Socio fondatore e secondo presidente – scrive Renato Tavella – nato a Genova il 16 aprile 1877. Da ritenersi l'indiscusso trascinatore dei primi passi juventini. Nella torinese officina di biciclette di Corso Re Umberto 42, che condivide col fratello Eugenio, si tiene la storica riunione da cui nasce la società. Eletto presidente nel secondo anno di vita societaria, si attiva per organizzare le prime partite e far confezionare le prime maglie, quelle leggendarie di colore rosa. Della primissima formazione che si confronta sui prati del Valentino coi pionieri del gioco si assegna il ruolo di avanti centrale ma, ben presto, si fa da parte preferendo l'arbitraggio. Laureatosi in chimica, la professione sovente lo conduce in Inghilterra da cui trasferisce e diffonde, primo in Italia, il riconosciuto Regolamento Arbitrale.Allo scoppio della Grande Guerra parte volontario col grado di capitano e pochi mesi dopo, il 22 ottobre 1915, muore sull'Isonzo. Aveva chiesto il consenso alla mamma, prima di offrirsi volontario. Nominato sottotenente alla scuola allievi ufficiali, era stato promosso tenente a un primo richiamo e ora era salito al grado di capitano, in questi primi giorni di conflitto. Arriva come una fucilata, la notizia della sua morte sull'Isonzo.
Scrive alla madre, in data 10 novembre 1915, il sottotenente Antonio Cutietta, 12° Fanteria, 3ª Compagnia: «Egregia Signora, con l'animo profondamente commosso Le comunico i particolari della morte del mio Capitano che, più che un superiore era per noi un vero padre; tutti lo amavamo e, per quanto sia stato poco tempo al comando di questa Compagnia, pure ne apprezzammo le doti e ne serberemo imperitura memoria. Il giorno 22 alle ore 11 ci fu dato l'ordine di lanciarci all'assalto di una trincea nemica. Egli, dopo avermi comunicato l'ordine e rincuorato i soldati, si è spinto oltre la nostra trincea per scacciare il nemico che stava a pochi passi. Tutti allora lo abbiamo seguito e già eravamo sulla trincea del nemico, quando una malaugurata pallottola di fucile lo colpì in pieno petto. Cadde a me vicino senza dire una parola; mi chinai su di lui per rialzarlo: non respirava più. La sua morte era stata fulminea! Signora, quello è stato per me un momento doloroso: avevo il mio Capitano ai piedi e la Compagnia davanti. Ho dovuto compiere il mio dovere, cioè prendere il comando della Compagnia; ho chiamato quattro soldati, ho affidato loro la salma del nostro amato Padre e l'ho fatto portare indietro per dargli onorata sepoltura, mentre io ho seguito la Compagnia per non far sbandare i soldati. Ora si trova seppellito nel piccolo cimitero improvvisato di Sdrussina. Ciò è quanto ho potuto fare. E ora in nome degli ufficiali tutti e di tutti i soldati Le invio le più sincere condoglianze».
Alcuni mesi prima di morire aveva scritto per il bollettino "Hurrà!" la storia sulle origini e i primi anni di vita della Juventus.
DOMENICO DONNA, DA “HURRÀ”, DEL DICEMBRE 1915
Lo vidi, e doveva purtroppo essere l’ultima volta, in occasione del match «Veterani» in Alessandria. Ravvicinati dopo parecchi anni di lontananza, c’eravamo piantati l’uno dinanzi all’altro in attento esame per scoprirci a vicenda gli effetti del tempo e spiattellarceli francamente e gaiamente sul viso.
Io gli avevo trovato meno capelli in testa, ed egli, più caritatevole, non mi aveva rilevato alcun cambiamento. «Tal quale (mi disse) sempre brüt istess».
Il frizzo era il suo genere. D’intelligenza pronta, egli sapeva ribattere parola, opporre scherzo a scherzo, ma senza acrimonia e sovratutto senza invidia! Sincerissimo di indole, non lasciò mai un offeso; ravvide anzi sovente i troppo impulsivi: li ravvide con l’esempio, dimostrando loro come in ogni cosa debba prevalere sulla forma la sostanza.
Oh! per la forma, Canfari non aveva che una sdegnosa alzata di spalle. Sdegnava il convenzionalismo e le apparenze. Giovanissimo, già poco gli importava del giudizio altrui, se questo unicamente derivava dal vestire, dalle mani callose, dal volto annerito dal fumo. Sfido! Egli lavorava: egli, agiato, faceva il meccanico in società col fratello, s’incalliva le mani alla rude fatica, perché lo aveva tentato l’appena nascente industria ciclistica. Che c’era di strano? D’altronde non erano volgari meccanici: il loro ideale richiedeva una somma di operosità, di coltura, di tenacia, della quale non tutti sarebbero stati capaci. Volevano diventare costruttori, volevano che la macchina in ogni sua parte fosse prodotto genuino del loro studio e del loro lavoro; in essi si fondevano i due fattori che nella grande industria sono quasi sempre divisi l’ingegnere e l’operaio. Còmpito allora né facile né breve, e nel quale pure riuscirono senz’essere assillati dal bisogno. Unicamente li spingeva il desiderio dell’operare, la gioia del trionfo, l’orgoglio del bastare a se stessi.
E sempre sulla voce dell’incudine, sul ronzio del torno si levava acuto e giocondo il canto di Rico. Egli l’amava, il lavoro! Pei poltroni la sferza: il suo vocabolario si faceva rovente, sembrava che togliesse le parole dai carboni della forgia. Rampognava, ma compativa!
Il nostro Socio migliore!
Quanta serenità emanava da lui, quanta allegria da quel volto espressivo, or volutamente grave, ora attraversato da un riso schietto e comunicativo. La stessa sua voce scuoteva ogni torpore e fugava il tedio. Io l’ho qui nei timpani quella cara voce! La si distingueva tra mille e le dominava tutte senza infastidire. No, povero Rico! Che anzi, al primo udirlo, e lo s’avvisava da lontano, ogni noia spariva. Era una promessa: egli della brigata voleva dire una meta decisa, una letizia continua, un coro che abbreviava il ritorno. Fu egli ad iniziarci alle armonie corali. La rammentate, voi vecchi, quella sua voce di clarino levarsi lenta a salmodiare le nostre più tradizionali canzoni?
Chi sentiva più la fatica? Chi sentiva più, nei primi ritorni da Genova o da Milano la voce del ferroviere sgranare tutto il rosario delle innumeri Stazioni che l’«omnibus» onorava di sua fermata?
Rico «attaccava» e noi lo seguivamo volenti o nolenti, svegli od assonnati. La sua voce ci trascinava come il suo esempio nelle partite.
Canfari non fu un giuocatore nel senso che intendete voi. In istile, in abilità tutti lo superavano, ma nessuno lo uguagliava nella tenacia indomabile e nel saper dare tutto se stesso fino all’ultimo, malgrado l’avversa fortuna, malgrado lo sconforto dei compagni. Sapeva volere e, volendo, riusciva. Non v’è fatto, del resto, della sua vita che non sia opera della sua volontà.
Voi giovani l’avete conosciuto in periodo migliore della sua vita, e vi sarà parso naturale ch’egli si trovasse al posto che occupava. Ma per noi vecchi, che lo vedemmo meccanico dapprima, poi insegnante di Chimica alle Scuole Serali «Cavour», viaggiatore in seguito, per noi, ripeto, ha del prodigioso la meravigliosa ascensione ch’egli seppe compiere coi suoi soli mezzi, appoggiati sopra una volontà ferrea, ch’era il fulcro d’ogni sua impresa.
Eppure, a lato di queste doti, più atte a plasmare l’uomo pratico o il freddo calcolatore, quanta squisita delicatezza di sentimento! Basterebbe da solo a rischiarare la troppo breve vita del nostro caro Rico l’amore profondo ch’egli portava alla Madre sua.
In quest’ora d’angoscia sia a Lei di conforto il sapere che a contrastarle l’amore del diletto figlio suo non si eresse che una sola rivale: la sola degna di Lei! La Patria.
Rico poteva forse sfuggire al pericolo, certo ritardarlo: non volle. Alla vita tranquilla delle retrovie egli preferì quella di trincea: chiese ed ottenne d’essere mandato al fronte per dare, ove occorresse, il suo tributo alla Patria, e là ricevette il premio degli Eroi.
Madre, non piangere! Tu, che meglio di noi lo conoscevi, Tu, che lo avevi nutrito dei più generosi sentimenti, devi sentire più forte l’orgoglio del dolore. Rico non è morto; per cento bocche di amici, che gli furono fratelli, sentirai ripetere religiosamente il suo nome; in cento cuori vivrà scolpita l’immagine serena del figlio tuo.
Ricordiamolo, o amici, ricordiamolo spesso, ma sia intimo il nostro cordoglio; agli altri mostriamo tutta la fierezza che ci viene da questa nuova gloria ch’egli ci ha acquistata a prezzo della sua vita. Attorno alla tomba ideale che gli abbiamo innalzata, non piantiamo mirti o cipressi, ma cespi di rose. E sciegliamole tra le più fragranti e tra le più vivaci.
MALVANO UMBERTO DAL FRONTE, DA “HURRÀ” DEL DICEMBRE 1915
Caro Armano – Ho ricevuto ieri sera la tua cartolina.
Non posso e non voglio credere: non è possibile! Il nostro Rico, il vecchio fedele amico, quello che più di tutti aveva l’amore puro, continuo, instancabile per la nostra Juventus; quello che ci fu di sprone e di conforto, di aiuto e di guida; il nostro Rico, allegro sempre, giovane d’animo e di cuore; quello che più di tutti rappresentava la vera antica Juventus nei suoi entusiasmi, nella sua allegria, nella sua fede gioconda; quel compagno di ogni lotta, di ogni gioia, di ogni dolore, non può essere morto. Troppo di noi e del nostro passato scomparirebbe con lui.
Non voglio e non riesco ad ammettere la possibilità di tale disastro.
Senti, Armano: stanotte, si capisce, non ho dormito che qualche ora e malamente: mi sono passate davanti agli occhi tutte le vostre persone, ho rivisto tutte le cose più interessanti degli anni che trascorsero, ho ripensato a tutti voi così intensamente, con tanto amore, da aver la sensazione che voi sentiste che vi ero vicino e che piangevo con voi. Pensavo a Rico, al suo piccolo caldo alloggio di Milano, e ricordavo le mie visite e le sue premure, ed i buoni piatti cucinati sotto la sua attenta sorveglianza, e le lunghe chiaccherate fino a tarda sera, rivolte sempre ad uno scopo, ed i nostri progetti, pervasi tutti dall’amore che legava i nostri cuori alla grande famiglia di noi tutti vecchi e giovani Juventini.
Povero Rico e più poveri noi! Quanto ci mancherebbe, quanta parte scomparirebbe di ciò che fummo! Dimmi che fu un equivoco, che è ferito soltanto, che per molto tempo non ritornerà, ma che non è morto. Io voglio saper tutto in ogni modo! E vorrei piangere, piangere tanto con grosse lagrime che mi sarebbero di sollievo, e invece non posso, e sento un nodo qui alla gola; vorrei abbracciarvi lutti, voi amici, e sentire i vostri cuori che battono vicino al mio, e forse potrei allora nelle vostre braccia piangere liberamente.
Nessun commento:
Posta un commento