sabato 31 dicembre 2022

Matthijs DE LIGT

 

Matthijs De Ligt e Davinson Sanchez non si rivolgevano la parola – scrive Alec Cordolcini sul “GS” del settembre 2019 – non era una questione relazionale, ma semplicemente linguistica. Eppure sono diventati una coppia di centrali che, pur giocando assieme una sola stagione, ha portato nelle casse dell’Ajax oltre 115 milioni di euro, in una continua rincorsa al primato di incasso. Al momento della sua cessione al Tottenham infatti Sanchez divenne l’ajacide più costoso di sempre, prima di essere superato in classi¬fica da Frenkie De Jong. Un primato da poco ritoccato, bonus esclusi, proprio da De Ligt, settimo olandese a vestire la maglia della Juventus dopo Edgard Davids, Edwin Van der Sar, Eljero Elia, più le meteore (con zero presenze in prima squadra) Sergio De Windt e Ouasim Bouy e il Primavera Leandro Fernandes da Cunha.
In maniera indiretta, Sanchez è stato fondamentale per l’evoluzione di De Ligt tanto quanto gli allenatori e i preparatori incontrati dal giovane olandese nel corso della sua carriera. Come ogni talento che non si rivela al mondo già in età fanciullesca – perché tale era De Ligt, «un bambino come tanti, volenteroso e poco più», secondo le parole del suo primo allenatore in assoluto, Dave Van Nielen, nei pulcini dell’Fc Abcoude – il neo-bianconero è un giocatore costruito passo dopo passo, mattone dopo mattone. Sanchez per lui ha rappresentato il collega giusto nel momento più delicato, quello del passaggio, a diciassette anni, a una maglia da titolare in prima squadra, promosso da Peter Bosz.
L’8 agosto 2016 De Ligt debuttava da professionista in Eerste Divisie (la B olandese) con lo Jong Ajax contro l’Emmen – e con lui c’erano Onana, De Jong, Van den Beek, Sanchez, più lo sfortunato Nouri – e dieci mesi dopo diventava il più giovane di sempre a disputare una finale di Europa League. Un cambiamento radicale che un ragazzo minorenne difficilmente sarebbe riuscito a gestire senza una boa alla quale aggrapparsi in campo. Anche perché un allenatore come Bosz, cruijffiano fino al midollo, significa difese costantemente sotto pressione, sia quella avversaria che la propria. Lo stile di gioco di Sanchez, aggressivo, arrembante e rapido, ha compensato in maniera più che egregia quello di De Ligt, più fisico e di posizione. Soprattutto, ha messo a più riprese una pezza sugli errori commessi dal nostro, fisiologici per l’età e il contesto. Ciò che invece non è avvenuto al debutto in nazionale, avvenuto il 25 marzo 2017 contro la Bulgaria (il più giovane deb in arancione dal 1945), dove un De Ligt mandato allo sbaraglio dal CT Danny Blind, in coppia con un partner centrale totalmente inadeguato come Bruno Martins Indi, ha commesso errori in entrambe le reti degli avversari.
C’è una dichiarazione di De Ligt, rilasciata qualche giorno dopo la partita di Champions contro la Juventus decisa proprio da un suo gol, che illustra molto bene le radici professionali del giocatore. «Quel gol non è arrivato per caso, ma è stato il frutto di innumerevoli allenamenti dedicati al miglioramento della forza fisica, dell’esplosività, del timing nelle letture di gioco».
Talento costruito, si diceva. Sì, perché da bambino De Ligt non era nemmeno un appassionato di calcio. Non avendo nessuno in famiglia che lo aveva praticato, aveva scelto l’hockey come primo sport, salvo cambiare idea quando un suo amico di infanzia iniziò a giocare in una squadra nel campetto adiacente al suo. Entrato a sei anni nelle file dell’Abcoude, squadra della città a sud-est di Amsterdam dove è cresciuto (per i più curiosi: il padre Frank, di professione farmacista, lavora alla Apotheek Holendrecht, a circa un chilometro a sud della Johan Cruijff Arena), a nove viene notato da Casimir Westerveld e portato all’Ajax. Westerveld rappresenta un altro mattone fondamentale nella crescita di De Ligt, visto che sarà lui il primo a fargli indossare la fascia di capitano. Un silenzioso ragazzo di periferia scelto in mezzo a tante bocche larghe di città: Westerveld lo fece proprio per far crescere il giovane in personalità e leadership.
Per un tifoso dell’Ajax classe ‘99, il ricordo più esaltante della sua squadra in Champions risale al 2-1 in casa del Barcellona nel novembre firmato da Thulani Serero e Danny Hoesen. Facile comprendere cosa abbia rappresentato per De Ligt guidare, da capitano, l’Ajax fino alla semifinale di Champions, consolandosi poi con la doppietta campionato-coppa. Dell’Ajax di Erik ten Hag si è parlato tantissimo, senza però sottolineare a sufficienza come la formula vincente di una stagione probabilmente irripetibile sia stata una felice contaminazione tra i dettami della filosofia Cruijff e la visione del dg Marc Overmars. De Ligt è un frutto appartenente alla prima categoria: uno dei punti cardine della dottrina Cruijff prevede, per il vivaio, un lavoro di arricchimento e integrazione del sistema-Ajax attraverso una serie di collaboratori provenienti da altre discipline sportive, dall’atletica leggera al rugby, dal judo al football americano. L’obiettivo primario è il potenziamento, anche atletico, dei giovani. De Ligt correva male, aveva resistenza ma poco potenza nei muscoli. Un problema risolto attraverso una tabella di lavoro stilata dal mezzofondista olandese Bram Som. Il miglioramento della capacità di calcio è invece frutto di allenamenti specifici sotto la guida di Richard Witschge. Una metodologia di lavoro ben riassunta da una frase di Cruijff: «Nel golf ci sono allenatori specializzati nel putting e altri nello swing. Nel calcio c’è un solo allenatore per venticinque giocatori: assurdo».
«In sei mesi De Ligt ha fatto registrare progressi, in termini di crescita, per i quali mediamente sono richiesti due anni di tempo». Parole del suo ex agente Barry Hulshoff. Tra le capacità più importanti, spicca quelle di lasciarsi alle spalle gli errori come se niente fosse successo. Anzi, imparando da essi. A gennaio l’Ajax perse 6-2 il Klassieker contro il Feyenoord, eppure al Bernabeu De Ligt disputò una partita perfetta. Contro la Juventus non impedì a Ronaldo di segnare, sia all’andata che al ritorno, ma nella finale di Nations League non gli ha concesso nulla. La consapevolezza di non essere perfetto, come invece cercano continuamente di dimostrare i media italiani, rappresenta tuttora uno dei suoi maggiori punti di forza. «I miei margini di miglioramento?», ha dichiarato lo scorso maggio al settimanale Voetbal International. «Posso crescere tatticamente, diventare più veloce, più esplosivo, segnare di più, migliorare nei passaggi». Parole dalle quali traspare la stoffa del campione.

Il suo trasferimento alla corte bianconera è molto costoso, settantacinque milioni di euro non sono certo bruscolini. Ma tant’è: l’olandese è considerato uno dei più forti difensori del mondo e la sua giovane età porta i tifosi bianconeri a sperare (e sognare) in una sua lunga militanza a Torino. Si prende la maglia numero quattro (quella di Montero, tanto per fare un nome) e il 31 agosto debutta nella vittoriosa sfida interna di Serie A contro il Napoli per 4-3, decisa dal clamoroso autogol di Koulibaly.
Approdato a Torino, nei piani iniziali, per crescere gradualmente all’ombra dei più esperti compagni di reparto, il grave infortunio occorso pochi giorni prima a Chiellini lo lancia immediatamente titolare, in coppia con Bonucci. Dopo avere superato le iniziali difficoltà di adattamento, realizza il suo primo gol in maglia juventina, nel derby del 2 novembre 2019. Così scrive Fabiana Della Valle sul sito gazzetta.it: “Matthijs de Ligt è l’uomo del giorno, anzi l’uomo del derby. Poteva esserlo per quel tocco malandrino in area a inizio primo tempo, che poteva costare ai bianconeri il fallo da rigore e che ha fatto arrabbiare tantissimo il Torino, invece lo è diventato per il gol partita segnato a un quarto d’ora dalla fine, quando la ciurma di Mazzarri, che ha preparato molto bene la partita, stava già accarezzando il piacere di aver strappato un punto alla capolista. E invece no, è arrivato il piedone dell’olandese a decidere un derby giocato meglio dai padroni di casa che dalla Juventus, ma con un’evidente differenza di valori che alla fine è venuta fuori”.
Questa rete segna il suo cambio di passo, che lo porterà a imporsi tra i migliori elementi della squadra. In un campionato che termina in estate, a causa dello stop dettato dalla sopraggiunta pandemia, il difensore olandese riesce a conquistare il suo primo scudetto italiano.
Esonerato Sarri è affidata la panchina al neofita Pirlo. La compagine juventina non riesce a difendere il tricolore, compiendo un cammino altalenante a cui non giova, tra le altre, la defezione a più riprese di De Ligt, dapprima rimasto fuori per tre mesi in avvio di stagione a causa di un intervento alla spalla destra e poi, in gennaio, colpito dal Covid. Nonostante tutto ciò, la Vecchia Signora mette in bacheca la Supercoppa italiana contro il Napoli e la Coppa Italia contro l’Atalanta, entrambe le partite (curiosamente) disputate a Reggio Emilia.
«Sono molto contento alla Juve – dice a ESPN alla fine della stagione – anche se le prestazioni della squadra sono state inferiori rispetto agli anni precedenti, mi sento bene in campo e apprezzato da tutti. Questa è stata una stagione difficile fisicamente e mentalmente, con alti e bassi. Sono stato fuori per tre mesi, per poi tornare e prendere il Covid. Se tre settimane fa mi avessero detto che avremmo vinto le due coppe e conquistata la qualificazione in Champions League, sarei stato contento».
Estate 2021: Pirlo non ha convinto e Max Allegri ritorna in riva al Po. Dopo dieci anni di successi ininterrotti, la Zebra non riesce ad alzare nessun trofeo. L’allenatore livornese fatica a trovare l’assetto giusto e di questo ne soffre, ovviamente, anche Matthijs. Non secondario il fatto che Allegri predilige difendere “basso”, tutto il contrario del credo calcistico e delle caratteristiche dell’olandese. Le prestazioni del tulipano sono altalenanti e così decide di lasciare la barca bianconera per approdare a Monaco di Baviera.
«Alla Juventus mi sono divertito molto, ma ho sentito che era giunto il momento per una nuova sfida. La Juve è sicuramente un’ottima squadra, ma per me trasferirmi al Bayern Monaco è stato un ulteriore salto di qualità. Penso solo che il Bayern abbia l’ambizione di vincere la Champions, mentre alla Juve questa sensazione l’ho avvertita di meno. Quando sono arrivato avevano preso giocatori come Higuain e Ronaldo e la situazione era diversa. Dopo un po’ è iniziato il rinnovamento e le cose sono cambiate».  

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