Nasce a Ruda, in provincia di Udine, il 25 aprile 1939. Il pallone come svago e sogno. Che si realizza in una carriera lunghissima dal 1958 con l’Udinese, al 1977 con il Napoli. Quasi 500 partite in Serie A, una buona fetta come terzino destro, il resto come libero.
Dopo due stagioni in Friuli, approda alla Juventus, su imbeccata (pare) di Boniperti. «Questo non lo so. Posso dire che per me fu un sogno indossare la maglia bianconera – racconta a Nicola Calzaretta sul “Guerin Sportivo” – era la Juve di Boniperti, Sivori e Charles. Stava dominando in Italia da alcuni anni tra scudetti e Coppa Italia. Avevo ventuno anni, mi ero appena affacciato alla Serie A con l’Udinese, non potevo chiedere di più. Gioco tredici partite poi venni mandato a Palermo. Ci rimasi malissimo, la sentii come una bocciatura. All’inizio rifiutai il trasferimento e fui anche deferito. Successivamente qualcuno mi spiegò che a Torino sarebbe rientrato dal prestito al Vicenza, il terzino Bruno Garzena, uno della vecchia guardia, al quale avrei dovuto lasciare il posto. Alla fine accettai Palermo. Rientrai nell’operazione che portò Anzolin alla Juve».
La svolta della sua carriera avviene nell’estate del 1962, quando passa all’Inter; con la maglia neroazzurra, vince quattro scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e rendendosi protagonista di tutte le imprese della Grande Inter degli anni Sessanta.
Difensore solido e preciso, soprannominato la Roccia, in campionato realizza solo sei goal. In Nazionale vanta sessantasei presenze e due goal, di cui uno storico, nel Mondiale del 1970 in Messico; Tarcisio, infatti, realizza la rete del momentaneo 2-2 nella semifinale Italia-Germania Ovest. In finale, sarà poi sovrastato nello stacco da Pelé, che realizzerà il goal del vantaggio verdeoro, nella partita che il Brasile vincerà per 4-1.
Chiude la carriera indossando la maglia del Napoli, offrendo ai tifosi partenopei tre stagioni nelle quali è sempre apprezzato sia per le sue doti di difensore che per le sue doti di umiltà e sobrietà. Appesi gli scarpini al chiodo intraprende l’attività di allenatore, con alterne fortune.
ANGELO CAROLI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 2000
Lo vedo nelle vesti di un santo. Come quel giovane seminarista, il quale, piuttosto che lasciarsi strappare l’ostia difesa dietro mani giunte, affrontò il martirio pregando: «La morte, ma non il peccato». Si chiamava Tarcisio, e lo santificarono. L’eroe del pallone che ho scelto questa volta è Burgnich e ha lo stesso nome, Tarcisio. L’analogia può apparire dissacrante, ma non lo è. L’analogia non è reato religioso. E il terzino che conobbi nella Juventus 1960-61 era un uomo mite, accomodante e educato, discreto e timido. Si scontrava con l’avversario e non cedeva un centimetro. Proveniva dall’Udinese, aveva ventuno anni, era costruito con il granito, una corazza di muscoli e volontà, e un francobollo.
Disputò tredici partite in quell’annata tricolore, non erano poche per un provinciale, ma non bastarono per convincere la dirigenza. A un dirigente, scomparso molti anni fa, non piaceva, lo trovava poco stiloso per una società stilosa come la Juve. E, addirittura, non gli profetizzò una carriera brillante perché «era un po’ strabico». E il friulano fu invitato a cercare gloria nel Palermo.
Era il Palermo dell’irascibile Totò Vilardo. Tarcisio trovò gloria scavando nel sudore, insieme a Mattrel (anche lui in prestito al Palermo) si prese la rivincita segnando uno dei quattro goal che i rosanero rifilarono alla Juve al Comunale. La doppietta di Charles non consolò i tifosi bianconeri. Burgnich disputò una stagione eccellente, tanto che Moratti senior, l’anno successivo, ne fece uno dei pilastri su cui riedificare il palazzo. Tarcisio era immunizzato al peccato. La sua vita si snodava tra casa e stadio, stadio e casa. Chi, come il sottoscritto, ha affrontato il calcio più come passatempo che come mestiere, lo indusse spesso in tentazione. Gli presentò una baby-sitter londinese e lo convinse a cedere alle sue grazie sensuali. Da quel giorno e per qualche tempo, l’inglesina con il naso all’insù e un mare di efelidi disegnate sulle gote, lo prese in affidamento come i tanti cuccioli che le venivano consegnati quasi ogni sera. Tarcisio era talmente disponibile che quando il sottoscritto, insieme a colleghi di cui non rivelo il nome per rispetto della privacy, aveva bisogno di una garçonnière per accogliere bellezze subalpine, lasciava l’appartamentino per godersi un film al Reposi.
Tramontata la baby-sitter, si innamorò perdutamente di una ragazza toscana che sposò e alla quale è tuttora fedele. Fedele com’è stato alla maglia interista. Gli alberi di alto fusto e di lunga vita sono fatti della sua scorza. E, è bene ricordarlo, di scorza friulana. Questi aneddoti hanno una morale che mi auguro serva a qualche giovane. Se si vuole estrarre oro dal calcio come da una miniera è bene rispettare le regole. Del gioco e della vita. Chi non lo fa, paga.
C’è un’altra curiosità da raccontare su di lui. Dovevamo giocare a Marassi, contro la Samp. Al mattino attraversai il corridoio che conduceva agli ascensori. E captai una frase di Renato Morino, grande giornalista dalla penna caustica e ironica: «Chissà quanti goal beccherà la Juve oggi con Burgnich e Caroli terzini!» Presi e portai a casa. Ma prima di pranzo incrociai Renato, lo guardai probabilmente in modo strano, e lui mi chiese se c’erano problemi. Gli spiegai e lui sbiancò, imbarazzato.
Al pomeriggio battemmo la Samp con due goal di Nicolè. Tarcisio ed io fummo i migliori in campo, io salvai un goal con una spaccata da ballerina. Il giorno dopo Morino scrisse: «Caroli e Burgnich hanno fatto ingoiare a un giornalista un’incauta dichiarazione della vigilia». Quando la classe non è acqua.
Nessun commento:
Posta un commento