giovedì 16 aprile 2020

Vittore CATELLA


Presidente della Juventus dal 1962 al 1971 – scrive Fabio Vergnano su “La storia della Juventus” di Perucca, Romeo e Colombero – l’ingegner Vittore Catella ha sempre avuto lo sport nel sangue. Non come semplice tifoso, ma come sportivo praticante. Atletica, rugby e pallacanestro, le sue discipline favorite, senza dimenticare che nel ‘33 e nel ‘37 partecipò ai Giochi mondiali universitari di bob.
Poi la grande passione per il volo. Pilota militare durante la guerra, Catella divenne successivamente collaudatore Fiat. Nel ‘52 fece volare il primo aereo a reazione costruito in Italia: un Fiat G80. Proseguì poi la sua attività in seno all’azienda torinese come direttore presso la Divisione Aviazione, senza però mai lasciare l’ambiente sportivo. Nel ‘58 assunse la carica di delegato provinciale del CONI e successivamente di delegato regionale.
Catella divenne a sorpresa dirigente della Juventus. Racconta che fu un quotidiano torinese ad informarlo un giorno di essere uno degli «uomini nuovi» della società bianconera e quel giorno stesso l’assemblea dei soci lo nominò vicepresidente. Dopo qualche mese Umberto Agnelli lasciò la presidenza ed a sostituirlo fu proprio Catella. Un incarico gravoso, anche perché Catella era deputato e divideva le sue giornate tra il Parlamento e la sede juventina. Erano anni difficili per la Juve. Catella divenne presidente alla fine di un ciclo fortunato: ma dopo non c’erano più Boniperti e Charles, Sivori era ormai in fase calante. La squadra insomma era da ricostruire e non era certo impresa da poco se si considera il particolare momento politico del Paese, gli scioperi, le serrate. Catella doveva rifondere senza spendere o, almeno, senza sprecare denaro. Suoi collaboratori più stretti, Amerio e Giordanetti e per qualche tempo anche Felice Borel, che dal neopresidente ebbe poi il compito di dirigere il mensile «Hurrà Juventus».
Come presidente, Catella si trovò così a gestire una Juventus di valore non eccelso, una squadra che si preoccupava di restare a galla nelle prime quattro-cinque posizioni della classifica, senza avere ambizioni di scudetto. In quel periodo invece Inter e Milan si passavano il bastone del comando ed alla Juve restavano le briciole. Durante la presidenza Catella arrivarono «solo» uno scudetto ed una Coppa Italia. Quando i clubs calcistici divennero società per azioni, Catella preferì lasciare il vertice della società. Ricorda: «A quel punto ero responsabile di fronte alla legge italiana e non solo nei confronti della famiglia Agnelli».
Alla Juventus arrivò quindi un amministratore delegato, un certo... Giampiero Boniperti che prima affiancò Catella, poi ne prese il posto. Il neo presidente volle al suo fianco Italo Allodi, con il quale gettò le basi della Juventus nuovo corso. E finché restò presidente Catella ebbe il grande merito di riuscire a non farli litigare. Certo, il compito di Catella non fu semplice, aldilà delle difficoltà di carattere economico a cui si accennava. Per lunghi anni le frontiere rimasero chiuse e dopo lo spagnolo Del Sol ed il misterioso brasiliano Miranda, uomo dal tiro-bomba, il presidente non riuscì più ad attingere sul mercato estero. Arrivarono anche Haller e Cinesinho, ma giocavano già in Italia. Eppure questa Juve a volte traballante, a volte capace di imprevedibili impennate, vinse uno scudetto al termine del campionato 1966-67. Alla guida della squadra c’era Heriberto Herrera, l’uomo del «movimiento», che portò la Juve alla vittoria proprio all’ultima giornata. Ricorda Catella: «Io credevo nello scudetto, ma pensavo che l’avremmo conquistato battendo 1’Inter in uno spareggio. Ricordo bene quel campionato, perché a Roma contro la Lazio l’arbitro De Marchi non vide un gol di De Paoli. Io mi arrabbiai molto, non tanto per l’episodio in sé, quanto perché anche successivamente il direttore di gara non volle riconoscere il proprio errore».
Vittore Catella in tempi successivi portò alla Juve, tra gli altri, giocatori diventati poi cardini della squadra come Haller, Benetti, Causio e Bettega. Ad ognuno di essi sono legati episodi buffi o curiosi. Tutti ricorderanno, per esempio, che Anastasi giocò una partita con la maglia dell’Inter, che credeva di averlo già fatto suo, mentre Catella definiva l’acquisto del giocatore con i dirigenti del Varese. Molto astuta la clausola imposta per il prestito di Bettega al Varese: meno partite giocate, più soldi da pagare. Anche la cessione di Sivori al Napoli ha un retroscena. Fu Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat, a trattare il giocatore con l’armatore Achille Lauro, che in cambio si impegnava ad acquistare dalla Fiat un certo numero di motori per navi.
La vita di un presidente di calcio è piena di episodi di questo tipo. Catella, per esempio, visse in prima persona anche il «caso» Meroni. L’acquisto del giocatore granata era già stato perfezionato sulla base di 400 milioni, poi i tifosi granata si ribellarono alla cessione e tutto sfumò. Ricorda Catella: «Ne parlai con l’avvocato Agnelli, e gli dissi chiaro: se lo prendiamo facciamo una brutta figura, se non lo prendiamo diranno che lei è avaro. A noi in ogni caso va male». In conclusione Meroni restò al Torino e per la stessa cifra divenne bianconero Simoni.
Non poche le delusioni. Catella ammette ancora oggi di aver sbagliato tutto ingaggiando Carniglia come allenatore. «Mi fidai delle referenze portatemi da un giornalista» spiega, e ricorda come Zigoni e Volpi furono i due giocatori sui quali avrebbe scommesso qualsiasi cifra e che invece, per diversi motivi, alla Juventus non sfondarono. Oggi il calcio per Catella è ancora una passione genuina, senza faziosità esasperata. La Juve resta nel suo cuore, ma lui non si sente un tifoso nel senso negativo della parola. «Una sconfitta non deve mai essere un dramma» ama ripetere da autentico uomo di sport, e non teme di sembrare fuori del tempo.


VLADIMIRO CAMINITI
Catella, un ottimista temprato nei rischi dell’amor di Patria. Le guerre combattute, non chiacchierate. Due medaglie d’argento, tre di bronzo, cinque croci di guerra. Volare è una passione. Ufficiale superiore dell’Aeronautica collauda per anni apparecchi militari presso il centro sperimentale di Guidonia, Nel 1941 viene assegnato alla ditta Piaggio dove mette a punto il più grande apparecchio italiano, il quadrimotore P.108. Nel 1942 entra alla Fiat come capo pilota presso la Aeronautica d’Italia. Ventisette nuovi prototipi vengono da lui collaudati, tra i quali il primo aeroplano italiano a reazione costruito nel dopoguerra, il G.80.
Liberale. Come presidente bianconero, lascia ricordi di puntualità e di eleganza, di cultura e di dinamismo. Fa tante cose nel modo di chi sa apprezzare il tempo speso per gli altri e per lo sport. Uomo pieno di vitalità. Culmina con lui la storia dei presidenti juventini festevoli oratori. E forse li sbaraglia tutti. In tempi della Juve aridi e difficili con la sua tempra vivace e fantasiosa illude i tifosi che nulla sia cambiato, che mai nulla possa cambiare in questa famiglia chiamata Juve.
«Avevo dodici anni, inforcavo la bicicletta e filavo in piazza d’Armi nuova a vedermi la Juventus... Mio papà era professore di pedagogia, entusiasta ed appassionato di sport, nella cui forza educativa fermamente credeva. Io presi da lui, presto mi concentrai sugli ideali, ero e sono un romantico. Ho combattuto sempre con fede ed entusiasmo, e non me ne pento. Naturalmente, ho saputo adeguarmi ai tempi mutati per restare al passo. Bisogna vivere nel presente e non nel passato. La vita è ogni giorno piena di novità...».
Uomo giovanile anche sui settant’anni, continua a salire e scendere dagli aerei, ad accettare cariche ed a tenere prolusioni ufficiali. Un po’ più brizzolato, un po’ più stanco, ma sempre lucido e fidente.
«Abbiamo ingaggiato Heriberto per il suo carattere. Io e Giordanetti abbiamo trattato con una decina di allenatori prima di scegliere lui. Anche Munoz scartammo. E la scelta è stata azzeccata. Con Heriberto la Juventus ha camminato. Uomo con tanta passione. Ha creato la Juventus del collettivo, prima è stato lui, poi il mio successore Boniperti. Quanto a me, sono soddisfatto del mio periodo di presidenza. Si è lavorato e lottato, si è vinto uno scudetto sudato e sofferto. Ci mancavano tre fuoriclasse all’attacco per sbaragliare anche l’Inter. Ma il nostro collettivo lavorava di più in campo e non temeva confronti sul piano della serietà professionale».

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