giovedì 19 agosto 2021

Edoardo AGNELLI

 

La Croma metallizzata è ferma lungo la corsia d’emergenza – scrive Renato Rizzo su “La Stampa” del 16 novembre 2000 – del viadotto che si avventura nella foschia: finestrino semiabbassato, luce direzionale destra accesa. Carlo Franchini, assistente al traffico della Torino-Savona ferma la sua vettura di servizio e s’avvicina a controllare: il motore è acceso, l’abitacolo tiepido, a bordo non c’è nessuno. L’uomo fruga con lo sguardo avanti a sé, cercando la sagoma di qualche automobilista rimasto in panne che chieda soccorso. Solo rare macchine. Ha un presentimento, s’affaccia al parapetto sullo sprofondo: ottanta metri più sotto, là, non lontano dal greto della Stura, una macchia come d’abiti abbandonati. Guarda meglio, Franchini, vincendo il fastidio della vertigine: «Mio Dio. È un uomo», mormora.
Le 10,19. Scatta l’allarme nella sala radio, di qui rimbalza alla stazione della stradale di Cherasco. Si leva in volo l’elicottero del Pronto soccorso regionale, partono le pantere della Polizia. Il corpo di Edoardo Agnelli, 46 anni, viene scoperto pochi minuti dopo. Bocconi, al centro d’una delle gigantesche campate del ponte, nel terreno umido che ora è cava di sabbia con ciuffi d’erba stenta e un nome che suona gentile: Boschetto.
Non lo riconoscono subito: identità e volto del figlio del presidente d’onore della Fiat emergono dai documenti custoditi nella tasca dei calzoni scuri. E ricevono conferma dalla carta di circolazione di quell’auto abbandonata sul viadotto che da Marene porta a Possano ed è intitolato alla memoria del generale dei carabinieri Romano. È il questore di Torino, Nicola Cavaliere, a portare la terribile notizia all’Avvocato e ad accompagnarlo, in auto, sino al campo maledetto. Il momento più straziante, quello del riconoscimento. Giovanni Agnelli è immobile, silenzioso nel suo dolore. Il corpo del figlio è ricomposto in un improvvisato sudario di plastica chiara. Poi, l’Avvocato si rivolge a Cavaliere: «Le chiedo solo una cortesia: di fare in modo, rispettando certo le esigenze della legge, che tutto venga fatto nel minor tempo possibile e con il massimo scrupolo». Se ne va accompagnato dal fratello Umberto che l’ha raggiunto tra questo fango. E poco dopo a New York, dove si trova da qualche giorno, Marella Agnelli viene avvisata della morte del figlio da un amico di famiglia.
Ora, in questo campo assediato dalla mota, la scena si raffredda: l’emozione lascia il posto alla fretta delle procedure. Edoardo viene portato al cimitero di Possano per un primo esame necroscopico. È steso su una barella metallica e indosso ha ancora la giacca scura che, di prima mattina, uscendo di casa, aveva indossato sulla giacca del pigiama azzurro. Al collo una collana in cuoio con un medaglione d’oro, al polso un braccialetto. E, in tasca, un amuleto.
Il dottor Marco Ellena certifica i traumi che la caduta ha causato a faccia e torace in un corpo rimasto praticamente intatto all’esterno. Un’ora e mezzo d’esame, ma nessun responso ufficiale sulla morte. Il procuratore della Repubblica di Mondovì, Riccardo Sansone che coordina le indagini chiarisce che «al momento, stiamo vagliando ogni ipotesi in attesa del referto definitivo del medico legale: suicidio, malore, tutto dev’essere ancora accertato».
Mentre la salma viene accompagnata a Villar Perosa si ripercorrono con l’aiuto dei testimoni le ultime ore del figlio di Giovanni Agnelli. «L’ho visto lunedì pomeriggio davanti alla chiesa di San Vito – ricorda un’amica –. M’è parso in ottima forma. S’è interessato alla salute di mia madre che sta poco bene e mi ha detto di portarle i suoi auguri. No, non c’era proprio nessun segno che facesse presagire l’idea d’una decisione senza ritorno». Un atteggiamento rilassato e tranquillo che Edoardo Agnelli ha mostrato anche il giorno prima di morire. Solo un particolare stona: la disdetta dell’appuntamento con il dentista previsto per l’indomani. Ieri s’è svegliato presto: erano le 7,15 quando è uscito da casa, una palazzina vicina a Villa Frescot, residenza dei suoi genitori. Ha, a quanto pare, telefonato a un famigliare e, poi, è salito sulla sua Croma senza chiamare l’autista, come, del resto faceva spesso. Non si sa come abbia riempito le sue ore sino a quando l’assistente al traffico della Torino-Savona ha trovato la Croma sul viadotto. Qualcuno pensa che avesse intenzione d’andare a far visita alla sua vecchia governante, Maria Miglio, oggi ottantenne che abita a Possano. Ipotesi. Ma nessuno conosce quali pensieri e quali suggestioni scorressero davvero dietro quegli occhi che i soccorritori hanno trovato chiusi dopo il volo interminabile incontro alla morte. 

PIERANGELO SAPEGNO, DA “LA STAMPA” DEL 16 NOVEMBRE 2000
Edoardo Agnelli era figlio di Marella Caracciolo e dell’Avvocato Giovanni Agnelli. Aveva 46 anni. Era nato a New York. Aveva studiato all’Atlantic College, Inghilterra. Si era laureato all’Università di Princeton, Stati Uniti: lettere moderne e filosofia orientale, tesi su «Storia e filosofia della Scienza». Poi, la sua biografia è scarna come lo è quella di tutti coloro che hanno pensato più agli altri che a se stessi: Anni Ottanta, per poco tempo nel Consiglio d’amministrazione della Juventus assieme al cugino Giovanni Alberto; esperienze aziendali all’Ifi, alla Lehman a New York e all’Unicem. Era studioso di religioni orientali, lo hanno raccontato in tanti. Voleva aprire una Fondazione di archeologia e storia, ma lo sanno in pochi. È morto senza farcela. In archivio, è difficile trovare plichi di pagine su di lui. Non c’è carriera nelle sue date, non ci sono gradini da salire; non ci sono trofei da mostrare e vittime da ricordare. Ci sono le cose che non si scrivono: prestava opera di volontariato al Sermig di Ernesto Olivero, a Torino, e aiutava l’associazione politrasfusi. E poi ci sono quelle che hanno scritto: nel 1990, fu arrestato a Malindi, in Kenya, per detenzione di sostanze stupefacenti. Fu assolto con formula piena. Non c’è scritto che quella storia gli segnò la vita. E non c’è scritto che la vita non è sempre quella che raccontano gli altri.
È difficile parlare di un uomo buono. Gli uomini buoni non hanno mai troppo da narrare in giro. Però, se la sua vita non è stata fatta di date, di scalate e di conquiste, se la sua vita non è stata riempita dagli appuntamenti della storia, è fatta della sua persona. Edoardo Agnelli non era un illuso e non era un figlio idealista degli Anni Settanta. Era uno che sapeva di aver rinunciato a qualcosa. E aveva avuto la forza di farlo. «Aveva scelto di vivere appartato. Aveva il coraggio di non rinnegarsi mai», così come l’ha descritto una sua cara amica. Ai direttori dei grandi giornali scriveva, talvolta, non per una raccomandazione, ma per ricordare le cause dei derelitti, le campagne contro gli inquinamenti. «Era molto sensibile», ha detto di lui don Luigi Ciotti. Nella vita, la sensibilità aiuta a capire, non a vincere. Era delicato, gentile. Sapeva ricordare: al giornalista Marco Bernardini regalava i cioccolatini Peyrano perché una volta l’aveva sentito dire che gli piacevano e Bernardini ricambiava con i libri della Sellerio. Cercava di essere giusto il giovane Agnelli, sempre, anche nelle piccole cose. A Malindi, nella mischia dei giornalisti, il collega che apprezzava di più era Vittorio Ragone dell’Unità, perché gli sembrava il meno servizievole. Quello che apprezzava di meno era il cronista de La Stampa. Lo evitava addirittura, dicendo: «Io non ho mai servito nessuno. E tu?». Il cronista rispose: «Cercherò di imparare». Da allora Edoardo Agnelli si distese, e prese a trattare amichevolmente quel cronista.
Era elegante, testa eretta e fisico slanciato. Vestiva come un signore di campagna inglese, abitava da solo nella sua casa in collina a Torino. Non esibiva mai niente, non ne era capace. Camminava appoggiandosi a un bastone, in genere il ricordo di un amico. Viaggiava ancora sulla sua Croma, ascoltando cassette di musica classica, di Fabrizio De André e Bob Dylan: One more cup of coffee, before I go on the road, un ultimo caffé prima di metterci in cammino.
Amava la fotografia. Al cinema s’era commosso con «Il gladiatore» di Ridley Scott e i «Cento passi» di Marco Tullio Giordana. Non si perdeva una mostra, e aveva promesso a un’amica di portarla a vedere «Cleopatra, regina d’Egitto» e «Il Novecento da Rodin a Picasso» a Roma... Leggeva filosofia Zen, il romanziere mitteleuropeo Joseph Roth, il Nobel russo Josif Brodskij. Era tifoso della Juve, naturalmente. Fra i giocatori, si era legato al cuore più caldo, quello di Marco Tardelli, oggi allenatore dell’Inter. E cercò, fino all’ultimo di trattenerlo a Torino. Fra tutti, ammirava il Trap, e quasi si disperò al secondo divorzio: aveva capito che era quello definitivo. Ma il calcio era la passione del tempo libero. Era ecologista e pacifista, modelli tramandati dalla marcia di Assisi, anno 1987. Vero. Studiava le religioni, ma non era un eremita. Sapeva tutto di Platone, sognava la sua Repubblica, ma sapeva benissimo che era impossibile. Amava Francesco Bacone, perché ammirava gli spiriti analitici, razionali, che riuscivano a conciliare la scienza con la religione. Gli piacevano quelli che andavano in controtendenza. Giordano Bruno, Pico della Mirandola, Galileo Galilei. Però, era così in tutto. Dev’essere l’unico italiano che non ha mai visto il Grande Fratello alla tv. Invece, il venerdì notte, quando poteva cercava di guardare Gabriele La Porta e la sua trasmissione di parole buone, così lontana dal nostro chiasso. Ammirava Martin Luther King e Gandhi; Ma amava Giovanni Paolo II. «Un uomo illuminato», disse una volta di lui. Non era musulmano, ma leggeva il Corano. Agli amici diceva «guardate la Bibbia». Aveva l’incoerenza degli intelligenti. In amore, aveva forse amato una sola donna, che è una donna concreta, molto discreta, serissima. Fa i costumi per il cinema americano. Nessuno ha mai saputo niente. Era molto legato allo zio Carlo Caracciolo, editore di Espresso e Repubblica; andava spesso a trovarlo nelle case di campagna, a Garavicchio e a Terracina. Quando fece la tesi all’Università di Princeton, c’era un professore che gli diceva di cambiarla. E lo zio invece lo convinse: «Devi credere in quello che fai. Vai avanti». Edoardo diceva: «Mi ha fatto il piacere più grande».
Gli uomini buoni sanno valutare le piccole cose. Lui era anche un uomo molto forte, nonostante le apparenze: aveva la forza che ci vuole a essere buoni. Non è la forza che hanno tutti. In fondo, sono le cose che diceva lui, passeggiando con una sua amica: «Non ci vuole niente a far del male. Ci vuole molto più coraggio a far del bene». Solo che per portare la bontà, ci vogliono spalle larghe. Ci resta una musica di Bob Dylan, «Knockin on heaven’s doors», e bussando alle porte del cielo ci sarà un paradiso per quelli che hanno voluto farsi la vita rimontando, anche se potevano stare in alto ad aspettare.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Dio come eri bello, un animo puro, incontaminato. Ciao Edoardo, sono certa che un giorno ci rincontreremo. Un fiore per te.