Carletto Levi, amico personale dell’avvocato Agnelli e fiduciario della Juventus sul mercato sudamericano, è incaricato dalla società trovare una grande mezzala per fare della squadra bianconera uno squadrone. «C’è un fuoriclasse, ha giocato nella Nazionale argentina, ed è anche di origine italiana, ma è già sui trent’anni. Si chiama Martino».
Rinaldo Fioramonte Martino, classe 1921, argentino di Rosario con chiare origini italiane, è il primo grande oriundo del dopoguerra a vestire la maglia bianconera. È il campionato 1949-50, Martino viene presentato alla stampa torinese insieme agli assi nordici John Hansen e Præst. L’argentino è un tipo schivo, due occhi nerissimi, tumidi, e una voce baritonale, ride sempre e si fa capire da tutti in un italiano un po’ storpiato.
L’Avvocato sostiene che se una squadra possiede da due a tre assi, tutti gli altri, siano come siano, si adeguano. È il calcio dei fuoriclasse, ed effettivamente la Juventus comincia subito a distribuire gol a destra e manca, nonostante la concorrenza sia nutrita da parte del Milan, dell’Inter e della Lazio, per non dire Sampdoria, Bologna, Fiorentina, lo stesso Torino, o il Como e l’Atalanta che si riveleranno buone squadre. Certo, il duello è con le milanesi, in primis il Milan, che ha acquistato Gunnar Nordahl, Nils Liedholm e Gunnar Gren; ma bisogna tener presente che ogni squadra ha i suoi assi (o presunti tali) stranieri.
È un campionato a venti squadre, il Milan si prende il lusso di maramaldeggiare a Torino, vincendo per 7-1. La sera di quella domenica il popolo juventino piange lacrime amare. I rossoneri si potranno vantare di questa vittoria per tanti anni, ma già la domenica successiva le cose cambiano: la Juventus vince in trasferta, il Milan non ce la fa.
Conta il rendimento, la regolarità è classe, la Juventus riesce a far gruppo intorno ai suoi assi più del Milan, che segnerà più della Juventus (118 rispetto a 100) ma deve rassegnarsi a inseguire la Signora, il cui gioco è tanto eterogeneo da risultare di un’originalità assoluta.
E grande è stato il coach Jesse Carver: «Altro segno della classe – scrivono i giornali – la costanza nel mantenere la formazione tipo: inattaccabili gli undici titolari; a loro rinforzo le prestazioni del sempre poderoso Rava (sei presenze); e la comparsa dei quattro esordienti nel massimo campionato, con Mariani e Scaramuzzi; soprattutto con il raffinato Bizzotto e il brillante Vivolo».
Viola; Bertuccelli e Manente; Mari, Parola e Piccinini; Muccinelli, Martino, Boniperti, John Hansen e Præst. Questa è la formazione di quella squadra che domina il campionato. Martino, come pochissimi altri divertente, manda in difficoltà tutte le difese, i suoi lanci sono al millimetro, le sue finte, i suoi gol sono perfetti, al volo, con tocchi precisi o con tiri da ogni posizione. Il suo soprannome è Zampa di Velluto per i suoi tocchi morbidi e felpati.
Mezzala destra di classe purissima, un virtuoso del pallone, sa dribblare in un fazzoletto e i suoi lanci millimetrici fanno segnare valanghe di gol a Boniperti o John Hansen. Quando se ne presenta l’occasione, comunque, dimostra di essere all’altezza dei cannonieri suoi compagni di squadra. È suo il gol, decisivo, con cui la Juventus supera di misura il Milan a San Siro, il 2 ottobre 1949, e segna due dei tre gol con cui la Triestina viene rispedita al mittente, la domenica successiva.
Esemplare la sua continuità, grandissima la classe in giornate di vena particolare, come a Venezia, 23 febbraio 1950, 4-1 e tripletta, al culmine di una prestazione perfetta. La Juventus va al riposo incredibilmente sotto di un gol, e nel silenzio tombale dello spogliatoio è proprio Rinaldo a prendere l’iniziativa: «Ma cosa fate, non vorrete mica perdere questa partita? Datemi la palla e la vincerò da solo!».
Scrive un giornale: «Le squadre rientrano in campo e i veneziani restano a bocca aperta. Martino sembra danzare con il pallone, segna uno, due, tre gol, e, sempre deliziando, arriva davanti all’attonito portiere Fioravanti per graziarlo solo nella forma: palla toccata all’irrompente Muccinelli e 4-1».
Il commento del vicepresidente Giordanetti, il giorno dopo, è lapidario: «Chi non ha visto Martino nel secondo tempo di ieri a Venezia non ha idea dei limiti che può raggiungere l’arte di un asso del football».
Gli abbracci dei compagni, e gli elogi dei giornali si sprecano, ma sua moglie non si diverte in Italia e spinge perché Rinaldo torni subito in patria. E dopo 33 presenze in campionato e 18 gol, Martino lascia la Juventus, allettato dal ricchissimo contratto che gli propone il Boca Juniors. In seguito, racconterà di essersi pentito di quella scelta e, se avesse potuto tornare indietro, sarebbe rimasto alla Juventus, per collezionare altri trionfi.
Si spegne il 15 novembre del 2000; un solo anno in bianconero, ma gli è bastato per fare suo un pezzo di storia juventina.
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’AGOSTO 1975
L’idea di occuparci di Rinaldo Martino nasce in un pomeriggio di sole e di festa nell’aria, appena qualche mese fa. La Juve va a vincere il suo sedicesimo scudetto con tambureggiante cinquina al Vicenza, la grande paura della vigilia si dilegua nei cortei della gente festante e gaudente pavesata di bianconero, la gioia dei torinesi è grande ma è niente in confronto all’entusiasmo di quanti sono venuti da lontano, magari da molto lontano, per vivere l’apoteosi. Uno di questi signori, genovese ma residente per la maggior parte dell’anno in Argentina, nel bel mezzo della conversazione su Parola e Anastasi, Causio e Zoff, Bettega e Morini, butta lì là pietruzza: «Ma perché non scrivi di Martino? Del mio amico Martino, che sta a Buenos Ayres e pensa sempre a Torino, alla Giuve?».
Martino, già. Come non averci pensato prima. La storia dei sedici scudetti bianconeri è fatta anche, ma cheddico, soprattutto, di gente come Martino. Gli anni Venti, gli anni della prima maturità del football italiota, sono frequentati, poi addirittura popolati, di sudamericani nostalgici dalla pedata sopraffina che incanta le platee, e i ragazzini imparano ad amare la biglia di cuoio provando e riprovando gli arabeschi di Cesarini, di Orsi, di Libonatti. Ma qui si rischia di partire da troppo lontano, dalla notte dei tempi. I tempi di Martino poco spartiscono con le deliranti improvvisazioni del primo girone unico: è già epoca di tifo consolidato, di passioni pluriennali, di generazione in generazione. I padri ricordano Cesarini detto «Cè», le sue giocate cariche di estro e di furbizia; e i figli fanno spallucce, Martino è persino meglio, è classe inarrivabile e in più modernismo, senso incredibile del collettivo, fantasia al di fuori degli schemi ancorché applicata per la migliore riuscita degli schemi.
Un passo indietro, appena per inquadrare il tutto. Gli anni Quaranta volgono ormai al declino, sono stati tempi di autentica grandeur per la Torino granata, sprofondata nel lutto un maledetto pomeriggio di maggio. Saranno tempi, subito dopo, di altrettanto autentico juventicismo. Il 1949-50 inizia nel segno dei grandi arrivi e delle partenze dolorose, Sentimenti IV che nessuno chiama Lucidio perché Cochi vien meglio e si ricorda di più non è confermato e fa le valigie; al suo posto Giovanni Viola sarà portiere pochissimo battuto e moltissimo applaudito. E poi arrivano Bertuccelli, Mari, Piccinini, Praest. E Martino, Rinaldo il nome, naturalmente: sangue italiano, genio tutto sudamericano, il meglio in assoluto di quanto offre il mercato argentino. A Buenos Ayres lo ha prelevato Carletto Levi, non è la prima volta che questo signore contribuisce a far grande e bella la Juve, non sarà neppure l’ultima. Mezz’ala destra, dribbling e tocco vellutati (l’appellativo «Zampa di velluto» calza a meraviglia), Martino si mette in tasca il «Comunale» sin dalle primissime esibizioni.
Settembre, debutto alla grande con i viola che pure non sono gli ultimi e nemmeno i penultimi arrivati, tenendo in porta un signor portiere di nome Costagliola e in difesa altri tipi assai raccomandabili quali Ellani e Cervato, per non parlare del buon Chiappella giovinetto. Cinque a due per la Signora, che riscopre la voglia di divertirsi e divertire, giocando a pallone. Impazza John Hansen fromboliere, ma gli occhi sono puntati sullo scuro e guizzante argentino con l’otto di maglia, che oltre a segnare un gol antologico sciorina scampoli di un repertorio che si intuisce subito sterminato. «All right», dice Jesse Carver trainer nuovo per questa Juve nuovissima, ed è il massimo che si possa pretendere da questo allenatore che lavora molto ma ama pochissimo la conversazione.
Una cosa è certa: di tipi come Martino in Italia non se ne vedevano da tempo, se mai ce ne furono. La valanga juventina che tutto travolge verso lo scudetto numero otto trova nella favolosa mezz’ala argentina la causa e talvolta anche l’effetto. Milano, 2 ottobre 1949: Juventus batte Milan uno a zero, è il primo scontro-scudetto, e non c’è Gre-No-Li che tenga. Segna Martino a metà della ripresa. E quando non segna, Rinaldo manda in gol gli altri funamboli di quell’attacco da cento e più gol con imbeccate deliziose, imprevedibili, persino beffarde per l’avversario di turno. Così si vince anche il secondo match-scudetto, con l’Inter di Wilkes e Lorenzi, tre a due al Comunale torinese, secondo tempo arrembante dei bianconeri in svantaggio, Martino colossale per almeno trenta minuti, quelli decisivi.
La stagione-monstre della Juve segue di pari passo le prodezze di questo strano argentino, che parla pochissimo e non manca neppure di dar prova di stramberie. Le scarpe, da football, per esempio: tre paia portate dall’Argentina bastano per tutta la stagione, e non c’è verso di fargliene mettere altre. Nemmeno in maglia azzurra ci riescono. Già, perché Martino fa pure una più che decorosa comparsa nella nazionale del tempo, impegnata a Londra in una partita senza speranza con i bianchi inglesi (0-2, il 30 novembre 1949).
La parentesi italiana e juventina di Martino si esaurisce in fretta: dura da un’estate all’altra, e forse anche per questa stagione l’alone fascinoso di questo fuoriclasse d’oltreoceano conserva a distanza di venticinque anni una certa luce. Finito trionfalmente il campionato, Martino riparte e non torna. Tante le ragioni, e non manca certo il rimpianto, da una parte e dall’altra.
Oggi, Rinaldo Martino è un tranquillo signore argentino ancora innamorato dell’Italia e della Juventus. A Buenos Ayres, nel suo locale «Cano 14», un posto caratteristico in cui i turisti stranieri vanno alla ricerca delle tradizioni musicali argentine, l’ex «Zampa di velluto» riceve con particolare calore quanti gli portano notizie della Juve, e gli amici assicurano che la nostalgia è tanta...
1 commento:
Mio padre, che era del 1931 mi ha sempre detto che il giocatore più forte della Juventus per lui è stato Martino. La moglie, ricchissima, lo "richiamò" in Argentina, in quanto a Martino piaceva la bella vita e le donne...
Posta un commento