lunedì 13 novembre 2023

Roberto BONINSEGNA


«Boninsegna arrivò alla Juve a fine carriera, ma restava sempre un fior di centravanti. Era capace di insultarti per un passaggio sbagliato, ma se cinque minuti dopo andavi a terra per un fallo era il primo a venirti vicino e a chiedere: “Chi è stato?”. Guardava gli avversari a muso duro, per far capire che se ci avessero riprovato li avrebbe sistemati lui». Roberto Bettega.
A 33 anni un uomo è considerato un giovane uomo, ma un giocatore di calcio è irrimediabilmente un vecchio calciatore e la sua carriera è già considerata sul viale del tramonto.
Quando arrivò alla Juventus, nell’anno 1976-77, Roberto Boninsegna stava toccando proprio questa quota. Alle spalle, una carriera lunghissima, non priva di soddisfazioni ma che, a quel punto, era ragionevole considerare più o meno conclusa.
Era arrivato all’Inter a 14 anni, il suo idolo da bambino era Skoglund: 5 anni di settore giovanile, quindi aggregato alla prima squadra. E poi a Prato. «La considerai una bocciatura. Herrera disse che era Allodi a non credere in me, Allodi diede la colpa a Neri, allenatore della Primavera. Fatto sta che mi ritrovo in B prima a Prato, poi a Potenza. Giocavo all’ala sinistra, quelli che stavano accanto a me segnavano tanto: Taccola a Prato, Bercellino a Potenza. Poi mi sono detto: contano i goal, adesso li faccio io. E sono diventato più egoista, ho cominciato ad accentrarmi».
Poi il debutto in A con il Varese. Ironia della sorte a San Siro contro l’Inter: «E ne prendiamo 5!».
A Varese prende anche 11 giornate di squalifica, poi ridotte a 9. «In Varese-Cagliari un difensore devia in tuffo di pugno un mio colpo di testa. Per l’arbitro Bernardis di Trieste è calcio d’angolo! Gli dico di tutto, lo spintono anche. E finisco a Cagliari. Non mi aspettavo di essere acquistato dalla squadra rossoblu; a Varese avevo segnato solo 5 goal da ala sinistra e loro avevano Riva. Vengo spostato al centro dell’attacco. Sono tre stagioni indimenticabili, conquisto la Nazionale».
Il presunto dualismo con Riva. «Tutto falso. Eravamo come fratelli, abbiamo vissuto per due anni nella stessa camera, tornavamo insieme in auto dall’allenamento. Abbiamo smentito per anni, poi ci siamo stancati di farlo. È vero, in campo era diverso. Ci mandavamo a quel paese».
Cagliari è soprattutto Manlio Scopigno. «Un allenatore fuori dal comune, un po’ fannullone, tatticamente bravissimo. Non sbagliava mai i cambi, anche perché noi del Cagliari eravamo davvero pochi».
Ironico, disincantato con la battuta sempre pronta. «Una volta mi sono presentato in smoking all’allenamento del mattino. Arrivavo da Venezia in aereo, dopo il Carnevale. Scopigno mi guarda e dice: “Almeno potevi toglierti i coriandoli dai capelli”. Un giorno Scopigno mi dice: “Il Cagliari ha bisogno di soldi, gli unici che hanno mercato siete tu e Riva e Gigi non vuole andar via”. Gli risposi che avrei accettato soltanto l’Inter. Affare fatto: tornavo a casa in cambio di Domenghini, Gori e Poli più un conguaglio. Non ho rimpianti per non aver vinto lo scudetto con il Cagliari. Se non mi avessero ceduto, difficilmente sarebbero riusciti a rafforzare la squadra. L’Inter finì seconda, dietro il Cagliari. Io segnai il goal della vittoria interista a San Siro che fece riavvicinare la Juventus al Cagliari».
Lo scudetto con l’Inter arriva la stagione dopo, 1970-71, anno in cui Boninsegna vince anche la classifica, successo che bisserà nel campionato seguente. «Veramente i titoli di capocannoniere sono tre. Nel 1974 mi tolsero un goal all’ultima giornata contro il Cesena; dissero che era autorete per una deviazione in barriera».
Boninsegna all’Inter gioca 7 stagioni: uno scudetto, 113 goal in campionato e disputa, il 31 maggio 1972, a Rotterdam, la finale della Coppa dei Campioni, persa contro la grandissima Ajax di Cruijff.
In Nazionale pareva avere la strada chiusa: per la fase finale del Mundial messicano, per esempio, gli era stato preferito Anastasi, ma poi un casuale incidente aveva messo fuori causa lo juventino. E Boninsegna visse così la bella avventura messicana, segnando 2 goal importanti: alla Germania Ovest nell’indimenticabile incontro di semifinale vinto nei supplementari per 4-3 e al Brasile nella finale persa per 4-1. In totale è stato 22 volte azzurro e ha realizzato 9 goal.
Nato a Mantova, il 13 novembre 1943, per vocazione e professione ha fatto il centravanti, un attaccante pericoloso, forte e combattivo malgrado un fisico ritenuto non eccezionale.
Alto un metro e 74, il peso forma oscilla sui 74 chilogrammi; forse, quando nell’estate del 1976 arrivò alla Juventus, accusava peso superfluo, ma con qualche sacrificio presto tornò in piena efficienza.
Volle chiarire subito, con i fatti, di non aver accettato il passaggio alla Juventus soltanto per strappare un ultimo, ricco ingaggio. Poteva far ancora bene, lo sentiva e accettò con entusiasmo la scommessa sul futuro.
Nei primi giorni di vigilia della stagione juventina, disse: «Al calcio muovo una critica, quella di soffocare i giovani. Io sono riuscito a strappare alla scuola un diploma, quasi violentando la mia volontà. Sono un impulsivo, sincero, franco fino alla sfrontatezza e all’inizio di carriera ho stentato parecchio. Mi considero estroso, bizzarro e lunatico, un fiammifero che si accende per niente, però sempre pronto a pagare in prima persona, a chiedere scusa».
Lo giudicano un duro, in campo e fuori, ma è soltanto persona concreta, ordinata, quasi una rarità nel mondo molto provvisorio del pallone. «Alla Juventus ho conosciuto due personaggi eccezionali: Boniperti e l’avvocato Agnelli. Una domenica resto a casa per una colica renale, la Juventus pareggia. L’indomani mi chiama al telefono l’Avvocato. “Boninsegna”, mi dice, “guarisca presto, la Juventus ha bisogno di lei. Domenica voglio vederla in campo”. Io già mi sentivo molto meglio».
La Juventus anni ‘70 era un meccanismo quasi perfetto, Boninsegna, detto Bonimba, si inserisce alla perfezione. Non una delle sue qualità sembra appannata: lo sviluppato senso tattico, la grande capacità combattiva, il tiro forte e preciso, soprattutto il fiuto del goal molto spiccato.
Il bilancio di 3 stagioni è lusinghiero: 93 partite e 35 goal, un concreto contributo alla conquista del 17° e del 18° scudetto bianconero. Troverà il modo di farsi ammirare anche in campo europeo, risultando protagonista nella conquista della Coppa Uefa.
«Quando sono arrivato a Torino, non avrei mai pensato di vincere due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia; ero però conscio del mio ottimo stato fisico e del fatto che, dovendo sostituire un beniamino della tifoseria come Anastasi, avevo il dovere di dare sempre il massimo. Le cose, soprattutto nelle due prime stagioni, andarono davvero bene, tant’è che Boniperti mi offrì la possibilità di un quarto anno di contratto, a quasi 37 anni. Ma, a quella veneranda età, preferì la sicurezza di un posto al Verona, in Serie B, alla certezza di un impiego part-time con i bianconeri».
Boninsegna ha incarnato alla perfezione lo stile di quella Juventus, che era acciaio puro. La cosa divertente è che all’epoca della campagna acquisti molti storsero il naso, dicendo che la Juventus si era invecchiata prendendo gli scarti delle milanesi (l’Inter diede Boninsegna e soldi per Anastasi).
Al primo Juventus-Inter (a Torino) fu 2-0 per i bianconeri, con doppietta proprio di Boninsegna; lo fecero marcare da tale Mariano Guida, troppo tenero e molle per poter contenere un Bonimba letteralmente scatenato.
Finale Coppa Uefa nello stesso anno: Boninsegna è infortunato, il Trap lo schiera ugualmente, non riuscirà a finire il primo tempo, sostituito da Bobo Gori. Ingaggia un duello con lo stopper spagnolo a suon di ceffoni, una cosa impressionante. Palesemente non è in grado di giocare, ma mena come un fabbro il malcapitato difensore basco; il loro duello entusiasma lo stadio.
Ancora: dopo il disastro di Germania 1974, la nuova Italia di Bernardini gioca in Olanda la prima partita di qualificazione agli europei. La formazione è un po’ cervellotica: qualche vecchio (Boninsegna, Juliano, Morini), qualche virgulto della nuova generazione (Antognoni, Rocca, Roggi) qualcuno della generazione di mezzo (Anastasi, Causio, Orlandini che marca, si fa per dire visto che non gli fece neanche il solletico, il magico Cruijff).
Boninsegna non solo segna di testa dopo cinque minuti, ma ingaggia un duello da bucaniere con Rijsbergen, il biondo stopper olandese, altro tipino non proprio accondiscendente. Per la cronaca vince l’Olanda per 3-1, con doppietta del Papero d’Oro.
Una volta confidò: «Sposai mia moglie dopo sette anni di fidanzamento. È da una vita che so tutto di lei e lei di me. E siccome siamo entrambi appagati e felici, mi ritengo un privilegiato».
Quando smette di giocare, una lunga esperienza come selezionatore della Rappresentativa di Serie C («Speravo di far carriera in Federazione»), due anni come tecnico del Mantova poi basta.
Boninsegna non è di quelli che dice “Ai miei tempi era un’altra cosa”, anche se ammette che, per dieci anni, è andato a dormire alle 22 e 30 facendo vita da atleta.
«Il calcio è sempre bello. E se giocassi oggi con tutti questi esterni a fare cross, chissà quanti goal segnerei».

GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1979
Il Risorgimento di questo nostro povero ricco calcio italiota passa inevitabilmente attraverso un centravanti longobardo, mantovano precisamente, dalla pedata gloriosa e dalla carriera carica di onori.
Parliamo chiaramente di Boninsegna detto ormai, da tutti quelli che seguono, da vicino o da lontano, le vicende del pallone, Bonimba.
Bonimba è una parte di noi e non poteva che essere la Juve la squadra del suo crepuscolo avventuroso e però grandissimo.
Ora, si pone il problema, scrivendo di questo attaccante che è presente e però già storia, monumento, mito, il problema dicevamo di raccontarlo proprio limitandolo e limitandoci al crepuscolo glorioso, agli anni juventini.
Il professional dalla carriera lunghissima e spesso trionfante meriterebbe forse una narrazione estesa, totale, dalle origini. Ma in tal modo si perderebbe il fascino di tanti particolari, sfumature, sfaccettature di questo personaggio, legate all’oggi e allo ieri ma non all’altro ieri.
Perciò raccontiamo in chiave tecnica e romantica il personaggio Bonimba dal momento del suo avvento alla Juve.
Poco tempo è passato, ma la vicenda è ugualmente densissima di momenti importanti e persino decisivi, per far luce in profondità su questo attaccante risorgimentale, capitato per caso sui palcoscenici disincantati di questo nostro calcio anni ‘60 e ‘70.
Un minimo di premessa, comunque, ci vuole. Boninsegna esplode, come cannoniere, senza macchia e senza paura, nell’isola che è già, o sta per diventare, il regno di un altro longobardo dal sinistro tonante, Gigi Riva vale a dire.
Il Cagliari di quella seconda metà degli anni ‘60 si appresta a recitare la favola bella della grandezza assoluta, e intanto si costruisce una dignità e un prestigio sulle prodezze di questi due compari assetati di goal e di gloria.
Si capisce comunque che il Risorgimento di Bonimba sarà più sofferto, più combattuto di quello di Luigi Riva da Leggiuno.
E accade, infatti, che lo scudetto più sbalorditivo dei tempi moderni, quello vinto appunto dal Cagliari, non vede più, al fianco di Riva, il Bonimba mantovano, nel frattempo approdato, meglio riapprodato, all’Inter.
Il Mundial messicano e il successivo scudetto vinto con i nerazzurri ripagano comunque ampiamente Boninsegna del mancato trionfo isolano. E si apre la lunga parentesi nerazzurra, gioie tante, specialmente all’inizio, e dolori qualcuno di troppo, specialmente negli ultimi tempi.
E siamo alla Juve, estate 1976. Un ciclo che pare finito, spezzato dal Torino, e che invece in casa bianconera stanno preparandosi a riaprire subito con gli innesti più opportuni e più discutibili, sulla carta, che mai siano stati effettuati.
Bonimba è appunto la novità più clamorosa, più contraddittoria se vogliamo. Se ne va Pietruzzo Anastasi, il funambolo dei nostri sogni goliardici, e arriva lo stagionato bomber longobardo in cerca di rivincite.
Qualche perplessità è d’obbligo. Ma non c’è manco il tempo di esternarle e già Bonimba è splendidamente protagonista. L’età non conta se il fisico e lo spirito sono integri. Ora, il fisico di Bonimba è da guerriero e lo sorregge un temperamento senza pari. Un concentrato di volontà di rivincita, di abnegazione, di dedizione a una causa immediatamente fatta propria. Ci sono le premesse per una stagione esaltante.
Bonimba-Bonimba, il tifoso della Curva Filadelfia crede immediatamente nel campione in cerca di resurrezione, e il bomber ripaga.
Il campionato 1976-77, che sarà il campionato di tutti i record bianconeri, è subito nel segno di questo centravanti dal cuore antico e dalla pedata virtuosa.
Olimpico, 3 ottobre, prima di campionato nel sole, Lazio che arremba, Juve che vince con doppietta di Bobby-gol e decisiva zampata di Boninsegna.
Il centravanti si ripete sette giorni più tardi battendo il Genoa con goal di puro possesso, secondo il più genuino repertorio dei cannonieri di mestiere.
La Juve gioca sotto cieli sempre più azzurri, a Cesena il 28 novembre coglie la settima vittoria consecutiva su 7 partite, è una diavoleria del vecchio Bobo questo successo risicatissimo sui romagnoli, strappato con unghie e denti a una manciata di minuti dalla line.
Ma non c’è solo il campionato, perbacco. Coppa Uefa, è il secondo, importantissimo traguardo della Signora, da onorare con giusta determinazione. Manchester City al primo turno, il Comunale si infiamma nel retour-match, c’è un goal da rimontare, ci pensa Scirea prima del riposo.
A qualificare la Juve per i turni che seguono è naturalmente Bonimba, impeccabile, sornione, appostato sempre al punto giusto per i cross malandrini di Causio e le sponde del compare goal Bettega.
Sembra che fra Bobby e Bobo ci sia atavica confidenza, nascono dall’intesa fra questi due tipi umanamente e calcisticamente tanto diversi le cose più sorprendenti e insieme esaltanti della Juve.
Eliminato come abbiamo detto il City, ecco un altro Manchester sulla strada bianconera, l’United stavolta. Ed è nuova, freschissima gloria per il centravanti della risorgente grandezza juventina. Bonimba uno e due, oplà, il gioco è fatto.
La Juve che al Maine Road aveva perso con il minimo scarto si diverte al Comunale, vincendo, anzi dominando, per 3-0 gli inglesi, primi due goal firmati dal centravanti che a ogni goal sembra ringiovanire.
Ma la gloria europea non distrae dal cammino in campionato, che procede spedito per i bianconeri, nonostante l’intoppo di un derby perso.
Il 9 gennaio la Juve torna Juve vera in occasione dell’insidiosa trasferta a Napoli. Una partita lineare, perfetta, mai in discussione. Ancora e sempre Boninsegna cannoniere, il raddoppio è di Scirea, 2-0 per la Juve splendidamente prima.
E arriviamo al momento più esaltante, certo il più atteso per Bonimba: il 16 gennaio c’è Juve-Inter al Comunale. È la partita di tutte le rivincite, quella che riassume la ferrea volontà di riscossa del campione nei panni di ex.
Spesso, il desiderio di strafare condiziona in senso negativo, impedendo al professional di esprimere in campo tutto il proprio effettivo valore. Ma non è questo certamente il caso di Bonimba.
La sua partita, pure evidentemente polemica, è esemplare per impegno e continuità, e soprattutto è condita di un’esaltante doppietta che fissa il risultato sul 2-0 per la Juve. Una vittoria, doppia, l’ennesima riprova dell’enorme talento di questo campione senza età.
Il momento d’oro del centravanti dà respiro a tutta la squadra, rinfranca Bettega ed è la migliore garanzia che cl sarà raccolto abbondante a fine stagione.
Davvero singolare è la semplicità con cui Bobo va in goal, in campionato come in coppa. Stopper giovani e mastini di stampo antico cercano di capirci qualcosa, adottando una guardia specialissima nei suoi confronti, ma con risultati invero scarsi.
Bonimba è, in effetti, prototipo e ultimo esemplare di una generazione di centravanti indomiti, di solidissimo mestiere e coraggio non comune.
C’è sempre una spiegazione per il goal anche più illogico: questione di colpo d’occhio, di prevedere anche le più infinitesimali distrazioni dell’avversario diretto o del portiere, per gabbarlo con toccatine piene di estro e assolutamente estemporanee.
Quel che comunemente si chiama opportunismo è in realtà cosa tremendamente complessa, una specie di dote naturale affinabile con l’esperienza ma che non si crea né si distrugge di incanto.
Non c’è magia nei goal di Bonimba, come non è affatto magico l’incedere di quella Juve verso lo scudetto e la Coppa Uefa. Bonimba è professional al massimo grado in una Juve di professional, semmai entusiasma questa continuità nel segnare e far segnare.
Il campionato inneggia alla Juve rutilante costretta a vincere sempre per tener distante il Toro della ritrovata forza dirompente, Bonimba trasforma il lavoro della squadra in goal che sono moneta sonante, e anche dal dischetto ripete l’opportunismo e la continuità d’azione di ogni momento, di ogni partita. I rigori di Bonimba non lasciano scampo, anche così si vincono le partite.
Non si vince il derby di ritorno, 3 aprile 1977, sol perché il tocco diabolico di Boninsegna su punizione finisce contro l’incrocio dei pali di Castellini anziché mezza spanna più sotto. E pareggio soltanto, ma basterà.
A Genova, 22 maggio, scudetto-day, l’apoteosi bianconera comincia nel momento in cui il centroavanti di tutte le battaglie bianconere depone in rete il goal della sicurezza contro la Samp. Ed è giusto, sacrosanto omaggio alla più terrificante, sorprendente arma escogitata dalla Juve per tornare grande subito. Boninsegna, naturalmente.
L’anno secondo di Boninsegna juventino ricalca nella qualità, se non nella quantità, quello precedente.
Dopo l’orgia di reti contro il Foggia (6-0, doppietta di Bonimba) ci sono momenti di ripensamento per il bomber e la squadra tutta, culminati con la bruciante sconfitta dell’Olimpico contro la Lazio.
Ma sette giorni dopo, il segnale della riscossa parte proprio dal piede di Bonimba, lesto a calciare in rete un pallone malandrino, sfuggito dalle mani di Carmignani portiere viola.
Sull’onda di quel goal rapinoso, la Juve dilaga, e tutto torna come prima. Campione d’Inverno, poi (5 febbraio) vittoriosa sul Napoli con minimo sforzo, auspice l’eterno Bonimba: è la Juve ancora grande protagonista, è Bonimba sempre il suo cannoniere più rappresentativo.
La doppietta di Bobo alla Lazio è altra pagina di gloria, e alla fine, a scudetto riconquistato, le cifre sono ancora tutte per l’inossidabile fuoriclasse: 11 reti aveva segnato nel 1976-77 su 29 partite di campionato disputate. 10 le reti del 1977-78, ma con appena 21 partite a disposizione.
Un’impresa senza precedenti, degnamente ultimata contro il Vicenza, nella trionfale passerella del diciottesimo.
Il resto è storia recente, presente vivo. La Juve 1978-79 ha ancora bisogno di Bonimba, ma gli anni passano e pure i rodomonti invecchiano. E canizie gloriosa, ma sempre canizie.
Il mestiere del centravanti è duro e senza pietà. Solo chi ha scorza durissima e cuore saldo può emergere e, soprattutto, durare. Bonimba, ultimo grande guerriero dell’area di rigore, contraddistingue con le sue imprese un’epoca intera, ed è intanto emblematico di uno stile ineguagliabile.
Il crepuscolo suo priva le cronache domenicali di una componente importante e, ahimè, insostituibile. È normale, Dietro i grandi che lasciano, c’è sempre un vuoto.

1 commento:

angelo 33 ha detto...

Boninsegna è stato un centravanti fortissimo fisicamente, caratterialmente e tecnicamente.

Audace e generoso. Forte sia con i piedi che di testa.

Ai campionati del mondo del 1970 in Messico giocò e combattè in modo indomabile e memorabile. E sarebbe diventato irresistibile se i campionati fossero durati per altre partite. Infatti cresceva di partita in partita.

Trapattoni lo rimpianse amaramente allorchè la Juventus perse, seppure favoritissima, la finale di Coppa dei Campioni del 1983 con l'Amburgo, molto deluso da Paolo Rossi, inconsistente ed incapace di farsi valere con i potenti, possenti e determinatissimi tedeschi.

Se fossi stato allenatore ed avessi disposto sia di lui che di Paolo Rossi lo avrei certo preferito a Paolo Rossi. E quest'ultimo lo avrei dirottato all'ala destra.
A meno di avere all'ala destra un Domenghini o un Conti.

In questo caso Rossi lo avrei mandato in panchina. Seppure il medesimo sia stato un gran giocatore.

Ma se in panchina ci andò anche Gianni Rivera, quanto più avrebbe potuto andarci lui.

Gli avrei preferito Boninsegna ancor più più se avessi dovuto giocare contro avversari potenti e prestanti fisicamente.

Mi chiedo come mai Valcareggi, che era un allenatore lucido e di buon senso, gli abbia quasi sempre preferito Anastasi.

Boninsegna avrebbe meritato di giocare in nazionale molto più spesso.

Paolo Rossi, che è diventato un mito, ma era meno continuo ed affidabiledi lui, è stato molto ma molto più fortunato di Boninsegna.


Ilfatto è che bisogna nascere nel periodo giusto.


Angelo Balzano.