quartiere palermitano che è un risvolto di umanità anche andata. Che poi Schillaci ne sia risalito fino a conquistarsi il suo posto al sole, va tutto a suo onore, della sua fierezza, del suo coraggio, della sua tenacia, da calciatore provetto nell’istinto, capace di ogni più singolare prodezza tecnica nell’attimo fuggente, acrobatico e spettacolare.
Vanno così a incasellarsi come gemme luminose i suoi sei goal al Mondiale, con i quali vince la concorrenza con lo stesso più completo Luca Vialli; sei goal ardimentosi e tecnicamente perfetti, che ne dipingono tutta la classe di solista egotista e lussurioso; che vive per il goal e insegue il goal nei pomeriggi di scarsa vena ignorando i compagni; che in quelli di botta felice, magari non lo segna, ma dà un contributo fondamentale agli stessi schemi tattici, come gli chiede Trapattoni.
La sua intesa spesso felice e razziante con Baggio lo ha riproposto, anche nel campionato appena conclusosi, per alcune prodezze indimenticabili (ad esempio il goal al veronese Gregori), ma anche per il ricorrente egoismo che fa capire, meglio tardi che mai, perché Zeman, nipote di Cesto Vycpálek, e patrocinatore del calcio totale, non ci andasse d’accordo, mandandolo spesso in panchina.
L’esperienza di uomini e cose della mia Sicilia bedda, e della mia rosazzurra e sventurata Palermo, mi inducono a voler bene a Schillaci, quanto a essere nei suoi confronti molto severo come critico. A fin di bene, perché trovi una maggiore continuità di esercizio nella coralità del gioco, al servizio non solo del goal ma delle esigenze tattiche della squadra.
“HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 2002
Si parlasse solo di Mondiali, juventini da ascoltare ne avremmo moltissimi. Si parlasse solo di Estremo Oriente, il numero si ridurrebbe, ma avremmo comunque una discreta schiera di protagonisti nelle due finali di Coppa Intercontinentale vinte a Tokyo. Volendo parlare di Mondiali e di calcio orientale vissuto per un periodo più lungo di una sola partita, la scelta è obbligata: il taccuino dei ricordi è quello di Totò Schillaci, l’uomo delle Notti Magiche di Italia ‘90 che poi collezionò anche un’indimenticabile esperienza nel campionato giapponese. Oggi Totò lavora per il futuro. È, infatti, presidente dell’U.S. Palermo e gestore del Centro Sportivo Ribolla, sede per i quasi seicento bambini e ragazzi dai cinque ai diciotto anni del club. «La maggior parte di loro non mi ha mai visto giocare, ma i loro genitori sì e spesso capita che quando mi vedono si mettano a spiegare ai loro figli chi ero, come giocatore, e quello che ho fatto in quell’indimenticabile stagione 1989-90. Quell’anno resta il più straordinario della mia vita. Già in estate il passaggio dal Messina alla Juventus rappresentava il massimo delle aspirazioni, ma si trattò solo di un punto di partenza. Quella Juventus era fortissima e, infatti, vincemmo Coppa Italia e Coppa Uefa. Io, Tacconi, De Agostini, ma tutti eravamo un gruppo straordinario. Poi, sembra ieri, un sogno bellissimo: la convocazione in Nazionale e per giocare i Mondiali nel tuo paese. Era uno stimolo in più e che emozione!»
Emozione condivisa da milioni di italiani e, soprattutto, dagli juventini che vedevano il loro centravanti trascinarsi la squadra sulle spalle e condurla fino al podio iridato. Totò vinceva il titolo di capocannoniere di quel Mondiale, bissando l’impresa di un altro juventino, otto anni prima, Paolo Rossi. E il mondo intero si innamorava di quell’attaccante agile e opportunista, ma anche dotato di un bel tiro secco dalla distanza e capace di segnare in mille maniere disparate, testa compresa. Tutto il mondo sorride ammirata davanti a quegli occhioni sgranati, mentre la meraviglia è di chi scopre all’improvviso l’importanza di Totò per la Nazionale e per la Juventus.
Anni dopo quell’estate di notti magiche, Totò si inventa in un certo senso pioniere e vola in Giappone per giocare nelle file dello Jubilo Iwata. E del paese del Gol Levante, Schillaci conserva ottimi ricordi. Come i giapponesi non si sono dimenticati di lui, se è vero che questa intervista per “Hurrà” è concessa in mezzo ad altre richieste da colleghi con gli occhi a mandorla, in avanscoperta europea prima del fischio di inizio della rassegna iridata in Giappone e Corea, il 31 maggio.
Allora, Totò è proprio tutto un altro mondo? «Sicuramente e non lo si può raccontare più di tanto, bisogna viverle certe esperienze. Il livello tecnico del loro calcio, comunque, è buono ed è cresciuto di molto negli ultimi anni, anche se il football ha la concorrenza spietata del baseball e del sumo che sono un po’ gli sport nazionali. Curiosità? Beh, innanzi tutto il pubblico è straordinario: caldo, affettuoso, rispettoso. Al di là dei risultati, sia che la squadra del cuore vinca o perda. La gente compra il biglietto solo prima della partita, va ordinatamente al suo posto, con il suo bel pacchettino con lo spuntino e segue compostamente la partita. Il calcio italiano è molto conosciuto ed è anzi il più ammirato e seguito, dunque posso preannunciare che ai Mondiali sarà l’Italia la seconda squadra più amata, almeno in Giappone. Ma vedrete che il discorso sarà valido anche in Corea».
E ripartenza per il futuro più remoto: «Ho scelto di tornare a vivere nella mia Palermo perché credo negli affetti e nei valori familiari e perché sono un sentimentale. Così, a chi mi chiede quale futuro auguro ai miei ragazzi io rispondo che siamo una società seria e organizzata come un club di Serie A e che investiamo ogni nostra risorsa per cercare di preparare nel miglior modo possibile i nostri ragazzi. E così, per ognuno di loro, io spero in un grande futuro e siccome sono un sentimentale e il mio cuore è rimasto, naturalmente, bianconero sarei la persona più felice di questo mondo se un giorno qualcuno dei miei ragazzi potesse vestire la maglia della Juventus».
Non lo dice, ma lo aggiungiamo noi: e magari per regalare altri giorni da sogno e notti magiche ai sostenitori bianconeri e della Nazionale. Come seppe fare lui, il piccolo grande bomber della Juve e della Nazionale. Nelle notti magiche: inseguendo un goal e trovandone sei, arrivando sul trono dei cannonieri di Italia ‘90.
2 commenti:
Notevoli le ultime righe, quasi un saggio di storia contemporanea.
grazie ... :°)
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