Armando Picchi arrivò a Torino nell’estate del 1970; aveva 35 anni e un patentino di allenatore di seconda categoria. Alla Juventus non era mai arrivato un allenatore così giovane, ma si respirava aria di grandi cambiamenti: il presidente Vittore Catella stava per passare la mano a Boniperti, con Italo Allodi fresco general manager. Il decennio si era aperto con due scudetti, ma per il resto aveva riservato risultati mediocri, impennata di Heriberto Herrera a parte, e aveva anche portato la grande paura della retrocessione.
C’era voglia di rinascere e Picchi sembrava proprio l’uomo giusto per rinverdire i fasti passati. Diceva Boniperti: «È giovane, serio, preparato, soprattutto ha una rabbiosa voglia di sfondare».
Era arrivato in serie A, da giocatore, venticinquenne; Paolo Mazza lo aveva acquistato dal Livorno in serie C per lanciarlo in una sorprendente Spal, classificatasi al 5° posto. L’Inter lo aveva preso subito, lasciando alla Juventus il suo compagno di difesa, il più modesto Bozzao, ed erano stati 7 anni indimenticabili: scudetti, coppe europee, coppe mondiali e, sulla soglia della trentina, anche la prima di 12 maglie azzurre.
Interprete per antonomasia, del ruolo di libero, ultimo baluardo davanti al portiere in mille battaglie seguite con il cuore in gola da milioni di spettatori; leader tattico ma, soprattutto, umano e morale della sua squadra, sindacalista coraggioso e altruista, quando i calciatori non avevano alcun diritto. Era l’esempio, uno dei pochi nella storia del calcio, del campione che conosce e difende con coerenza i grandi valori che nutrono le società civili; il rispetto degli altri, il coraggio delle proprie scelte, lo spirito d’indipendenza, la serietà professionale, la solidarietà, l’amicizia, il senso profondo delle proprie radici.
Livornese purissimo, una famiglia di marinai, un nonno anarchico e un nonno repubblicano costretto all’esilio, portò nella Grande Inter del Mago Herrera e di Moratti tutto lo spirito ribelle e irriverente, ma anche combattivo e indomabile, ereditato dalla sua terra e dalla sua famiglia.
La natura non era stata prodiga con lui, nel donargli talento da fuoriclasse. Tutto quel che nel calcio aveva raggiunto lo aveva realizzato pagando di persona, salendo gradino dopo gradino, con la volontà, la tenacia, il coraggio. Diventò il capitano non perché giocasse meglio di Suarez, di Corso oppure di Mazzola, ma perché più d’ogni altro possedeva la capacità di lottare e di trascinare la squadra alla lotta.
Perché, fra i sassi di Buenos Aires, nell’allucinante fragore dell’Hampden Park, nella bolgia di Liverpool oppure nella battaglia di Dortmund, mentre la squadra correva il rischio di disgregarsi, lui non si limitava a controllare il gioco e a ribattere, ma urlava per incitare i compagni, li guidava con i gesti imperiosi delle braccia, inveiva contro chi mostrasse un attimo di disorientamento o di timore, comandava e si faceva ubbidire. In campo, il fascino della sua personalità soggiogava anche chi sapeva giocar meglio di lui.
Picchi non sapeva giocar di testa, eppure è stato fra i difensori più forti che abbia mai avuto il calcio mondiale. Si può discutere all’infinito sull’utilità tattica del libero nel calcio, ma è indiscutibile che in quel ruolo, che pretende intelligenza, intuito, furbizia, lucidità, lui sia stato uno dei migliori. Ha dato persino il suo nome alla formula: il Libero alla Picchi.
Gli scontri con Herrera erano all’ordine del giorno: «Il Mago non lo avevo capito e non credevo di poterlo capire. Ero troppo diverso, diciamo troppo indisciplinato. Capii che dovevo cambiare e basta. Sono diventato un altro».
E molti, che non amavano Herrera, vedevano in lui il vero allenatore in campo, lo stratega di tante grandi vittorie. Lo chiamavano Penna Bianca e lui comandava davvero, capace in partita di prendere per la maglia un compagno e, mostrandogli la fascia di capitano, urlargli in faccia: «Cos’è questo? Uno straccio? E allora fa come ti dico! E dopo fa pure la spia al Mago!».
Quando gli dicevano che era stato fortunato a trovare un allenatore come Herrera, che lo aveva valorizzato, ribatteva pronto che la fortuna era stata di Helenio ad aver trovato un giocatore come lui, anzi «come tutti noi», amava precisare, in segno di solidarietà con i compagni, da vero capitano. E fu il primo a ribellarsi alla disciplina ferrea di Herrera quando, vinto tutto quel che c’era da vincere, i giocatori dell’Inter cominciarono ad avvertirne la pesantezza. Ma quando i pochi amici veri gli chiedevano quale fosse il tecnico migliore da lui incontrato, la risposta era: Helenio Herrera.
Poi l’esilio in provincia a Varese, dopo l’ennesima polemica con il Mago. Dopo un’estate di studi a Coverciano, era diventato l’allenatore-giocatore della squadra biancorossa (quando lui era in campo, dalla panchina lo aiutava Sergio Brighenti). La partita dell’addio l’aveva giocata a Firenze. Era una domenica triste, piena di amara rassegnazione: lui, livornese, costretto ad assistere e a fare la spalla al trionfo dei vecchi rivali fiorentini, mentre il suo Varese retrocedeva in serie B.
Il destino non fu mai tenero con lui. Un grave incidente, durante un incontro con la Nazionale, ne stroncò la carriera. Era il 6 aprile del 1968, a Sofia si giocava Bulgaria-Italia, era l’andata dei quarti di finale degli Europei. Al 24° minuto del primo tempo, Picchi intervenne a chiudere una discesa del mediano Yakimov. Uno scontro terribile: lo portarono negli spogliatoi, lui chiese di rientrare e rientrò; si mise all’ala, sulla fascia. Rimase fermo, immobile come una statua, senza poter intervenire. Era ritornato in campo con una commozione cerebrale e con l’osso pubico fratturato.
Iniziò, come allenatore, sulla panchina del suo Livorno in serie B, nella stagione 1969-70. Lo chiamò il fratello Leo, gli amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il girone d’andata. Il Livorno si salvò, chiudendo al 9° posto. Poi arrivò la proposta di Italo Allodi: era la stagione 1970-71 e a 35e anni Picchi, il più giovane allenatore della serie A, sedeva sulla panchina della Signora più blasonata e temuta d’Italia, quella bianconera.
«Il calcio mi piace moltissimo, ma non è tutto e non vorrei mai andare avanti a stento. La Juventus mi ha dato fiducia e tempo, sono nella migliore situazione possibile. Se dovessi fallire, tanto varrebbe cambiare mestiere; o allenatore della Juventus, con piena soddisfazione della società, oppure a Livorno a fare qualcosa d’altro».
Alla Juventus fu accolto con grande ammirazione, quella che meritano i grandi, leali avversari di un tempo. Debuttò con una vittoria, a Catania, poi vennero le prime difficoltà a causa di una squadra che era stata costruita con giovani di belle speranze, che muovevano i primi passi della loro gloriosa carriera che li avrebbe trasformati in campioni, e veterani che fungevano da chiocce. Tancredi in porta. Spinosi e Marchetti; Furino, Morini e Salvadore. Il tedesco Haller e il sardo Cuccureddu. Poi, Roberto Bettega, che in area avversaria svettava sempre su tutti. Fabio Capello che disegnava geometrie a centrocampo. Pietro Anastasi il saraceno, bomber di razza eccelsa. E Franco Causio, leccese sanguigno dal talento cristallino, per il quale Picchi stravedeva. Di lui disse, prima della partita di Coppa delle Fiere contro il Barcellona: «Ho il problema di inserire in prima squadra Causio; più lo vedo in allenamento e giocare con la De Martino e più mi convinco che sia un giocatore di eccezionale avvenire. Sono certo che il suo turno verrà presto, ma non vorrei che si demoralizzasse troppo, restando troppo fuori dal giro».
Ci furono le sconfitte con il Milan di Rocco e a Napoli, una limpida vittoria proprio su Herrera, che guidava la Roma, una sconfitta a Milano con l’Inter e una bella vittoria a Firenze. Fu un alternarsi di risultati che diede la sensazione che qualcosa di buono stesse maturando per un futuro glorioso e, che non fosse una sensazione illusoria, lo dimostrerà la vittoria dello scudetto dell’anno dopo.
La Juventus finì il girone di andata al 4° posto e cominciò il ritorno con un clamoroso 5-0 sul Catania. Quella sera di fine gennaio Picchi fu invitato in televisione, alla “Domenica Sportiva”. Accettò l’invito, a patto che fosse accompagnato da Anastasi. Pietruzzo era il centravanti della Nazionale, ma non stava attraversando un periodo di grande forma e Picchi lo aveva lasciato fuori squadra proprio nella partita contro i siciliani. Difficile dimenticare quella domenica; dopo i filmati e le interviste di rito, Picchi lasciò in fretta gli studi. «Non mi prenda per maleducato, signor Pigna, ma non mi sento niente bene».
Otto giorni più tardi, a Bologna, la Juventus stava perdendo 1-0, goal di Marino Perani su errore del portiere Tancredi. Mancava un quarto d’ora alla fine, quando volarono spintoni e schiaffi tra Causio e il terzino del Bologna, Roversi. Intervenne Spinosi, nel parapiglia entrarono in campo i due allenatori: Fabbri e Picchi. L’arbitro era un giovane delle ultime leve, Gaetano Mascali di Desenzano sul Garda. Tirò fuori il taccuino ed espulse Causio e Roversi, poi anche Picchi che ne disse qualcuna di troppo.
«Non è mai successo – mormorò qualcuno in tribuna – che un allenatore della Juventus sia stato espulso». Picchi uscì dal campo con aria seccata, le mani infilate nelle tasche del cappotto, il bavero alzato sul volto scavato. I fotografi scattarono le loro istantanee, senza immaginare che sarebbero state le ultime di Picchi. Sullo sfondo l’arbitro che seguiva con sguardo severo l’uscita dal campo dell’allenatore; gli era vicino Cuccureddu, le mani sui fianchi. L’ultimo sole di una domenica di febbraio illuminava, lontano, il muro di folla: così Armando Picchi lasciava per sempre i campi di calcio.
Nell’ottobre del 1969 aveva sposato la bella indossatrice genovese modella di “Grazia”, Francesca Fusco, dalla quale aveva avuto due figli, Leo e Gianmarco. Proprio la nascita di quest’ultimo aveva determinato un’altra svolta difficile nella sua vita. Francesca aveva sopportato le conseguenze di un parto difficile e, per un mese, era stata tra la vita e la morte, salvata soltanto dopo il terzo intervento chirurgico.
A quel tempo Picchi si era sottoposto a una vita sfiancante. Al mattino allenava la squadra, al pomeriggio raggiungeva Milano in auto, correva al capezzale della moglie, dormiva in clinica 3-4 ore per notte e al mattino rientrava a Torino, per riprendere la routine quotidiana. Mai un pasto a tavola. Andava avanti a toast e birra. A novembre, però, aveva accettato di disputare sul campo di allenamento del Combi, una partita fra tecnici della Juventus e giornalisti torinesi. Con il pallone fra i piedi aveva dimenticato tutto, correva con la leggerezza e l’entusiasmo del ragazzino, esaltandosi ogni volta che la sua squadra andava in goal. Il male, però, aveva già cominciato a minarlo. Le rughe, sul suo volto asciutto, aumentavano di giorno in giorno. Visse ancora un momento felice, a Capodanno, nel ritiro di Rapallo con la squadra. Al suo fianco era, finalmente, riapparsa la moglie, magra ma pronta a ristabilirsi e si era fatta festa al “Covo” di Santa Margherita, con i giocatori affettuosamente attorno.
Di lui Salvadore un giorno disse: «Nella mia carriera non ricordo di aver mai parlato bene di un allenatore. Di Picchi debbo farlo, lui non lo sa ma giochiamo quasi sempre per lui».
Entrò in clinica pochi giorni dopo; la prima diagnosi parlò di mialgia sottoscapolare, poi, dopo un nuovo consulto, nel perdurare di dolori atroci, emerse la verità: Armando soffriva di un male incurabile. Quando, avvisati del terribile male, i giudici sportivi gli ridussero la squalifica causata dall’espulsione di Bologna, Boniperti si recò in clinica a dargli la notizia ma, affinché Picchi non sospettasse di un gesto di pietà, gliela comunicò con fare burbero. «Ti abbiamo difeso, ma non lo faremo più: adesso che torni, devi essere più disciplinato, devi essere di esempio ai tuoi giocatori. Intanto, per il tempo che sei stato squalificato, ti verrà trattenuto lo stipendio». E lui a difendersi con veemenza: «È stato uno scatto d’ira, sì lo ammetto, ho sbagliato».
O forse era già il male che lo minava a renderlo nervoso, oppure l’angoscia che gli era rimasta dentro dopo i terribili mesi passati al fianco della moglie sofferente. Si inteneriva, lui così apparentemente duro, al ricordo ancor fresco delle traversie di Francesca, rivedeva quei tragici momenti, ignaro del dolore più atroce con cui stava per ricambiarla.
Tante volte, proprio per evitare che capisse, Allodi si sedeva vicino al letto, con matita e carta, a far progetti per rendere più forte la Juventus, la “sua” Juventus, una squadra giovane che ora bisognava far crescere. «Ti piacerebbe avere Tizio? Che ne diresti di cedere Caio?». E lo sguardo di Picchi, nel volto scavato, diventava più lucido: «Che bella Juventus, faremo!». «Ma tu devi sbrigarti a tornare, perché ho un giocatorino da farti vedere!». «Certo che torno subito: io sono livornese, lascia che mi passi questo dannato di un dolore (proprio a me doveva capitare un reumatismo così!) e chi mi tiene più qui dentro? Un giorno o l’altro, senza che neanche vi avvertano, mi rivedrete allo stadio».
Invece, operato inutilmente a Torino, fu trasferito in Liguria, a San Romolo, dove morirà il 26 maggio, un mercoledì, mentre i suoi ragazzi stavano giocando la finale di Coppa delle Fiere, contro il Leeds. Erano le 4 di pomeriggio, l’ora piena delle partite.
Nessun commento:
Posta un commento