Per qualcuno – scrive Enrica Tarchi, su “Hurrà Juventus” del giugno 2009 – scrive il suo nome ha cominciato a essere più di un titolo di giornale la sera del 9 dicembre. Al Weserstadion di Bremen, il Werder batte l’Inter, facendo vacillare le certezze europee dei nerazzurri e garantendosi la qualificazione in Champions League. Diego Ribas da Cunha non segna, ma gioca come sa. Passano pochi mesi e la curiosità degli juventini cresce con l’aumentare dei titoli dei giornali, sempre più insistenti su un possibile futuro bianconero del ragazzo di Ribeirão Preto.
Il 18 febbraio, il Werder incrocia sulla sua strada europea l’altra milanese. Diego segna, ma la qualificazione al turno successivo arriva otto giorni dopo, a San Siro: un 2 a 2 in cui il giovanotto disegna palloni perfetti per Pizarro, che soffoca le ambizioni del Milan. Una partita, quella di Diego, che convince i tifosi della Juventus. I dirigenti, invece, non avevano già dubbi. Nei quarti di Uefa, infine, l’incrocio con l’Udinese. Tra il 9 e il 16 aprile va in scena il gran finale della personale sfida di Diego contro le italiane: due doppiette che rendono felici i tifosi del Werder tanto quanto i dirigenti della Juventus, ormai vicini a finalizzare l’accordo con il giocatore.
Il contratto, firmato poco più di un mese dopo (il 26 maggio), e arrivato al termine di un negoziato complesso, durante il quale Blanc e Secco hanno dovuto vincere la concorrenza di altri grandi club. D’altronde, Diego è un fenomeno, uno di quei giocatori che fanno impazzire il pubblico con giocate di alta qualità e classe. Una star sul terreno di gioco, a cui fa da contraltare un atteggiamento da ragazzo semplice fuori dal campo. Non il classico “duro”, ma un ragazzo che parla tanto di vittoria, ma anche di “carinho” (affetto), quello di cui ha bisogno nel suo rapporto con il pubblico, che, più lo coccola, più gli dà la carica per continuare a essere quello che è: il giocatore che fa la differenza, l’asso imprevedibile dal quale ti puoi aspettare giocate spettacolari, pennellate per i compagni e gol d’autore.
Campione nel suo paese a soli 17 anni, età in cui già vantava le prime convocazioni nella Nazionale brasiliana, ha vissuto una parentesi vittoriosa, ma con qualche ombra a titolo personale, in Portogallo, prima di essere adottato dalla Bundesliga dove ha raccolto successi, consensi e “carinho”, appunto. E in Italia, alla Juventus, è convinto che sarà ancora meglio, perché, da quello che gli hanno raccontato, la passione per il calcio si avvicina molto a quella che si respira nel suo paese d’origine.
– Da tanto tempo si parla di Diego alla Juventus. «Sono passati più di due anni da quando ho percepito che la Juventus era interessata a me. Infatti, da allora ho cominciato a seguire con più interesse le vicende del club, a documentarmi. Sapere che una delle società storiche del calcio mondiale è interessata a te, ti riempie di orgoglio e ti dà motivazioni ancora maggiori».
– Prima di cominciare a documentarti, cosa sapevi della tua nuova squadra? «Che ha oltre 14 milioni di tifosi in Italia e tanti altri nel mondo, che ha un pubblico molto affezionato e che c’è una grande passione intorno a questa squadra. Il giorno in cui sono arrivato a Torino per le visite mediche e per firmare il contratto, mi ha fatto effetto incontrare la gente per strada e sentirmi dire: “Bravo” oppure “Siamo contenti che tu venga alla Juventus”. Mi ha fatto piacere scoprire da subito l’affetto dei tifosi».
– Conoscevi già qualcuno alla Juventus? «L’unico giocatore che ho conosciuto della Juventus è il mio connazionale Amauri, ma solo via telefono. Ci hanno messi in contatto amici comuni e grazie a lui ho cominciato a entrare nel clima bianconero. Mi ha raccontato tante belle cose. Ora sono impaziente di incontrarlo anche di persona. Per il resto è un mondo tutto nuovo».
– Con i tuoi connazionali di altre squadre hai mai parlato del calcio italiano? «Sì, ne ho parlato con i miei amici Kakà, Pato, Julio Cesar, Maicon e Julio Batista. Mi hanno parlato molto bene del calcio italiano e del clima che si respira qui da voi».
– Cosa ti hanno detto in particolare i tuoi connazionali? «Che ci si trova bene perché gli italiani vivono il calcio in modo molto passionale, quasi come in Brasile. Ti senti importante e questo ti dà una motivazione in più. In Germania c’è invece molto rispetto, nel senso che il calcio piace, ma i tifosi sono più riservati».
– Che differenza hai riscontrato tra i campionati in cui hai giocato (brasiliano, portoghese e tedesco)? Quale ti si adattava di più? «Sono brasiliano e porto con me le caratteristiche tipiche del calcio del mio paese, cioè un calcio libero, allegro e creativo. Il Portogallo ha qualcosa del calcio brasiliano, forse anche per la vicinanza culturale dei due paesi, ma è più condizionato dalla tecnica europea. In Germania è un gioco più serio, tecnico e di forza. Ho imparato ad adattarmi a tutti i campionati in cui ho giocato, quindi sono sicuro che mi troverò a mio agio anche in Italia, dove le squadre giocano molto chiuse e c’è bisogno di creatività per arrivare al gol».
– Cosa ne pensi del campionato italiano? «Lo ammiro molto, è uno dei più importanti del mondo e lo seguo fin da quando vivevo in Brasile. Giocarci è la realizzazione di un sogno, lo stesso che hanno tanti ragazzini del mio paese che oggi seguono la mia carriera. Sono felice, motivato e non vedo l’ora di andare in campo con la maglia della Juventus».
– Torniamo alla Germania, dove nel 2007 sei stato nominato miglior giocatore dell’anno. «È stata una bella soddisfazione, come lo è stato vedere un mio gol premiato come il migliore della stagione. Tra l’altro quello è anche il mio gol preferito in assoluto, al momento, ovviamente! Si tratta di una rete segnata da 60 metri, non è proprio una cosa da tutti i giorni… Fu contro l’Alemannia Aachen».
– C’è qualche altro ricordo piacevole che ti lega al Werder Brema? «Moltissimi. Se rimaniamo in tema di gol, quello fatto al Bayern Monaco, nel primo confronto a cui ho partecipato. In questo caso lo ricordo soprattutto per l’importanza della partita. Poi i successi ottenuti e il modo in cui mi hanno fatto diventare un idolo, anche per i bambini».
– Avevi un soprannome? «Quello che ricordo più volentieri è il primo, proprio appena arrivato: “werderdona”, un mix tra Werder e Maradona! Poi mi piace ricordarne anche di più semplici, come SuperDiego e DiegoShow. Come vedete, non dimentico nulla, perché in Germania ho vissuto tre anni bellissimi, fondamentali anche per la mia carriera».
– Che effetto ti ha fatto sentirti paragonato a Maradona? «È sempre piacevole essere paragonato a un giocatore che ha fatto cose straordinarie, anche se come paragone mi è sembrato un po’ inusuale, vista la rivalità non solo sportiva che esiste tra il mio paese e l’Argentina».
– Dal clima del tuo paese alla Germania, passando per il Portogallo. Ti eri ambientato con facilità? «Sì, anche se l’inverno effettivamente è molto rigido e ammetto che per un brasiliano non è facile. Io pensavo solo a giocare e mi sono trovato subito bene perché vivevo in un ottimo ambiente, dove sono sempre stato trattato bene e messo a mio agio. Sentivo l’affetto delle persone con cui lavoravo e con cui avevo a che fare».
– La famiglia era al tuo fianco? «Vivevo da solo, ma ho una famiglia molto numerosa, composta da mamma, papà, due sorelle e un nipotino. Diciamo che ogni quindici giorni c’era sempre qualcuno con me, compresa la mia fidanzata».
– Oltre a te, c’è qualche altro calciatore in famiglia? «No, mio papà, che mi cura gli interessi, non ha mai giocato. Il mio nipotino è ancora piccolo, ma non si sa mai…».
– I tuoi amano venire allo stadio? «Certo, vengono a vedere le partite, indossando anche la maglia con il mio nome».
– A parte la consacrazione avvenuta in Germania, quando hai iniziato a diventare un idolo dei tifosi? «Nel Santos, perché ho iniziato a giocare in prima squadra a 16 anni e a 17 ho vinto il mio primo titolo e conquistato la maglia della Nazionale».
– Preferisci essere apprezzato per i tuoi gol per la capacità di creare gioco? «Per tutte e due! (sorride) Sono un centrocampista con caratteristiche offensive, mi piace orchestrare il gioco, attaccare e cercare la via del gol. Penso che una caratteristica dei giocatori brasiliani sia proprio giocare in modo creativo. Se a questa sommi una buona preparazione fisica e tattica, far gol e vincere hai raggiunto l’obiettivo».
– Parliamo della tua esperienza al Porto. «Il primo anno è andato tutto bene, abbiamo anche vinto la Coppa Intercontinentale. Poi ho avuto alcuni problemi con l’allenatore, per tre mesi ho giocato poco, e sono partito: destinazione Werder».
– E lì c’è stata la tua rinascita. «Non la chiamerei così, piuttosto una buona opportunità per tornare a dimostrare le mie qualità, nelle quali io stesso credevo e che anche il pubblico conosceva. Purtroppo, come capita a tanti giocatori, si può non essere apprezzati da qualcuno e in questi casi è meglio cambiare».
– A proposito di buone opportunità, eccone una: la Juventus. «E che opportunità! Sono qui per vincere, sicuro che questa squadra, formata da giocatori di qualità, ha tutte le carte in regola per farlo. Noi punteremo a vincere, a “ganhar”, in tutte le competizioni».
Veste la maglia con il numero 28 e debutta ufficialmente con i bianconeri il 23 agosto 2009, alla prima giornata di campionato, contro il Chievo, fornendo l’assist per la rete decisiva di Iaquinta. Segna i suoi primi gol in maglia bianconera in Roma-Juve del 30 agosto. Si ripete contro l’Atalanta, il Bologna e la Fiorentina. È inserito nella lista dei candidati per il Pallone d’Oro, e anche in quella per il Fifa World Player insieme a Buffon. Debutta in Coppa Italia il 13 gennaio 2010, in occasione degli ottavi di finale, in Juventus-Napoli, vinta 3-0 dai bianconeri, in cui segna il gol di apertura. Realizza anche la rete del momentaneo vantaggio sull’Inter, nei quarti di finale di Coppa Italia. In totale, 47 presenze e 7 realizzazioni.
Infatti, nonostante questi numeri, la stagione di Diego è ampiamente negativa. È sicuramente un giocatore dalle grandi qualità tecniche, ma poco adattabile al calcio italiano. Infatti, le sue giocate sono spesso in orizzontali e sono rare le verticalizzazioni per i compagni smarcati in profondità. In più, dimostra di essere tutt’altro che un leader, difettando di personalità. Non sono rare le occasioni nelle quali, vicino alla porta avversaria, preferisce passare la palla a un compagno, anziché tirare in rete.
Certo, la stagione disastrosa della Juventus non lo aiuta, ma nonostante sia spesso messo in condizione di giocare secondo il suo istinto, non è mai in grado di prendere per mano la squadra e condurla alla vittoria. Anzi, il suo rigore fallito contro il Bari, è un segnale quasi di resa. Possiamo dire che il vero Diego lo si è visto nelle prime tre partite di campionato: troppo poco per un giocatore considerato uno dei più forti del mondo (e pagato quasi 25 milioni di euro) che avrebbe dovuto assicurare il salto di qualità alla Juventus.
«Non mi aspettavo di vivere momenti duri come quelli per cui siamo passati. Non me lo aspettavo io, non se lo aspettavano i compagni, non se lo aspettavano i tifosi. La qualità dei giocatori è altissima. Un po’ di difficoltà all’inizio sono inevitabili, ma a quanto pare il problema più grosso non erano i singoli. Era l’insieme. Difficile dire con precisione cosa non abbia funzionato. Probabilmente non abbiamo lavorato abbastanza come squadra. Non si può dire che non ci abbiamo provato, però non ci abbiamo provato insieme. La cosa strana è che fuori dal campo siamo un gruppo ben affiatato».
Così, con l’arrivo di Delneri (che con il suo 4-4-2 non prevede l’utilizzo del trequartista), il 27 agosto 2010, la Juventus comunica di aver perfezionato l’accordo con il Wolfsburg per la sua cessione a titolo definitivo.
«Se ho fallito alla Juve? Ho pagato io per tutti – dirà tempo dopo – in Europa puoi avere alti e bassi, anche a seconda di dove giochi. Alla Juventus, avevo più responsabilità degli altri, difatti era la Juve di Diego, anche per via del contratto, di quanto ero costato. Ho giocato tanto, come titolare e non era affatto male. Ma mancavano i risultati e allora si guardava all’investimento fatto con me. Non siamo stati in grado di vincere, di ambire alla Champions. Il tifoso italiano è “fanatico” e molto esigente Lo prendo come un periodo che mi è servito per crescere».
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