giovedì 5 ottobre 2023

Mauro German CAMORANESI


È lui la sorpresa più bella del campionato – afferma Matteo Marani sul “Guerin Sportivo” del 19-25 novembre 2002 –. Nessuna persona, nemmeno chi oggi giura di averlo previsto, poteva immaginare che Mauro German Camoranesi spodestasse il quotato Zambrotta e diventasse una colonna della Juve. Tutto in meno di quattro mesi. Eppure ci è riuscito. Merito di un carattere orgoglioso e di una propensione quasi naturale alla sfida, che lo accompagna dai diciotto anni, l’età in cui lasciò l’Argentina la prima volta per emigrare in Messico.
Mauro va veloce. Occhiali scuri a specchio, giubbotto più comodo che raffinato, per un giorno ha deciso di fare il cronista di se stesso. Nota a margine: parcheggia l’auto fuori del Comunale, tra i tifosi comuni. I castelli dorati non gli piacciono.
Andiamo all’inizio. Quand’è che Camoranesi comincia a diventare Camoranesi?
«Si va molto indietro. Direi ai nove anni. Un giorno viene da me un amico, uno con cui passavo i pomeriggi in cortile a giocare a calcio. E mi propone di provare per una piccola squadra vicino alla mia casa di Tandil, la Jorge».
Tu accetti.
«Sì, accetto. In quella formazione c’era già mio cugino Sebastian, che poi è morto a quindici anni. Il calcio era felicità, tantissima felicità. Io fui promosso capitano pochi mesi dopo».
Altri ricordi di quei giorni?
«L’infanzia ricca di sentimenti. Straordinaria ed eccezionale. La mia era una famiglia povera, ma generosa di valori e di sentimenti. Un’infanzia bellissima».
I tuoi che lavoro facevano?
«Mia mamma Cristina era casalinga, solo per un periodo ha lavorato come impiegata. Papà Juan Carlos era un operaio. Ho pure una sorella più grande di otto anni, Mairsa. Una specie di seconda madre».
Dopo cosa succede?
«A sedici anni cambio vita. Non è più tempo delle scarpette Sacacisca, le prime che ricevetti e per le quali venivo preso in giro dai compagni. Erano in effetti orribili. Lascio la famiglia, con il dolore che ti lascio intuire. Abbandono anche la provincia per andare in città, nelle giovanili del Ferrocarril, finendo in una realtà enorme. Gli autobus, il traffico».
Si dice spesso che simili situazioni aiutino a maturare in fretta. Sei d’accordo?
«D’accordissimo: un anno vissuto così ne vale quanto tre in una situazione normale. Ma la salita non era finita. A vent’anni vado in Messico e in quel momento capisco che sto diventando davvero un calciatore».
Sono più le cose che il calcio ti ha tolto o quelle che ti ha dato?
«La seconda. Mi ha dato molto, a cominciare dal denaro, mi ha tolto una parte della famiglia. Ma non sono l’unico lavoratore che è stato costretto a emigrare».
Sei dunque uno che non teme le nuove avventure. Quanto ti ha aiutato tutto ciò nell’ultimo passaggio alla Juve?
«Uno che a diciotto anni è andato via dall’Argentina per giocare in Messico non può temere di trasferirsi da Verona a Torino. Se avessi avuto paura di fallire avrei già smesso di fare questo bellissimo mestiere. Ero pronto ad affrontare la sfida nel modo migliore».
Prima dell’approdo bianconero, si era parlato di altre squadre italiane. Lazio in testa.
«Non sapevo niente, la società non mi ha mai comunicato interessamenti di altri club. Era roba buona per i giornali: il 15% delle cose che scrivete sono vere, il resto serve a riempire le pagine».
Ingeneroso.
«È così. L’unica volta che il Verona mi ha detto qualcosa di preciso è stato per il coinvolgimento della Juve. In due giorni si è chiuso ed è stato meglio perché ho avuto meno tempo per riflettere».
Siamo al ritiro di questa estate a Châtillon. Lippi cosa ti chiede in quell’istante?
«Di giocare né più né meno come al Verona. Di Lippi apprezzo la sincerità: ti dice in faccia tutto, anche le cose più dure. L’onestà è il valore principale nel calcio e direi nella vita di ognuno».
Le altre impressioni da matricola bianconera?
«Mi ha subito sorpreso Del Piero. Lo ritenevo forte, ma vederlo in allenamento mi ha convinto che ha numeri fuori del comune. Un altro gigante e Lilian Thuram. L’anno scorso ha avuto dei problemi, quest’anno, a posto, dimostra il suo valore».
Eppure in prima pagina ci sei finito quasi più di loro.
«A me piace fare bene, mi piace la popolarità, sopporto peggio il fatto di stare al centro di troppe attenzioni. La copertina preferisco lasciarla a uno come Del Piero, che se la merita».
Cosa vuol dire giocare nella Juve?
«Stare in uno dei club più grandi del mondo. In campo cambia poco, tutte le maglie pesano uguali, fuori avverti il senso di organizzazione. E un giocatore si sente più protetto. Ribadisco però un concetto: la differenza sta sempre nella tua convinzione».
Tra i nuovi acquisti di Madama, tu venivi messo in secondo piano. Si parlava onestamente più di Di Vaio o di Baiocco.
«Io avevo fiducia nei miei mezzi, dopodiché il risultato che sto ottenendo è eccezionale. Sono contento e ti prego di una cosa».
Quale?
«Non voglio abbondare in aggettivi, dopo l5 partite mi sembra affrettato».
Cosa temevi di più in estate?
«Dovevo cambiare mentalità. Quando giochi in una grande squadra hai un solo risultato a disposizione: la vittoria. Se l’inserimento è riuscito bene devo un ringraziamento sincero a tutti. Anche all’ultimo dei magazzinieri».
Altro punto fermo?
«La mia famiglia, che ho portato logicamente a vivere a Torino. Finisco gli allenamenti e corro a casa, purtroppo si gioca ogni tre giorni e non è facile essere presenti. Ai miei bambini Augustin e Leandro spero di trasmettere un’educazione giusta».
In cosa consisterebbe un’educazione giusta?
«Tipo la mia, ma non è possibile oggigiorno. Si valorizza troppo l’aspetto economico o materiale dell’infanzia, invece preferirei che vivessero la libertà. Andare su un campo e giocare senza controlli o proibizioni. Un papà con l’auto di lusso o la casa con otto stanze non rendono più felice un figlio».
Torniamo alla Juve: ora Zambrotta che fine farà?
«Abbiamo già giocato insieme e le partite sono del resto molte. Non è solo un modo di dire, non è diplomazia. In questo calcio nessuno, nemmeno Superman, può fare 60 partite».
Tu però non ti senti più un panchinaro. Ammettilo.
«Io me la gioco sempre e ovunque. È statistica: in tutte le squadre nelle quali sono arrivato ho iniziato dalla panchina. Poi sono uscito fuori. Il cartellino di riserva non mi spaventa».
Uno dei tuoi difetti, non so se concordi, è il fatto di non possedere un rendimento costante nel corso di un’intera stagione.
«Hai ragione, è il mio limite. Ma sono convinto che ho ampi margini di miglioramento e che lavorare con uno staff di prim’ordine come quello della Juve mi aiuterà a essere più continuo. Se lo vuoi sapere, è la sfida che mi sono posto. Non scendere più».
Oggi stai molto bene, altrimenti sarebbero impensabili gol come quello al Feyenoord o il dribbling tentato nel secondo tempo con il Milan.
«Sto bene, ma ho sempre tentato il colpo, anche nei giorni neri. Ci sono state partite nel Verona in cui ho fatto schifo, ma ho provato comunque il numero, altrimenti non ha senso che giochi».
In questo ricordi un certo Omar Sivori, tuo connazionale, nonché predecessore alla Juve.
«Non mi fare dare una risposta scontata. Lui ha fatto oltre 100 reti, io una. Che cosa posso commentare? È una responsabilità in più per me, anche perché sono il primo argentino che sta facendo bene dopo una serie di connazionali-juventini che sono andati male. Tutto qua».
Gli argentini difficilmente sbagliano. Come mai?
«La personalità è la nostra arma, poi conta il legame culturale con Spagna e Italia. Specie con voi. Metà della gente di Buenos Aires ha cognomi italiani».
Tu sei in comproprietà tra Verona e Juve. Qualcuno ha gettato l’allarme: Camoranesi potrebbe finire sul mercato.
«Rispondo così: io voglio rimanere alla Juve perché si tratta della squadra più grande d’Italia. Voglio vincere qui lo scudetto».
Il tuo procuratore, l’ex del Perugia Sergio Fortunato, è sembrato meno ottimista.
«Abbiamo detto cose diverse perché non avevo letto le sue dichiarazioni. Lui non è solo il mio procuratore, è un amico. Mi ha fatto arrivare in Italia, anche se altri si prendono il merito. Tutto quello che lui dice è per il mio bene».
Fortunato ha detto: “Camoranesi può lasciare la Juve a causa di un ingaggio inferiore a quello di molti compagni”.
«Io sto fuori dalla vicenda, devono essere Verona e Juve a decidere tra di loro, ma so che qui faranno di tutto per riscattare il 50% mancante. Io nel 2003-04 sarò ancora qui».

A Torino, sotto la guida tecnica di Marcello Lippi, si guadagna subito un posto da titolare. Nonostante a Verona fosse schierato come punta esterna, il tecnico viareggino lo piazza sulla fascia destra, valorizzando le grandi doti tecniche e il suo dribbling secco. Disputa, tra campionato e coppe, 45 partite, mettendo a segno 4 reti e vincendo il suo primo scudetto.
Purtroppo, la grande delusione arriva dalla finale di Coppa dei Campioni di Manchester. Pavel Nedved, autentico trascinatore della Juventus, è squalificato e Lippi decide di schierare Mauro al suo posto, come trequartista. La prestazione dell’argentino è deludente e la Coppa dalle grandi orecchie viene vinta dal Milan.
Al termine della stagione diventa totalmente di proprietà bianconera. Affermatosi come uno dei migliori centrocampisti di fascia del campionato italiano, è, tuttavia, ignorato dallo staff tecnico della Nazionale argentina. Così, grazie alla legge che attribuisce la cittadinanza italiana a chi abbia almeno un ascendente italiano, diventa a tutti gli effetti cittadino italiano e si mette a disposizione del C.T. Trapattoni che, nel 2003, lo convoca in Nazionale, quasi quarant’anni dopo il brasiliano Angelo Benedicto Sormani, l’ultimo oriundo a vestire la maglia azzurra.
Dopo il suo inserimento nel gruppo è convocato per l’Europeo 2004 in Portogallo: «La Nazionale argentina non è mai stata una priorità per me. Sono state dette bugie, ma la verità è che Trapattoni mi ha chiamato prima di Bielsa, tutto qui. Non ho mai fatto follie per giocare con l’Argentina, però sono sicuro che avrei potuto giocare tranquillamente in quella squadra. Del resto, c’erano tanti con i piedi quadrati. O no?».
Nonostante il suo carattere non certo pacato e i numerosi addii ventilati nelle stagioni a seguire, rimane un punto fermo della squadra torinese e il 14 ottobre 2005 prolunga il suo contratto fino al 2009. Con la Juventus conquista altri due scudetti nel 2004-05 e nel 2005-06, giocando ottimi campionati.
In azzurro continua a garantire un ottimo rendimento che gli vale la fiducia da Marcello Lippi, diventato Commissario Tecnico nel 2004. Fa parte della squadra che vince il Mondiale 2006 in Germania, giocando stabilmente titolare sulla fascia destra. Nonostante la grandissima soddisfazione del titolo iridato, Camoranesi non evita di lanciare alcune frecciate: «È da tre anni che mi rompono con la storia dell’inno italiano, fanno la solita domanda per provocarmi. Dio mio, i giornalisti italiani. Inizialmente rispondevo che da dieci anni non canto l’inno argentino, figuriamoci quello italiano. Ma loro mi stuzzicano per farmi dire cose che non voglio. Adesso va meglio, anche se le critiche ci sono sempre, perché altrimenti non avrebbero niente da scrivere. Ma il primo anno volevano ferirmi, su questo non ho dubbi».
Ma la gioia per aver vinto la Coppa del Mondo è enorme: «Materialmente, ho le due magliette della finale incorniciate e dedicate a Leandro e Augustin, i miei figli. L’immagine che ricordo di più è invece l’ingresso in campo, con la Coppa sul tavolo e al mio fianco, tra gli avversari, tre amici come Trézéguet, Thuram e Vieira. E a fine partita, nella gioia della vittoria, sono andato a consolare sul campo i miei compagni sconfitti. C’è una grande distanza tra la felicità e lo sconforto, tra il vincitore e il vinto. Ho voluto testimoniare la mia presenza perché sapevo, per esserci passato, che quelli sono momenti bruttissimi. La notte prima della partita con la Francia è stata agitatissima. Non dormiva nessuno, tutti in piedi fino alle tre a camminare per i corridoi dell’hotel. A un certo punto entro nella stanza di Ferrara che mi dice: “Sono al telefono con Diego” ed io gli rispondo: “Salutamelo, digli che voglio parlargli” e me ne vado, pensando a uno dei soliti scherzi di Ciro. Dieci minuti dopo lo vedo con il telefonino in mano e me lo passa. “Stai tranquillo che domani diventi Campione del Mondo, dormi sereno”. Era Maradona, non ci potevo credere. Io Diego non lo conoscevo, non gli avevo neanche mai parlato. È stata una delle emozioni più grandi che abbia provato».
Nella stagione 2006-07, nonostante la retrocessione in Serie B, rimane nella squadra bianconera, nonostante le tante voci di mercato e le sue richieste di cessione, alternando grandi prestazioni, condite da 4 segnature, a prove deludenti. «Non volevo restare, ma non mi hanno lasciato andare. Ero d’accordo con il Lione, ma sono stato obbligato a restare. Ho trent’anni e sto giocando in B, diciamo che non è proprio quello che sognavo a questo punto della carriera. C’è una cosa buona, almeno. Abbiamo tutte le domeniche libere...».
Dopo numerose vicissitudini durante le quali sembra imminente il suo addio alla squadra bianconera, il 10 luglio 2007, prolunga il suo contratto fino al 2010. Nella nuova stagione in Serie A, riesce a piazzare grandi prestazioni, in particolare al Sant’Elia contro il Cagliari, davanti al pubblico juventino dell’Olimpico di Torino contro il Milan e contro l’Inter in cui sigla il gol del pareggio.
Spesso, però, è costretto a giocare solo poche partite, condizionato enormemente dagli infortuni. Rientra in campo dopo un lungo stop causato dalla lesione del retto femorale alla fine di gennaio 2008 in Coppa Italia contro l’Inter, partita in cui viene anche espulso pochi minuti dopo l’ingresso in campo. Il 22 marzo si prende una bella rivincita, siglando uno dei due gol con cui la Juventus vince al Meazza contro i nerazzurri. Termina la sua sesta stagione in bianconero con 22 presenze e 5 reti.
All’inizio della stagione 2008-09 prolunga di un anno il suo contratto ed è ancora vittima di diversi infortuni: dopo la sconfitta con il Palermo del 5 ottobre, si procura una lesione al bicipite femorale della coscia destra e ritorna pienamente abile solo a novembre inoltrato. Gioca la prima partita da titolare dopo lo stop il 29 novembre nella vittoria 4-0 sulla Reggina, gara in cui si fa male alla spalla dopo soli quattro minuti. Nonostante il dolore, rimane in campo fino al termine del primo tempo e realizza il gol del vantaggio bianconero, sua prima rete stagionale.
A dicembre, ha la grandissima soddisfazione di vincere il “Guerin d’Oro”, che lo consacra come miglior giocatore del campionato, in base alle medie voto dello stesso Guerino e dei tre quotidiani sportivi: «Sono orgoglioso di questo premio, perché il Guerin Sportivo è una rivista importante in Italia e mi riporta a quand’ero ragazzo e appena potevo andavo in edicola a comperare El Grafico, il Guerino argentino. È sempre bello vincere un premio, se poi nell’albo d’oro ci sono i nomi di Maradona e Platini, beh il valore aumenta».
È considerato un punto fermo nella Nazionale anche sotto la gestione di Roberto Donadoni, che lo convoca per l’Europeo 2008. Con Lippi, tornato alla guida degli azzurri dopo l’esonero dell’ex giocatore milanista, prende parte alla Confederati on Cup 2009 in Sudafrica, dove l’Italia è eliminata nel primo turno. Il 10 ottobre 2009 segna uno dei due gol decisivi nel match con l’Irlanda che regalano la qualificazione diretta ai Mondiali 2010 in Sudafrica. 
Nella stagione successiva, con l’arrivo di Ferrara al posto di Ranieri, è impiegato spesso come esterno nel rombo di centrocampo, in modo da favorire l’inserimento del trequartista brasiliano Diego, e le sue prestazioni tornano quasi a quelle degli anni migliori, aiutato anche da un’ottima resistenza fisica. Realizza il suo primo gol stagionale il 28 ottobre 2009 contro la Sampdoria su assist di Giovinco. In Coppa Campioni, nel quarto turno della fase a gironi, realizza contro il Maccabi Haifa il gol della vittoria juventina dopo una bella azione corale costruita da Diego e Cáceres. Pochi giorni dopo realizza a Bergamo contro l’Atalanta la sua seconda doppietta in Serie A.
Il primo giugno 2010 è selezionato per il Mondiale in Sudafrica, dove scende in campo nel corso delle prime due partite degli azzurri. Nella storia della Nazionale italiana è l’oriundo con più presenze, a quota 55. È il settimo oriundo e unico nel dopoguerra ad aver vinto un Campionato del Mondo con la maglia azzurra (per gli altri bisogna risalire ai Campionati del Mondo 1934 e 1938), quando lo avevano vinto Anfilogino Guarisi, Attilio Demaria, Enrique Guaita, Luis Monti, Raimundo Orsi e Michele Andreolo. 
Il 31 agosto 2010, non rientrando nei piani del neo allenatore juventino Del Neri, è ceduto a titolo definitivo allo Stoccarda, in Germania. «Sono felice di essere qui. Lo staff tecnico e i giocatori mi hanno subito accolto alla grande. Sono sicuro che starò molto bene qui. Ci sono alcuni giocatori che ho conosciuto ai Mondiali del 2010 e poi c’è Cristian Molinaro, che è stato mio compagno alla Juventus. Lo Stoccarda è una grande squadra e il fatto che io sia arrivato come rinforzo è una grande cosa. Fisicamente mi sento molto bene, mi alleno dal 18 luglio e sono a disposizione del mister. Questo per me era il momento giusto per lasciare la Juve. Sono contento di aver colto quest’opportunità. La Bundesliga è cresciuta moltissimo negli ultimi anni e sempre più grandi calciatori scelgono di venire a giocare qui. Avevo altre offerte, ma lo Stoccarda aveva la precedenza».
I suoi numeri: 286 presenze e 31 reti, 3 scudetti e 2 Supercoppe Italiane. Cifre che lo pongono, senza ombra di dubbio, nell’elenco delle migliori ali destre della storia bianconera.

LUCIANO MOGGI
Grande talento, Mauro German Camoranesi. Ma in principio mi fece imbestialire: arrivò in ritardo al raduno estivo, una cosa intollerabile alla Juventus. Un episodio che sicuramente ricorda anche lui, visto che gli venne data una multa record di ben 100.000 euro: probabilmente la più salata di tutta la mia carriera da dirigente.
Era il luglio 2003, e Camoranesi conosceva già bene le regole bianconere, essendo arrivato l’estate prima. A differenza di altri assenti giustificati come Thuram e Appiah, si presentò con oltre cinque ore di ritardo all’appuntamento con la nuova stagione. Un comportamento inaccettabile per un calciatore reduce da una vacanza di ben 48 giorni. Se n’era bellamente infischiato dello Stile Juve.
Alla conferenza stampa organizzata nel ritiro di Chatillon, in Val d’Aosta, fui io a divulgare ai media la notizia dell’assenza di Mauro, per evitare mirabolanti e non veritiere ricostruzioni giornalistiche. Dissi semplicemente la verità: «Qualcuno ha forse notato che manca un giocatore, Camoranesi. Ha pensato bene di stare in vacanza un po’ di più. Ma tanto poi torna...».
Andai oltre: dichiarai che questa negligenza poteva addirittura comportarne la cessione. Lippi si accodò al sottoscritto e fu durissimo davanti ai taccuini. «Camoranesi deve stare alle regole. La Juve può fare senza di lui. Se la società deciderà di venderlo, lo sostituiremo con un altro giocatore».
Camoranesi giunse con cinque ore di ritardo sull’orario prefissato. Arrivò in taxi, scaricò il suo trolley e si presentò al cancello della scuola alberghiera che ci ospitava. Cancello che rimase chiuso, su mio ordine, per una ventina di minuti. Poi comunicai agli addetti della sicurezza di farlo entrare, ma di non accompagnarlo in auto agli alloggi. Camoranesi doveva andarci a piedi, trascinando il suo bagaglio e passando davanti ai suoi compagni che si stavano allenando. Certo, non erano chilometri, ma fu un gesto simbolico, duro da masticare per gente non abituata nemmeno ad aprire la portiera dell’auto. Il giocatore doveva imparare bene cosa voleva dire far parte della Juventus. Capire che noi eravamo il suo datore di lavoro e lui il dipendente. Strapagato, per di più. Per tutto questo, e non solo, doveva portarci rispetto. Lui come ogni altro calciatore, ovviamente.
Da quel giorno, Camoranesi imparò come ci si comporta alla Juventus. Si fece apprezzare per la professionalità e per la dedizione ai colori sociali, tanto che disputò otto campionati in bianconero.

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