Il tamburino convoca rullando a due mani l’attenzione delle case a filo sul vicolo – scrive Carlo F. Chiesa sul “Guerin Sportivo” del 24 giugno1987 –. Il tamburino è un bimbo colmato da una palandrana lunga fino ai piedi, gli ondeggia in testa il lungo cappello a cilindro di certe favole popolate di nani e fanciulle in fiore. Ascoltate, popolo, udite, udite... La piccola corte dei banditori ch’egli precede e annuncia dispensa polvere di suoni prima di rimpicciolire fino a dileguarsi oltre un’ansa tra spigoli di muri e il respiro immobile dell’acciottolato.
È qui, accanto a noi, col suo aprirsi e chiudersi nel movimento come d’ali di farfalla, mentre Robertino Tricella racconta e si racconta impassibile. La evoca, per contrappasso istintivo, il suo misurare le parole, ordinandole puntigliosamente sul filo teso di un perenne sorriso di fanciullo. Udite, udite... Non tradisce emozione o le esitazioni dell’imbarazzo: dipana il tono monocorde di chi si limita a relazionare, senza avvertire l’esigenza di dilatare o colorare i fatti. Il tamburino che dovrebbe annunciare il suo nome il suo prorompere finalmente nel pieno del calcio di vertice, gli assomiglia solo per le fattezze del volto da adulto mancato.
Lui, non sembra pretendere attenzione. In questa imperturbabilità al limite dell’indifferenza c’è probabilmente già molto dello specchio interiore del nuovo libero della Juventus, del nuovo Scirea del nostro calcio, del nuovo leader della difesa azzurra, e di quant’altro il piccolo banditore della favola gradirebbe annunciare col felice scompiglio dei toni eccitati. In pochi mesi – udite, udite... – la carriera di Roberto Tricella si è rivoltata come un guanto, ha ripreso a correre proprio mentre pareva ormai assestata su una tranquilla marcia da crociera d’alto bordo. Un infortunio di Baresi gli aprì le porte del Müngersdorf Stadion di Colonia, due mesi fa, per un ritorno in azzurro bagnato alla vigilia dallo scetticismo generale, ma fortemente voluto da una intuizione di Vicini: rimasto sordo agli appelli di chi proponeva alternative (Pellegrini e Renica) a un ripescaggio dal preteso sapore di dejà vu. In quell’occasione, nell’amichevole azzurra con la Germania, Robertino Tricella si issò a sorpresa oltre l’orizzonte dei sommersi, sillabando scrupolosamente per il mondo distratto la sua maturità di libero ormai senza difetti, se non quello del silenzio, dell’ostinata discrezione al limite del riserbo fuori dal campo: quella che fa sì che così poco ci si accorga di lui. Annuisce impercettibilmente, seguendo la cronistoria come non gli appartenesse; non abbocca all’amo dell’indignazione retroattiva: tanti anni di gran calcio, eppure son stati necessari quell’infortunio di un collega e quei novanta minuti perché la sua carriera rompesse finalmente il guscio. «In effetti – confida – la Juventus è scoccata subito dopo, come un fulmine a ciel sereno: se ne cominciò a parlare sui giornali solo l’ultima settimana di campionato. E subito dopo la partita conclusiva, alla vigilia della partenza per la trasferta scandinava della Nazionale, senza che ci fosse stata la minima avvisaglia, gli emissari bianconeri mi contattarono e concludemmo rapidamente. Prima, non c’era stato nulla: fu una sorpresa anche per me».
Prima, si erano snocciolate le giornate dell’ennesima stagione agli alti livelli: eppure senza quell’invasione inattesa di azzurro il velo non si sarebbe squarciato. Curiosa avventura, quella di Robertino Tricella, che narra a voce bassa, sorride lievemente, non concede alla parola di prevaricare l’evento, non consente a questo, al limite, di meritare la parola. Paradossalmente, prima di Colonia il libero Tricella pareva non interessare più di tanto il nostro calcio: che ne aveva sperimentato in passato le doti anche in azzurro, che l’aveva già cullato come una lieta speranza, fino a rimandarlo in eterno a un impalpabile settembre, sull’onda di una intransigente delusione: è bravino, recitavano i giudizi, ha pulizia di tocco e visione di gioco, ma gli fanno difetto la cattiveria e la grinta di una personalità meno restia. Più invadente, precisa, risaltante. «Non ho mai contestato queste critiche – replica serenamente – ognuno ha il diritto di pensarla come vuole. A Verona credo di non avere mai deluso, e di avere sbagliato ben poco, anche grazie a un ambiente che si è rivelato ideale sotto tutti i punti di vista: la straordinaria bellezza di una città che offre ogni giorno angoli nuovi, l’inossidabile quiete del clima societario e di squadra. Non per niente esplodono regolarmente in gialloblu giocatori dai grandi mezzi, frenati altrove da difficoltà di vario genere: a Verona trovano le componenti ideali per trarre il meglio da se stessi».
Svicola con naturalezza, appare istintivamente disinteressato, perfino nei confronti di se stesso. Non serba rancori di sorta, è evidente; è un uomo felice e maturo, senza paura del mondo, abituato a nascondere accuratamente la grinta sotto l’accondiscendente tappeto di quell’eterna immagine di ragazzo stupito della vita. Colonia, però, ha aperto gli occhi a tanta gente: è possibile che il calcio, che noi tutti, siamo così imperdonabilmente superficiali? «Direi che non c’è niente di strano in ciò che è accaduto: non è che a Verona si passi inosservati, però è ovvio che la ribalta internazionale è un’altra cosa. Se giochi bene a Colonia contro la Germania Occidentale, cioè contro i vicecampioni del mondo, ti vedono milioni di persone, ti vedono tutti: conta più che un intero campionato giocato ad alto livello».
Così succede che in poche settimane Robertino Tricella raccoglie inopinatamente l’eredità di Scirea – cioè il meglio che nel ruolo il calcio italiano ha espresso negli ultimi quindici anni – sia in Nazionale che nella Juve. E le trasferte azzurre di Oslo, Stoccolma e Zurigo, indipendentemente dal bisticciare dei risultati, non fanno che promuoverlo a pieni voti. Perfino il titolare ormai consacrato del nuovo corso, Franco Baresi, sembra in procinto di perdere ogni diritto alla maglia. A ventotto anni, non è poco. Anzi, è tutto; forse con qualche mese o stagione di ritardo.
La storia, a poco a poco, si riannoda; e riconosciamo sempre più l’esigenza di quel tamburino, con l’espressione furba di una lepre, con la voce e la disponibilità a proclamare, a sovrastare il già troppo lungo concerto delle disattenzioni. Invece, nulla. Le parole scorrono come una pioggia quieta, leggera. Non c’è spirito di rivincita, per questo frammento di storia da incompreso: «Cominciai nella squadra del mio paese, Cernusco sul Naviglio, che è lo stesso di Scirea. Arrivai giovanissimo all’Inter, dalla piccola squadra al grande club: si apriva la stagione di un sogno meraviglioso».
Con i colori nerazzurri, tuttavia, assaggia il breve tragitto della trafila nelle formazioni minori, poi, proprio alla soglia della prima squadra, la ferita della prima, bruciante delusione. «Ma no– racconta –. Il fatto è che in quel momento all’Inter c’erano fior di liberi giovani di grande valore. In prima squadra il posto era di Bini, che aveva ventidue anni; nella Primavera c’erano già Vianello e Occhipinti, entrambi poi approdati alla Serie A: insomma, era logico che noi si uscisse dalla casa madre per fare esperienza. Arrivai a Verona a vent’anni, avevo giocato appena una manciata di partite con la maglia nerazzurro».
All’Inter tuttavia, era logico sperasse fortemente di tornare. O no? «Per un paio d’anni – riprende – coltivai in effetti la speranza o ambizione di tornare a casa: perché Milano era innanzitutto casa mia. Ma al terzo campionato mi accorsi che casa mia era ormai diventata Verona. Dove la situazione scorreva ideale sotto ogni profilo: professionalmente, non mi potevo certo lamentare: ero titolare sin dal mio arrivo, i risultati cominciavano ad arrivare; sul piano umano, il rapporto con l’allenatore e con i tanti giocatori che già conoscevo era ottimale. In tre stagioni conquistammo la Serie A; ne impiegammo altre tre per approdare al primo scudetto della storia gialloblù, in quell’indimenticabile primavera dell’85: eravamo più o meno gli stessi, lo stesso gruppo che Bagnoli sapeva pilotare come se appunto nulla e nessuno cambiasse nel corso degli anni. I nuovi diventavano immediatamente veterani, noi veterani eravamo sempre nuovi, sul piano degli stimoli, della voglia di dare il meglio di noi stessi. È stata una bellissima esperienza».
Verona nel cuore, dunque. Ma non più di tanto probabilmente a dar retta all’incalzante seppur quieto realismo del personaggio. «Verona – riassume – mi ha fatto diventare giocatore professionista. Con questo dico tutto. Per questo non posso di fatto considerarmi un ex dell’Inter, in prima squadra con la maglia nerazzurra ho giocato cinque partite in tutto».
Da quando ha raggiunto la Serie A col suo Verona, nell’anno del titolo mondiale, ha stabilito un piccolo primato di presenze: ha giocato 139 partite consecutive in campionato fermandosi per la prima e unica volta il primo marzo di quest’anno, ventesima giornata, match casalingo con l’Udinese. Il segno di una solidità a prova di bomba, a dispetto di un fisico non proprio da gladiatore, e di una correttezza in campo che fa scintillare l’altra faccia della medaglia del suo gioco senza sbavature. Il tempismo nel contrasto che gli risparmia quasi sempre la necessità del fallo, la pulizia del tocco, il nitore delle intromissioni nella manovra, il lancio in verticale che ne tradisce la vocazione da centrocampista testimoniano del suo valore assoluto, lungamente maturato al lievito delle feconde stagioni veronesi. Oggi lascia i colori gialloblù quasi all’improvviso, dopo aver conquistato il diritto a una nuova Coppa Uefa, all’indomani dell’ennesimo campionato condotto lungo l’ormai consueta linea di rigorosa perfezione stilistica.
A Torino, a ben guardare, affronterà i primi, veri rischi della carriera. «È un’esperienza allettante, perché mi porta in una società tra le prime del mondo. Ma non vedo rischi particolari: professionalmente, sul piano delle quotazioni e della cifra di valore personali, si rischia dappertutto: alla Juventus come al Verona o al Real Madrid. Non ho paura, non vedo perché dovrei averne».
Non vuole prender niente, si direbbe, se non sa di dare; il disincanto di lombardo che galleggia sulla vita lo induce al rigore delle scelte, al riserbo dei sentimenti, alla quiete del carattere come soglia intransitabile. Che sia una volta di più Verona, assurta ormai nel mondo del calcio quasi a categoria dello spirito, la fonte di tanta serenità? A molti, prima di lui, è già accaduto di lasciare i lungadige accoglienti, ove il presente sciaborda per ricomporsi, in direzione di metropoli matrigne che hanno spezzato l’incantesimo. Da Penzo a Iorio, da Fanna a Marangon fino a Galderisi l’elenco è lungo come una minaccia. «Quella della grande città è sinceramente una prospettiva cui non penso: penso solo che sto andando a giocare in un’altra città, tutto qui. Ogni luogo vale per ciò che vi si riesce a trovare: dipende anche da noi». Ha il diploma di perito in telecomunicazioni, dispensa la proprietà di linguaggio di una non effimera cultura. Ha un fratello di l7 anni, Dario, che gioca a pallone, ma solo per hobby. È sposato con Renata.
– Sarà il tuo compaesano Scirea a passarti il testimone: cosa ti manca, o cosa credi di possedere in più, rispetto al campione bianconero? «È difficile avere qualcosa in più di Scirea; l’ho sempre considerato un modello, nel mio ruolo: quest’anno coglierò l’occasione per riuscire, da vicino, a carpirgli ancora qualcosa».
– Cosa è cambiato negli ultimi anni nel ruolo di libero? «Come interpretazione direi poco; mi sembra importante invece il fatto che negli ultimi dieci anni quasi tutti i liberi affermati hanno avuto alle spalle una scuola, un indirizzo preciso. In passato invece era spesso l’anziano difensore o centrocampista che retrocedeva a guida del reparto arretrato negli ultimi anni di carriera. Anch’io ho avuto fin dall’inizio questa specifica collocazione di ruolo: nelle giovanili mi alternavo con Occhipinti nel ruolo di libero e di mediano, per accentuare certe caratteristiche costruttive, ma l’impostazione era quella».
– Oggi la nuova frontiera del ruolo non sembra promettere granché. «Non mi pare: ci sono giovani emergenti come Pellegrini, Argentesi, Cravero, lo stesso Renica. Tutti giocatori che hanno cominciato da ragazzini in questo ruolo e mostrano un’impostazione di alto livello».
– Chi è il tuo tecnico ideale, prima che diventi... Marchesi? «Ho trascorso sei anni con Bagnoli, è naturalmente lui l’allenatore cui sono più legato sul piano umano.
– Conservo però un ottimo ricordo e un’assoluta stima per tutti gli altri che ho avuto, da Veneranda a Cadé, da Bersellini a quelli delle giovanili nerazzurre».
I toni restano asciutti come il suo gioco, incapace di tradire l’emozione di un’uscita dalle righe, di un’impennata fuori ordinanza. Alla Juve arriva dopo che è inaspettatamente caduto già un pretendente, al trono da Scirea: quel coetaneo Soldà che solo un anno fa appariva ben saldo sulla sella del futuro bianconero. Gioverà a Tricella il fatto di partire subito titolare, con lo stesso Scirea già compreso nell’annunciato ruolo di «chioccia» in panchina. Gli gioverà soprattutto la consapevolezza di mezzi che, la ribalta azzurra lo ha confermato, possono sfidare le scene internazionali. Magari sussurrando più che gridando, com’è nel suo stile di tamburino senza proclami.
FRANCO MONTORRO DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 2002
C’era una volta in cui Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, era chiamato il Paese dei Liberi perché là avevano avuto i natali tre grandi giocatori, accomunati dal ruolo, tutti quasi contemporaneamente sui campi di Serie A: Gaetano Scirea, Roberto Galbiati e Roberto Tricella. Solo un caso, eppure di quella curiosa concentrazione di “numeri 6” (per lettori più giovani, era quello il classico numero dei liberi ai tempi in cui i ruoli erano rigidamente distinti secondo le cifre da 1 a 11 e dunque i terzini avevano il 2 e il 3, il mediano il 4, lo stopper il 5 e così via fino all’11 dell’ala sinistra).
E così a molti parve non scontato, ma naturale sì, che sul finire della carriera di Gaetano la Juventus gli affiancasse il migliore degli altri due “compaesani”, quel Roberto Tricella che nel 1987, anno del passaggio in bianconero, era nel pieno della maturità calcistica. Dopo gli esordi nell’Inter e l’affermazione nel Verona dello storico scudetto, il Tricella che arriva a Torino è libero affermato e stimato.
Elegante nello stile di gioco, si inserisce presto e bene negli schemi di una squadra che lui stesso, oggi, definisce “di transizione”. Gioca nella Juve per tre campionati, prima di trasferirsi al Bologna. «Quella alla Juventus è stata per me un’esperienza fondamentale. Ne conservo ricordi positivissimi dal punto di vista umano, mentre ho qualche rammarico per i risultati, che non sono stati tutti favorevoli. Abbiamo vinto poco, tranne l’ultimo anno, quello con Zoff, il 1989/90. Abbiamo vissuto un po’ un periodo di mezzo fra i grandi successi della Juve precedente e poi di quella di Lippi. Ma oggi, ripeto, preferisco sottolineare i ricordi di quell’ambiente, i compagni, tutti. Comunque, anche se forse più di tanto non potevamo vincere, eravamo pur sempre la Juventus e per me fu un’enorme soddisfazione essere richiesto prima e poi giocare nel club bianconero. Anche perché c’era già Scirea, come compagno di squadra e dopo come allenatore. Una persona e un amico indimenticabili, un esempio: perché è stato il più grande libero di sempre, in Italia. A volte si fanno paragoni fra lui e Baresi, io sostengo che Franco è stato un gradino sotto “Gai”».
Libero elegante e puntuale, si diceva, preciso e mai sopra le righe, ordinato e con una grande visione di gioco. «Sono stato un buon giocatore – dice Tricella con la prolungata umiltà dei grandi – che ha cercato di supplire con il tempismo al fatto di non essere particolarmente veloce».
Oggi i rapporti di Roberto con il mondo del calcio sono molto allentati. «Ma è perché ho un’attività che mi assorbe molto. Lavoro nel campo immobiliare, ho una società che acquista terreni e costruisce e vende appartamenti: Questo da otto-nove anni, da quando ho smesso con il pallone. Vado allo stadio molto raramente, più di frequente seguo qualche partita in televisione, mi sento con qualche ex compagno. Ad esempio Gigi De Agostini, che era a Verona con me e che passò alla Juventus nello stesso mio anno. Ho due figli di 11 e 8 anni, uno juventino e uno milanista, che giocano a pallone all’oratorio. Non penso oggi se potranno avere un futuro come calciatori. L’importante è che facciano sport e che si divertano. Poi che lo sport rappresenti per loro una palestra di vita. Oggi, purtroppo, i giovani non sono quasi più abituati a conquistarsi le cose, sembra che tutto sia loro dovuto, che tutto sia scontato. Invece lo sport aiuta a capire che gli obiettivi si raggiungono con la fatica. Poi, semmai, potranno seguire il mio percorso e comprendere anche quanto sia bello il calcio, quante bellissime emozioni regali. Io sono stato fortunato a viverne tante, a giocare e a rimanere un ragazzo fin oltre i 30 anni».
«I primi mesi senza calcio sono stati terribili. Avevo questo malessere fisico dovuto al fatto che non potessi più allenarmi tutti i giorni. Una sofferenza pazzesca perché, in oltre 15 anni di carriera, penso di non aver mai saltato un singolo allenamento: correre e sudare mi piaceva un sacco. Uno può prepararsi mentalmente quanto vuole, ma finché non smetti in maniera definitiva è difficile ricreare quella situazione nella tua testa. Immaginarti quel che sarà. Sono arciconvinto che il 90% dei calciatori, se il loro fisico reggesse, ritarderebbero il più a lungo possibile quel passo fatidico. Ne sono uscito buttando anima e corpo nell’attività degli investimenti immobiliari. Quand’ero a Bologna acquistai alcuni terreni con l’obiettivo di farli fruttare costruendoci sopra case. Solo che all’inizio delegavo volentieri agli altri visto che avevo la partita della domenica tra i miei pensieri principali. In seguito decisi di provarci in prima persona ed ebbi la fortuna di inserirmi in un team già rodato».
Queste frasi sono molto meno banali di quanto sembrino e convincono sempre di più che il buon Roberto sia stato un calciatore di grandi qualità umane, ma di modeste qualità atletiche. È arrivato a lambire i vertici del ruolo, rimanendo tuttavia escluso dal Gotha, per le ragioni dette prima: i limiti atletici (in campo aperto era in costante imbarazzo, di testa se la cavava col tempismo, ma non è certo stato un gran colpitore) e la mancanza della giusta dose di cattiveria e agonismo sono evidenti. Lo si può considerare una specie di Scirea minore, ma con una dote decisiva in meno: la personalità.
Ma è stato un professionista serio e non ha mai lesinato l’impegno. Il fatto che sia stato anche capitano, della Juventus testimonia quanto fossero bui i tempi del dopo Platini. Ma Roberto, di questo, non ha, ovviamente, alcuna colpa.
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