Non si può nemmeno considerare una meteora Giacomo Perego, poiché il bianconero lo ha vestito solamente per la foto ufficiale e per qualche amichevole pre-campionato. Non avendo convinto allenatore e dirigenti, viene mandato a Lecco, dove riuscirà a farsi valere.
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1972
Oilà avanti la Juventus, che da sempre vuol dire gioventù. Giacomo Perego, da Merate a un tiro di schioppo da Como, viene a pallino in una squadra che in questi ultimi anni di baldi giovincelli parecchi ne ha lanciati nell’orbita dell’italica pelota.
Ventuno anni, essendo che il nostro è nato il 16 marzo ‘51, ed una stazza niente male che subito ti dice che sei di fronte ad un attaccante: alto quanto comanda il gioco moderno, che è gioco di cervello sì ma anche di bioccola, nel senso più vasto del termine, vale a dire che una punta che si rispetti deve esserci anche sui palloni aerei, Robi Bettega docet eccome no.
Che Perego abbia una gran voglia di farsi strada nel bosco del campionato lo si capisce subito, al primo approccio col tipo, che è simpatico anzichenò e ci ha pure idee chiare. «A quindici anni ho cominciato a pensare al pallone, sai, una cosa da dopo studio, frequentavo ancora il ginnasio, anche se presto mi sarei indirizzato verso l’elettrotecnica, un mio “chiodo fisso” sin da bambino. Allora il calcio lo concepivo soltanto come un piacevole relax, ma già l’anno dopo, diventava qualcosa di più. Comunque non ho abbandonato gli studi: ho preso il diploma da elettrotecnico e contemporaneamente ho cominciato a frequentare il corso per diventare perito, a Sesto San Giovanni prima e a Busto poi. Chiaro che i sacrifici erano all’ordine del giorno: conciliare lo studio, anche se serale, con gli allenamenti e gli impegni ufficiali non è certo facile, a un certo punto ho dovuto interrompere al quarto anno, ma dopo il servizio militare mi propongo di riprendere e concludere, tanto più che il diploma mi interessa in prospettiva futura…».
Già, il servizio militare, vale a dire un anno quasi perso… «Speriamo di no, anche se non dipende da me; col passaggio alla Juve ho raggiunto un traguardo ambitissimo e, lo confesso, insperato, e per adesso mi accontento, nel senso che non pretendo certo di trovare subito un posto fisso in squadra. Ma con il lavoro e l’impegno, compatibilmente con il tempo che avrò a disposizione per allenarmi, un posticino spero di trovarlo, magari fin da quest’anno…».
Ma sentiamo un po’, è chiaro che vogliamo conoscerlo un po’ meglio questo centravanti che ha qualcosa di antico, di atipico perfino. La storia delle sue peregrinazioni è necessariamente ridotta, dato che l’età è delle più verdi, ma vale la pena di dargli una scorsa: «Sono calcisticamente nato nel Monza, iniziando a sedici anni la trafila nelle “giovanili”. Poi, da Monza a Busto Arsizio in prestito alla Pro Patria, in C la vita è dura, ma le cose non mi sono andate niente male, e così l’anno dopo Radice mi ha chiamato. Grande allenatore, gli devo molto. Ma il posto in prima squadra ha troppi pretendenti, io poi sono ancora in età da “De Martino” e così a novembre torno in prestito, stavolta un po’ più lontano, a Treviso. È stato il campionato del mio “lancio”, il ‘70-‘71. A Treviso ho infatti trovato un ambiente adatto a maturare e dei compagni con cui ho legato subito. Abbiamo sgarrato per un soffio la B, ma personalmente ci sono arrivato lo stesso, trovando finalmente un posto di titolare nel “mio” Monza…».
È storia recente, campionato ‘71-‘72, ventidue presenze in campionata e una manciata di gettoni In Coppa Italia, gol pochini ma importanti: «Per la verità ho segnato soltanto due volte, contro Modena e Foggia, in apertura di stagione andavo forte, tanto che a novembre avrei dovuto fare il grande salto: a mia insaputa, un grande club (n.d.r. la Fiorentina) si stava dando da fare per acquistarmi, ma i dirigenti del Monza preferirono temporeggiare, sperando di valorizzarmi ancor di più tenendomi sino alla fine del torneo. Invece…».
Invece? «La jella ha cominciato a perseguitarmi, infortuni in serie e soprattutto una dannata, noiosissima pubalgia che mi ha bloccato sul più bello. Come se non bastasse è venuto fuori, nel Monza, un altro ragazzo di valore, Ballabio, e la concorrenza mi ha impedito di giocare da titolare fisso per il finale del torneo, anche perché la squadra aveva finalmente trovato un gioco valido e si sarebbe rischiato grosso a cambiare. Così arrivo alla Juve dopo una stagione non male, ma che, da com’era iniziata, prometteva per me qualcosa di più».
Cosa temi di più dal passaggio alla più amata società d’Italia? «Senz’altro il pubblico, la folla, a cui non sono per niente abituato. Non che a Monza non venisse nessuno a vederci, ma qui è tutta un’altra musica. L’ho capito sin dai primi allenamenti pre-campionato, a Villar Perosa. Mi avevano detto che la squadra bianconera specialmente quest’anno aveva un seguito eccezionale, ma così non me lo sarei davvero immaginato. Ovvio che sono molto orgoglioso della mia nuova squadra, ma, permetti, anche un tantino preoccupato».
Conoscevi già qualcuno dei tuoi nuovi compagni? «No. Conoscevo Viola, che ora è in prestito al Mantova. Siamo stati più volte avversari nel torneo De Martino. Ma mi sono subito trovato a meraviglia con tutti, da Altafini, che era il mio idolo quando ero ragazzino e a cui auguro di fare tanti gol specialmente in Coppa dei Campioni, a Haller, che è una carica di simpatia fatta persona. A Villar eravamo vicini di tavola, e così ero la vittima predestinata dei suoi scherzi. È divertentissimo, davvero un compagno ideale. In albergo, solitamente, divido la camera con Zaniboni…».
Ritieni di assomigliare a qualcuno, nel tuo ruolo? «Veramente non mi sono mai posto il problema. Non è per immodestia, ma a dire il vero non mi andrebbe di assomigliare a qualcun altro. Vorrei essere Perego e basta. Comunque, quando ancora potevo permettermi i capelli lunghi, gli amici mi dicevano che ricordavo un po’ Boninsegna, specialmente per il modo di correre. Magari lo ricordassi anche per i suoi gol da primato in classifica-cannonieri…».
Qual è il tuo ruolo preferito? «Qualsiasi ruolo di vera punta mi sta bene, non ho particolari preferenze, anche se taluni dicono che ho qualche propensione per la posizione centrale. Del resto oggi l’attaccante deve essere in grado di ricoprire tutti i ruoli, di stare sulle fasce laterali come sul centro».
Sei ambidestro? «Grossomodo, anche se vado meglio di destro. Al Monza e ancor più al Treviso, però i gol li segnavo anche di testa; lì il mio modello è più che mai José Altafini, che considero un vero artista del gioco alto…».
Quale difensore da te incontrato ti ha più favorevolmente impressionato? «Certamente Rosato: prima di tutto perché ha classe da vendere, e poi perché ha grinta senza però trascendere in cattiveria. Lo stesso, del resto, vale per il mio compagno Morini».
Hobby? «La musica, mi piace moltissimo ascoltare della buona musica. Joe Cocker, Le Orme, la Premiata Forneria Marconi sono i miei favoriti».
Come hai saputo del trasferimento alla Juve? «In un modo un po’ romanzesco. Eravamo in libera uscita, con Mascheroni e altri calciatori militari con me. Mascheroni telefona a casa e la moglie, tra una cosa e l’altra, gli dice: “Sai che il tuo amico Perego è stato venduto?”, senza dirgli il nome della squadra, però. Mascheroni, sapete com’è, immediatamente mi studia lo scherzo, dicendomi che sono stato ceduto a una squadretta di C del Sud, manco mi ricordo il nome preciso, mi sembra Acquapozzillo. Ora, con tutta la simpatia per quella società, proprio non mi aspettavo un altro declassamento, e per di più così lontano da casa mia. Arrabbiatissimo, corro a prendere il giornale e figuratevi la faccia che ho fatto quando ho letto che sarei andato a giocare nella squadra Campione d’Italia. Lipperlì credo di non essere riuscito a dir nulla, tanto ero contento…».
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