Nasce ad Accra, in Ghana, il 24 dicembre 1980; sbarca, a soli diciassette anni, in Italia e nell’Udinese, Parma e Brescia da prova di grandi qualità atletica e di ottima visione di gioco. Un centrocampista tosto, con piedi buoni e capacità di contrastare come di inventare. Approda alla Juventus “lippiana” nel 2003, mettendosi in mostra, sin dalle prime amichevoli estive. Purtroppo per lui, la squadra fatica a riproporsi sui livelli delle due stagioni precedenti e anche Stephen, pur giocando parecchio, alterna momenti buoni ad altri incerti. Il bilancio stagionale è comunque di trenta partite e un goal, alla Sampdoria, nel congedo casalingo.È l’estate 2004 il momento migliore della stagione di Appiah; capitano della Nazionale ghanese impegnata alle Olimpiadi di Atene, Stephen gioca un torneo su livelli altissimi, rivelandosi come uno dei massimi talenti dell’Olimpiade e si guadagna, così, la conferma in bianconero alle dipendenze di Capello.
La concorrenza del nuovo acquisto Emerson non lo aiuta, però, a trovare con continuità un posto da titolare, sicché il suo momento di gloria arriva nel finale di stagione; gioca, infatti, una grande partita nel 5-2 casalingo sul Lecce condito da un pregevole goal in contropiede e realizza un’altra splendida rete, nel commiato casalingo contro il Cagliari.
«Nei due anni di Juve sono stato benissimo, grande società, compagni fantastici, tutto bello. Ricordo che dopo il mio primo allenamento in bianconero andai a cena con Gigi Buffon, che già conoscevo dai tempi di Parma, e per prendermi in giro urlò: “Abbiamo il nuovo magazziniere tu che fai qua? Presentati!” ed io per tutta risposta replicai: “Amico invece di parlare a vanvera vai a farmi un’insalata senza pomodoro e cipolla, ma metti il tonno!”. Tutta la squadra scoppiò a ridere, anche mister Lippi e il direttore Moggi, ci divertivamo non poco».
Un degno congedo dai tifosi, prima di trasferirsi in Turchia, al Fenerbahçe; avrebbe dovuto essere il suo rilancio, invece va incontro a una serie incredibile di eventi negativi.
FABIO ELLENA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 2003
Una telefonata allunga la vita, recitava un tormentone mediatico di qualche anno fa. Se a Stephen Appiah la vita si è allungata veramente non è ancora lecito saperlo, di sicuro è stata stravolta. Lo squillo di un cellulare e una voce amica dall’altro capo: «Pronto, Stephen? Sono Lilian Thuram. Lo sai che l’anno prossimo giochiamo insieme nella Juve?».
Un episodio bello e divertente, che il giovane talento ghanese condisce con tutta la sua immensa simpatia: «Stavo facendo le valigie per andare a giocare la Coppa d’Africa, in Ruanda, con la mia Nazionale. Arriva questa telefonata di Lilian, mio amico fin dai tempi del Parma, che mi dà questa notizia e mi dice che Luciano Moggi mi vuole parlare. Credevo fosse uno scherzo, ho chiamato il Direttore e quando lui mi ha convocato per le visite mediche ho capito che era tutto vero. Ora sono qui e sono molto contento e orgoglioso di essere un giocatore della Juventus».
È iniziata così l’avventura bianconera di Appiah, ultimo capitolo in ordine di tempo di una storia da tutta raccontare. Iniziata nel suo Ghana, ovviamente. Primo di quattro figli (ha un fratello, Albert, e due sorelle, Augustina e Vivian, la più giovane con i suoi quindici anni), inizia la sua brillante carriera negli Allievi di una formazione chiamata Mighty Victory. Il talento è limpido e non sfugge ai talent scout locali. A sedici anni arriva già il momento dell’esordio nella massima serie ghanese, nell’Hearts of Oak, oltre all’approdo nelle nazionali giovanili, vero e proprio trampolino di lancio per l’Europa.
Prima tappa, Turchia, Galatasaray. Sì, avete letto bene, proprio quel Galatasaray ora euro rivale della Juventus in Champions League. «Nel 1997, il mio procuratore ha portato me e altri ragazzi ghanesi a Istanbul. Sono stato un mese in prova, ma alla fine i dirigenti turchi hanno deciso di non ingaggiarmi perché ero troppo magro. Così, invece di restare in Turchia sono finito in Italia. Quando ero a Parma, prima della partita con la Fiorentina, ho avuto modo di incontrare Fatih Terim, che mi ha ancora riconosciuto. L’incontro in Champions League? Non posso che essere contento della vittoria nella partita di Torino, ora però voglio fare bene quando andremo a giocare in casa loro, per dimostrare che a suo tempo hanno sbagliato le loro scelte».
Invece di Istanbul e il Galatasaray, la nuova patria di Stephen diventano il Friuli, Udine e l’Udinese. Subito una maglia bianconera, segno di un destino che poi saprà ripetersi. Qualche problema culinario e un maestro di calcio e di vita come Alberto Zaccheroni. «Quando sono arrivato in Italia, non conoscevo il cibo, così mangiavo solo biscotti e gelati. Poi ho imparato ad apprezzare la cucina italiana e devo dire che meglio di così non potevo trovarmi. A parte questo, Udine per me è stata una tappa fondamentale. Sono stato accolto benissimo dai compagni e dai tifosi. Le cose sono andate bene, soprattutto grazie a Zaccheroni. Ricordo l’esordio a Milano contro il Milan e, la settimana successiva, quello da titolare nella vittoria per 4-2 sulla Roma. Il mister mi ha detto: “Stephen, se sbagli due o tre passaggi non fa niente, ma se ne sbagli quattro vieni subito in panchina”. Mi ha fatto ridere con quella battuta, ma lì ho capito che aveva fiducia in me».
Se la classe del giovanotto non era sfuggita in Ghana, figurarsi in Italia. Le grandi squadre cominciano a mettergli gli occhi addosso e presto arriva la chiamata del Parma, desideroso di continuare a tenere il passo della nobiltà del calcio italiano. Un’avventura che parte in ritardo a causa di un problema di salute che lo costringe ai box per parecchio tempo. «Nel 1999 sono stato costretto ad andare a Chicago per curarmi. Fortunatamente tutto è andato per il verso giusto e nel 2000 sono arrivato in Emilia. Anche qui mi sono trovato benissimo, ho conosciuto tanti bravi ragazzi, tra i quali Buffon, Thuram e Di Vaio che ho poi ritrovato qui alla Juve. Purtroppo non ho avuto la possibilità di giocare molto, c’erano tanti giocatori nel mio ruolo e gli allenatori che ho avuto non hanno creduto fino in fondo nelle mie capacità».
Estate 2002, nuova svolta. Il Parma presta il ragazzo al Brescia per regalargli un anno di continuità in campo. Ed è un successo. La simpatia e la disponibilità lo fanno entrare da subito nel cuore dei tifosi lombardi. La sua tecnica lo fa invece entrare da subito nei meccanismi di gioco di Carlo Mazzone. Risultato: trentuno presenze e sette reti, un bottino notevole per un centrocampista. Assolutamente incredibile per un ragazzo che in cinque anni non aveva mai assaporato la gioia del goal. «Un anno fantastico, in tutto. Ho trovato un gruppo molto unito che mi ha accolto a braccia aperte. Mazzone mi ha fatto giocare con continuità e così ho potuto disputare un gran campionato. L’Appiah goleador? Prima dell’esordio contro il Piacenza, il mister mi ha detto: “Hai un bel tiro, perché non ci provi?”. Grazie a Baggio e Toni che giocavano di sponda, ho così avuto molte possibilità di segnare».
Un feeling, quello con il goal, che si unisce a un altro. Il destino sembra rimetterci lo zampino: due partite del Brescia al Delle Alpi, due goal di Appiah. «Contro il Torino abbiamo fatto tutti una grande partita e abbiamo vinto con merito. Con la Juve non è andata così bene. Evidentemente avevo già capito che questo stadio mi portava bene. Spero di farne tanti altri di goal qui al Delle Alpi».
Una rete contro i suoi futuri compagni, contro il suo futuro tecnico, quel Marcello Lippi che già da tempo aveva inserito il suo nome in cima alla lista degli acquisti per la stagione successiva. Una rete che comunque non ha fermato la corsa dei bianconeri che, poche settimane dopo, hanno potuto fregiarsi del ventisettesimo scudetto. Ma come vedeva Appiah la Juve da avversaria? «La Juve è la Juve, il massimo. Si vedevano da subito le differenze con le altre squadre. Non poteva sfuggire il fatto che tutti giocavano insieme, uno spogliatoio fantastico. Devo confessare che mentre arrivavo qui, pensavo sarebbe stato difficile inserirsi perché ci sono grandi campioni. Invece tutti si sono dimostrati subito simpatici e aperti con me. Non ho potuto fare altro che constatare quanto fosse eccezionale questo gruppo».
Un gruppo, una squadra, ma sarebbe meglio dire un intero popolo, quello bianconero, che lo accoglie a braccia aperte. E il talento ghanese ripaga subito tutti. L’etichetta di rivelazione portatasi dietro dopo la stagione a Brescia, è presto sostituita con quella di campione. Grinta, classe e, soprattutto, un’incredibile naturalezza a fare in modo semplice anche le cose più difficili. Un innesto del tutto naturale negli schemi della squadra e negli affetti della gente. Appiah dà subito tutto alla Juve e la Juve regala subito ad Appiah la prima gioia, la vittoria della Supercoppa a New York. «Prima di arrivare qui, potevo vantare solo la vittoria di una Coppa Italia nel Parma. Meno male che è arrivata presto la Supercoppa. Devo abituarmi, perché la Juve sa vincere e mi può insegnare a farlo. Sicuramente questa è la squadra più forte in cui abbia mai giocato e con questa squadra voglio togliermi tante soddisfazioni. Fin dal ritiro estivo ho sentito i tifosi chiederci la Coppa dei Campioni. Ma io non ho ancora vinto niente e non mi accontento. L’ho detto anche a Del Piero: “Alessandro, voi avete vinto tanto, ma io no. Quindi voglio scudetto e Champions League”. Io voglio vincere qualcosa, anzi voglio vincere tutto se è possibile».
Idee chiare, il ragazzo. Vincere per la Juve, per se stesso ed anche per la sua terra. Per quell’Africa sempre più culla di giovani campioni desiderosi di imporsi in Europa e nel mondo. Africa che in Juventus fino ad ora è stata solo legata al nome di Oliseh, rimasto un anno a Torino senza troppa fortuna. Un motivo in più per Appiah per cercare di emergere in bianconero: «Uno che gioca in una grande squadra, come Juventus, Real Madrid o Manchester, deve rappresentare la bandiera dell’Africa. Giocando in Champions League si ha la possibilità di farsi notare anche nel nostro continente ed è bello che la gente africana possa vedere uno di loro impegnato in queste società così blasonate. Speriamo di continuare così».
Allora in bocca al lupo, Stephen. Che anche in Ghana e in Africa siano orgogliosi per le tue vittorie ottenute con la Juventus.
“REPUBBLICA” DELL’11 FEBBRAIO 2009
Un episodio bello e divertente, che il giovane talento ghanese condisce con tutta la sua immensa simpatia: «Stavo facendo le valigie per andare a giocare la Coppa d’Africa, in Ruanda, con la mia Nazionale. Arriva questa telefonata di Lilian, mio amico fin dai tempi del Parma, che mi dà questa notizia e mi dice che Luciano Moggi mi vuole parlare. Credevo fosse uno scherzo, ho chiamato il Direttore e quando lui mi ha convocato per le visite mediche ho capito che era tutto vero. Ora sono qui e sono molto contento e orgoglioso di essere un giocatore della Juventus».
È iniziata così l’avventura bianconera di Appiah, ultimo capitolo in ordine di tempo di una storia da tutta raccontare. Iniziata nel suo Ghana, ovviamente. Primo di quattro figli (ha un fratello, Albert, e due sorelle, Augustina e Vivian, la più giovane con i suoi quindici anni), inizia la sua brillante carriera negli Allievi di una formazione chiamata Mighty Victory. Il talento è limpido e non sfugge ai talent scout locali. A sedici anni arriva già il momento dell’esordio nella massima serie ghanese, nell’Hearts of Oak, oltre all’approdo nelle nazionali giovanili, vero e proprio trampolino di lancio per l’Europa.
Prima tappa, Turchia, Galatasaray. Sì, avete letto bene, proprio quel Galatasaray ora euro rivale della Juventus in Champions League. «Nel 1997, il mio procuratore ha portato me e altri ragazzi ghanesi a Istanbul. Sono stato un mese in prova, ma alla fine i dirigenti turchi hanno deciso di non ingaggiarmi perché ero troppo magro. Così, invece di restare in Turchia sono finito in Italia. Quando ero a Parma, prima della partita con la Fiorentina, ho avuto modo di incontrare Fatih Terim, che mi ha ancora riconosciuto. L’incontro in Champions League? Non posso che essere contento della vittoria nella partita di Torino, ora però voglio fare bene quando andremo a giocare in casa loro, per dimostrare che a suo tempo hanno sbagliato le loro scelte».
Invece di Istanbul e il Galatasaray, la nuova patria di Stephen diventano il Friuli, Udine e l’Udinese. Subito una maglia bianconera, segno di un destino che poi saprà ripetersi. Qualche problema culinario e un maestro di calcio e di vita come Alberto Zaccheroni. «Quando sono arrivato in Italia, non conoscevo il cibo, così mangiavo solo biscotti e gelati. Poi ho imparato ad apprezzare la cucina italiana e devo dire che meglio di così non potevo trovarmi. A parte questo, Udine per me è stata una tappa fondamentale. Sono stato accolto benissimo dai compagni e dai tifosi. Le cose sono andate bene, soprattutto grazie a Zaccheroni. Ricordo l’esordio a Milano contro il Milan e, la settimana successiva, quello da titolare nella vittoria per 4-2 sulla Roma. Il mister mi ha detto: “Stephen, se sbagli due o tre passaggi non fa niente, ma se ne sbagli quattro vieni subito in panchina”. Mi ha fatto ridere con quella battuta, ma lì ho capito che aveva fiducia in me».
Se la classe del giovanotto non era sfuggita in Ghana, figurarsi in Italia. Le grandi squadre cominciano a mettergli gli occhi addosso e presto arriva la chiamata del Parma, desideroso di continuare a tenere il passo della nobiltà del calcio italiano. Un’avventura che parte in ritardo a causa di un problema di salute che lo costringe ai box per parecchio tempo. «Nel 1999 sono stato costretto ad andare a Chicago per curarmi. Fortunatamente tutto è andato per il verso giusto e nel 2000 sono arrivato in Emilia. Anche qui mi sono trovato benissimo, ho conosciuto tanti bravi ragazzi, tra i quali Buffon, Thuram e Di Vaio che ho poi ritrovato qui alla Juve. Purtroppo non ho avuto la possibilità di giocare molto, c’erano tanti giocatori nel mio ruolo e gli allenatori che ho avuto non hanno creduto fino in fondo nelle mie capacità».
Estate 2002, nuova svolta. Il Parma presta il ragazzo al Brescia per regalargli un anno di continuità in campo. Ed è un successo. La simpatia e la disponibilità lo fanno entrare da subito nel cuore dei tifosi lombardi. La sua tecnica lo fa invece entrare da subito nei meccanismi di gioco di Carlo Mazzone. Risultato: trentuno presenze e sette reti, un bottino notevole per un centrocampista. Assolutamente incredibile per un ragazzo che in cinque anni non aveva mai assaporato la gioia del goal. «Un anno fantastico, in tutto. Ho trovato un gruppo molto unito che mi ha accolto a braccia aperte. Mazzone mi ha fatto giocare con continuità e così ho potuto disputare un gran campionato. L’Appiah goleador? Prima dell’esordio contro il Piacenza, il mister mi ha detto: “Hai un bel tiro, perché non ci provi?”. Grazie a Baggio e Toni che giocavano di sponda, ho così avuto molte possibilità di segnare».
Un feeling, quello con il goal, che si unisce a un altro. Il destino sembra rimetterci lo zampino: due partite del Brescia al Delle Alpi, due goal di Appiah. «Contro il Torino abbiamo fatto tutti una grande partita e abbiamo vinto con merito. Con la Juve non è andata così bene. Evidentemente avevo già capito che questo stadio mi portava bene. Spero di farne tanti altri di goal qui al Delle Alpi».
Una rete contro i suoi futuri compagni, contro il suo futuro tecnico, quel Marcello Lippi che già da tempo aveva inserito il suo nome in cima alla lista degli acquisti per la stagione successiva. Una rete che comunque non ha fermato la corsa dei bianconeri che, poche settimane dopo, hanno potuto fregiarsi del ventisettesimo scudetto. Ma come vedeva Appiah la Juve da avversaria? «La Juve è la Juve, il massimo. Si vedevano da subito le differenze con le altre squadre. Non poteva sfuggire il fatto che tutti giocavano insieme, uno spogliatoio fantastico. Devo confessare che mentre arrivavo qui, pensavo sarebbe stato difficile inserirsi perché ci sono grandi campioni. Invece tutti si sono dimostrati subito simpatici e aperti con me. Non ho potuto fare altro che constatare quanto fosse eccezionale questo gruppo».
Un gruppo, una squadra, ma sarebbe meglio dire un intero popolo, quello bianconero, che lo accoglie a braccia aperte. E il talento ghanese ripaga subito tutti. L’etichetta di rivelazione portatasi dietro dopo la stagione a Brescia, è presto sostituita con quella di campione. Grinta, classe e, soprattutto, un’incredibile naturalezza a fare in modo semplice anche le cose più difficili. Un innesto del tutto naturale negli schemi della squadra e negli affetti della gente. Appiah dà subito tutto alla Juve e la Juve regala subito ad Appiah la prima gioia, la vittoria della Supercoppa a New York. «Prima di arrivare qui, potevo vantare solo la vittoria di una Coppa Italia nel Parma. Meno male che è arrivata presto la Supercoppa. Devo abituarmi, perché la Juve sa vincere e mi può insegnare a farlo. Sicuramente questa è la squadra più forte in cui abbia mai giocato e con questa squadra voglio togliermi tante soddisfazioni. Fin dal ritiro estivo ho sentito i tifosi chiederci la Coppa dei Campioni. Ma io non ho ancora vinto niente e non mi accontento. L’ho detto anche a Del Piero: “Alessandro, voi avete vinto tanto, ma io no. Quindi voglio scudetto e Champions League”. Io voglio vincere qualcosa, anzi voglio vincere tutto se è possibile».
Idee chiare, il ragazzo. Vincere per la Juve, per se stesso ed anche per la sua terra. Per quell’Africa sempre più culla di giovani campioni desiderosi di imporsi in Europa e nel mondo. Africa che in Juventus fino ad ora è stata solo legata al nome di Oliseh, rimasto un anno a Torino senza troppa fortuna. Un motivo in più per Appiah per cercare di emergere in bianconero: «Uno che gioca in una grande squadra, come Juventus, Real Madrid o Manchester, deve rappresentare la bandiera dell’Africa. Giocando in Champions League si ha la possibilità di farsi notare anche nel nostro continente ed è bello che la gente africana possa vedere uno di loro impegnato in queste società così blasonate. Speriamo di continuare così».
Allora in bocca al lupo, Stephen. Che anche in Ghana e in Africa siano orgogliosi per le tue vittorie ottenute con la Juventus.
“REPUBBLICA” DELL’11 FEBBRAIO 2009
A ventotto anni (presunti) l’eroe del Ghana, il capitano non giocatore del paese che ha ospitato l’ultima Coppa d’Africa, è costretto a nascondersi per giocare al calcio. Stephen Appiah, talentuoso e potente centrocampista di Udinese, Parma, Brescia e Juventus, tre figli e moglie nel nostro paese, in questi giorni si sta allenando sotto mentite spoglie a Marbella, costa andalusa, con il Rubin Kazan’, club dallo scorso novembre Campione di Russia costretto dall’inverno rigido del Tatarstan ad allenamenti su una spiaggia spagnola.
Il peregrinare omerico del massiccio Appiah sta diventando una fuga segreta e protetta, a causa della valanga di debiti che il ragazzo di Accra ha contratto a ogni contratto firmato. L’ultima disputa legale è stata quella con l’ultimo club che lo ha assoldato, nel 2005, il Fenerbahçe. La squadra di Istanbul, per un’embolia a una gamba mal curata, ha rischiato di mandarlo al creatore. Lo racconta il suo nuovo procuratore Luca Pagani, ex P.R. di discoteche lombarde. Alla fine, Appiah ha chiesto ventuno milioni di risarcimento ai turchi, comprensivi della Coppa d’Africa saltata in patria, e il Fenerbahçe ha replicato con una fattura danni da dodici milioni per mancato rispetto del contratto.
Nella stagione 2008-09 Stephen Appiah ha ascoltato una serie di timide offerte da parte di diverse società italiane: la Juventus, il Brescia, poi il Torino. C’è stato anche un affaccio da parte del Milan. Tutti, però, imbattendosi nel macigno della causa FIFA e in una pletora di richieste danni contro il giocatore incardinate in Italia, hanno salutato Stephen e la sua fama di cattivo pagatore. Non tornerà a giocare in Italia. Appiah, allora, ha deciso di raggiungere Londra per allenarsi con il Tottenham e, bruciato anche questo contatto, ha proseguito la fuga dal pignoramento indossando una nuova anagrafe in Spagna e immaginando un futuro nel campionato russo.
Tutta la storia del ragazzo di Accra è un racconto da clandestino. Giovane stella degli Hearts of Oak, arrivò poco più che bambino in maglietta a maniche corte all’aeroporto di Udine. Era febbraio. Gli misero addosso una tuta del club e lui, nei primi sei mesi, mangiò solo gelati, perché non conosceva i cibi italiani né i loro nomi. I procuratori più accreditati del calcio ghanese raccontano che Stephen, come buona parte dei ragazzi d’Africa ansiosi di mostrarsi a talent scout stranieri, si fece cambiare il passaporto e abbassare di due anni l’età. Giunto in Italia, il talento si mise in luce per goal straordinari e leggendarie feste con ragazze ucraine. Ma, soprattutto, nuovi debiti. Lasciò senza un grazie lo Studio Canovi e il suo primo mentore, quel Domenico Ricci che più di tutti conosce il calcio africano.
Oggi l’ufficio gli ha chiesto 105.000 euro di provvigioni non saldate: la sentenza del tribunale di Roma è vicina. Approdato al nuovo procuratore, Santiago Morrazzo, riuscì ad abbandonare anche lui scordandosi del rinnovo del contratto che l’agente gli garantì con la Juventus (1.800.000 euro) e le bollette pagate alla posta per non fargli staccare la luce. Il Tribunale di Roma ha stabilito che Appiah deve a Morrazzo 580.000 euro ma, poiché il calciatore non è mai raggiungibile, l’unico risultato è stato che l’ex agente FIFA deve versare (per la sentenza a suo favore) 25.000 euro per i bolli all’Agenzia delle Entrate.
Già, Appiah è in fuga continua. La moglie e i tre figli vivono in una villetta con garage (e auto di lusso) sulla collina di Torino, ma lui ha eletto domicilio personale a Nichelino, nell’hinterland, in un casermone popolare abitato da extracomunitari senza permesso di soggiorno. Fuori dal suo appartamento legale non c’è campanello, nell’androne hanno sradicato le cassette della posta e l’ufficiale giudiziario, terrorizzato ogni volta che deve avvicinarsi a quel palazzo per recapitargli una raccomandata, ha stilato un rapporto di irreperibilità strutturale.
A Stephen Appiah ha chiesto i danni anche il vecchio padrone di casa di Torino, quello dei tempi della Juventus. Salutato dalla Triade, Stephen organizzò una festa di addio all’Italia invitando la comunità ghanese e le solite ragazze ucraine: sfasciarono tutto sradicando lavandini, bagni e pure gli infissi. Le bottiglie di champagne (avrebbe scoperto il giorno dopo il padrone di casa) galleggiavano nello champagne. L’avvocato Mattia Grassani, che per tutte queste imprese difese e spesso salvò il calciatore, a sua volta non è stato mai pagato. E così ha chiesto 400.000 euro di arretrati riuscendo a farne sequestrare 40.000.
Il bravo ragazzo con il destro preciso è cresciuto dentro una vita da clandestino e ora potrebbe portare la sua fuga nel freddo Tatarstan. Per non smettere di giocare al calcio e per non pagare i debiti.
Il peregrinare omerico del massiccio Appiah sta diventando una fuga segreta e protetta, a causa della valanga di debiti che il ragazzo di Accra ha contratto a ogni contratto firmato. L’ultima disputa legale è stata quella con l’ultimo club che lo ha assoldato, nel 2005, il Fenerbahçe. La squadra di Istanbul, per un’embolia a una gamba mal curata, ha rischiato di mandarlo al creatore. Lo racconta il suo nuovo procuratore Luca Pagani, ex P.R. di discoteche lombarde. Alla fine, Appiah ha chiesto ventuno milioni di risarcimento ai turchi, comprensivi della Coppa d’Africa saltata in patria, e il Fenerbahçe ha replicato con una fattura danni da dodici milioni per mancato rispetto del contratto.
Nella stagione 2008-09 Stephen Appiah ha ascoltato una serie di timide offerte da parte di diverse società italiane: la Juventus, il Brescia, poi il Torino. C’è stato anche un affaccio da parte del Milan. Tutti, però, imbattendosi nel macigno della causa FIFA e in una pletora di richieste danni contro il giocatore incardinate in Italia, hanno salutato Stephen e la sua fama di cattivo pagatore. Non tornerà a giocare in Italia. Appiah, allora, ha deciso di raggiungere Londra per allenarsi con il Tottenham e, bruciato anche questo contatto, ha proseguito la fuga dal pignoramento indossando una nuova anagrafe in Spagna e immaginando un futuro nel campionato russo.
Tutta la storia del ragazzo di Accra è un racconto da clandestino. Giovane stella degli Hearts of Oak, arrivò poco più che bambino in maglietta a maniche corte all’aeroporto di Udine. Era febbraio. Gli misero addosso una tuta del club e lui, nei primi sei mesi, mangiò solo gelati, perché non conosceva i cibi italiani né i loro nomi. I procuratori più accreditati del calcio ghanese raccontano che Stephen, come buona parte dei ragazzi d’Africa ansiosi di mostrarsi a talent scout stranieri, si fece cambiare il passaporto e abbassare di due anni l’età. Giunto in Italia, il talento si mise in luce per goal straordinari e leggendarie feste con ragazze ucraine. Ma, soprattutto, nuovi debiti. Lasciò senza un grazie lo Studio Canovi e il suo primo mentore, quel Domenico Ricci che più di tutti conosce il calcio africano.
Oggi l’ufficio gli ha chiesto 105.000 euro di provvigioni non saldate: la sentenza del tribunale di Roma è vicina. Approdato al nuovo procuratore, Santiago Morrazzo, riuscì ad abbandonare anche lui scordandosi del rinnovo del contratto che l’agente gli garantì con la Juventus (1.800.000 euro) e le bollette pagate alla posta per non fargli staccare la luce. Il Tribunale di Roma ha stabilito che Appiah deve a Morrazzo 580.000 euro ma, poiché il calciatore non è mai raggiungibile, l’unico risultato è stato che l’ex agente FIFA deve versare (per la sentenza a suo favore) 25.000 euro per i bolli all’Agenzia delle Entrate.
Già, Appiah è in fuga continua. La moglie e i tre figli vivono in una villetta con garage (e auto di lusso) sulla collina di Torino, ma lui ha eletto domicilio personale a Nichelino, nell’hinterland, in un casermone popolare abitato da extracomunitari senza permesso di soggiorno. Fuori dal suo appartamento legale non c’è campanello, nell’androne hanno sradicato le cassette della posta e l’ufficiale giudiziario, terrorizzato ogni volta che deve avvicinarsi a quel palazzo per recapitargli una raccomandata, ha stilato un rapporto di irreperibilità strutturale.
A Stephen Appiah ha chiesto i danni anche il vecchio padrone di casa di Torino, quello dei tempi della Juventus. Salutato dalla Triade, Stephen organizzò una festa di addio all’Italia invitando la comunità ghanese e le solite ragazze ucraine: sfasciarono tutto sradicando lavandini, bagni e pure gli infissi. Le bottiglie di champagne (avrebbe scoperto il giorno dopo il padrone di casa) galleggiavano nello champagne. L’avvocato Mattia Grassani, che per tutte queste imprese difese e spesso salvò il calciatore, a sua volta non è stato mai pagato. E così ha chiesto 400.000 euro di arretrati riuscendo a farne sequestrare 40.000.
Il bravo ragazzo con il destro preciso è cresciuto dentro una vita da clandestino e ora potrebbe portare la sua fuga nel freddo Tatarstan. Per non smettere di giocare al calcio e per non pagare i debiti.
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