sabato 31 dicembre 2022

ARTHUR

 

Negli ultimi anni pochissimi centrocampisti centrali tra quelli cresciuti calcisticamente in Brasile – scrive Daniele V. Morrone, il primo maggio 2019 sul sito ultimouomo.com – sono arrivati nelle grandi squadre europee senza essere passati per una tappa intermedia che li aiutasse ad adattarsi al calcio europeo di alto livello. Per fare alcuni esempi tra i migliori, oggi: Allan è passato dall’Udinese, Fernandinho è passato dall’Ucraina; Casemiro dalla squadra B del Real Madrid, prima, e dal Porto, poi; Fabinho, ora al Liverpool, è stato effettivamente bocciato dal Real Madrid dopo la stagione in seconda squadra ed è quindi passato per il Rio Ave, in Portogallo, prima di andare al Monaco.
Dato che parliamo di giocatori calcisticamente comunque formati, con almeno un paio di anni di esperienza in prima squadra in Brasile alle spalle, si tratta probabilmente di un necessario adattamento al calcio del vecchio continente, in cui cambiano principalmente i ritmi di gioco e gli spazi in campo. Non è solo una questione di tecnica, quello che cambia è che l’esecuzione del singolo gesto, che deve essere più veloce, portando di conseguenza anche i tempi di reazione a disposizione a essere inferiori.


Arthur Melo, alla sua prima stagione in un grande d’Europa, si sta rivelando la grande eccezione. Nato a Goiania, capitale dello stato del Goias che si trova nell’entroterra brasiliano, in quella zona denominata Planalto Central, l’enorme altopiano dove venne deciso di costruire la capitale Brasilia, Arthur non proviene dal calcio di strada. La sua città è della provincia brasiliana bianca, dove i talenti vengono instradati da subito nella scuole calcio: per dire, lui è stato iscritto alla scuola calcio dall’età di quattro anni.
Cresciuto nelle giovanili del Goias, a quattordici anni sceglie di fare un salto di livello e passa nelle giovanili del Gremio. Significa un trasferimento a 2000 chilometri da casa. Così si descrive nel 2015, al momento di salire in prima squadra del Gremio (da diciottenne, per volere dell’allenatore Scolari): «Sono un giocatore tecnico che si occupa della costruzione della manovra. Provo sempre a capire il sistema di gioco, così da distribuire il gioco e guidare il tempo dell’attacco».
Ci metterà due anni, però, per diventare titolare, grazie all’allenatore Renato Portaluppi (l’ex giocatore della Roma a fine anni ‘80). Il suo debutto in Copa Libertadores gli vale il premio di giocatore partita, con quaranta passaggi fatti senza neanche un errore. Qualche mese dopo, Arthur è il regista del Gremio vincitore della Libertadores 2017.
Quel Gremio era una squadra che avanzava sul campo attraverso passaggi corti, in attesa del filtrante giusto, con Arthur che calamitava il pallone: i compagni vicini si appoggiavano a lui in ogni situazione, anche solo come ponte per arrivare da una parte all’altra del campo. Il che lo ha reso, appena ventenne, l’ago della bilancia della manovra della sua squadra, e anche il bersaglio principale della pressione avversaria.
Ai ritmi a cui va il calcio brasiliano, il suo controllo orientato e la sua conduzione del pallone gli permettono di eludere la pressione avversaria con tranquillità. Arthur può governare a piacimento i tempi di gioco muovendosi in verticale per il campo, scegliendo dove ricevere e dove scaricare, dopo il primo controllo. La sua capacità di resistere alla pressione avversaria lo rende realmente inattaccabile in Brasile, in cui da qualsiasi posizione riesce a creare gioco, anche con filtranti taglia linee per rendere più verticale la manovra, quando necessario.
Acquistato a marzo 2018 (per di trentuno milioni + nove di bonus), dall’estate successiva ha un posto nella prima squadra del Barcellona. La dirigenza blaugrana era sicura che Arthur avesse il fantomatico “DNA del Barça”, quell’insieme di capacità tecniche e di pensiero che permettono a un giocatore di essere protagonista con il pallone tra i piedi.
L’eccezionalità di Arthur Melo, però, sta nel fatto che alla sua prima esperienza fuori dal Brasile non solo si è preso il posto da titolare nel Barcellona, ma si è reso anche indispensabile per il gioco della squadra di Valverde.
In Arthur sembravano evidenti, da subito, la capacità di resistere alla pressione avversaria e la tecnica di passaggio, con letture in grado di aiutare l’avanzamento della manovra. Il suo gioco ha avuto un impatto immediato nel Barcellona, portando Leo Messi a sottolinearne le qualità già dopo la preparazione estiva: «Tutti i nuovi giocatori sono di ottimo livello, però se devo sceglierne uno da sottolineare è Arthur. Mi ha sorpreso: è molto affidabile e sicuro».


Al suo arrivo in Catalogna, El Pais lo presenta come “il fondamentalista del passaggio”; viene paragonato prima a Iniesta e a Thiago Alcantara, due giocatori con cui però non condivide lo stile: Arthur è più vicino al paragone, ormai consolidato, con Xavi Hernandez.
Anche Arthur parla di Iniesta come del suo idolo, il giocatore con cui è cresciuto guardandone ne giocate, ma sembra modellato dal gioco di Xavi. Nel modo di vedere il calcio è incredibilmente xavista, basta prendere una sua risposta e notare come sembri uscire dalla testa del regista catalano: «Nel calcio, per quanto si dica, è molto più importante la testa che i piedi. Devi pensare molto rapidamente e qui in Europa, devi eseguire anche molto rapidamente. La cosa più importante è osservare cosa succede in campo per prendere la decisione giusta. Puoi essere molto forte, molto rapido, molto aggressivo, però se la testa non pensa non ti servono a niente quelle qualità».
Somiglia a Xavi anche per la muscolatura ben strutturata, soprattutto sulle gambe, e il baricentro basso, perfetto per chi deve proteggere il pallone utilizzando anche l’equilibrio. Da Xavi, poi, sembra aver preso il repertorio di finte a protezione del pallone, come il giro a 360 gradi. La celebre pelopina.
La sensibilità con cui controlla la palla è la sua qualità migliore, anche grazie al suo uso del corpo per orientare la giocata nel verso giusto, e sfuggire al tentativo di pressione senza perdere il tempo di gioco. Come prima di lui aveva mostrato bene proprio Xavi, un controllo orientato vale spesso più di un dribbling, se si gioca come mezzala.
Arthur si indirizza verso il pallone scandagliando con la testa il campo attorno a sé prima di ricevere: «In Brasile ricevi il pallone e poi ti guardi attorno, con tempo per tutto. Qui è il contrario: devi guardarti attorno prima di ricevere. E non una sola volta, devi guardare più volte».
Riesce ad utilizzare l’interno del piede per girarsi in senso anti orario; il collo come la suola, sia da fermo che in movimento, per girarsi in senso orario, con le gambe posizionate oltre la proiezione delle spalle per rimanere in equilibrio e soprattutto tenere lontano dalla palla l’intervento dell’avversario.
Ha una frequenza alta di tocchi di palla, per correggere l’andamento della palla o rubare il tempo all’avversario, che riesce appena a intravedere il pallone quando il controllo non è abbastanza preciso.
Detto, quindi, dell’incastro perfetto tra le sue qualità e quello che cerca il Barcellona in una mezzala di possesso, la grande domanda sul suo impatto riguardava (come per gli altri centrocampisti di scuola brasiliana) quanto tempo ci avrebbe messo ad adattarsi al ritmo delle giocate. Se, cioè, il suo gioco cerebrale non avrebbe risentito dell’aumento del ritmo, considerando che lui stesso ammette di non essere molto istintivo nella giocata: «Io provo ad avere in testa il passaggio che voglio fare prima di eseguirlo. Per me questa è la chiave».
Ma Arthur ha dimostrato che anche in Europa è in grado di mantenere la calma necessaria per eseguire il suo calcio al meglio. Anche se non è stata una cosa proprio immediata: «All’inizio ho avuto un po’ di difficoltà per la questione della velocità di esecuzione, però è una cosa normale». Ma dalla partita di Champions League contro il Tottenham del 3 ottobre 2018, è diventato a tutti gli effetti titolare del Barcellona, e ha cambiato le prospettive del lavoro di Valverde.

In questa stagione Valverde non è riuscito a dotare il Barcellona di un sistema di gioco paragonabile a quello della scorsa: a inizio stagione, con Coutinho mezzala sinistra e Ousmane Dembélé esterno d’attacco, il Barça non riusciva minimamente ad avere il controllo di quanto succedeva in campo.
Era una squadra offensiva che viveva di puro talento, e questo portava a fiammate continue e letali, ma anche a imprevedibili transizioni difensive dopo dolorosissime perdite del pallone (troppo spesso proprio nella zona di Coutinho e Dembélé) con uno scaglionamento che lascia troppo solo Busquets al centro del campo.
Un problema che si è fatto sempre più manifesto con l’andare avanti della stagione, fino alle due partite contro Leganes e Athletic Club di fine settembre (la prima sconfitta della stagione e un pareggio), in cui Arthur Melo è rimasto in panchina tutta la gara. Queste due partite, in cui gli avversari hanno attaccato sfruttando le perdite del pallone del Barcellona, hanno probabilmente portato alla svolta di Wembley.  
Dal momento in cui si è preso la titolarità, Arthur ha cambiato il sistema stesso di Valverde. Con il suo gioco aiuta a controllare il ritmo della partita, rimette ordine nel rapporto tra perdita e riconquista del pallone: il Barcellona perde meno palloni a centrocampo con Arthur, e la riconquista avviene più in alto. Arthur si muove continuamente, anche dopo un passaggio, così da rimanere sempre visibile per i compagni e rendere l’azione il più fluida possibile.
La presenza di Arthur aiuta anche i due compagni di reparto, Busquets e Rakitić, a fare meglio. Busquets può evitare di guardare sempre a sinistra dopo la perdita, come faceva con Coutinho a inizio stagione, e Rakitić è libero di muoversi e in caso anche di avanzare seguendo la manovra, cosa per lui fondamentale visto che il meglio lo dà avvicinandosi all’area (piuttosto che abbassandosi a inizio azione).
Arthur non si mette sempre in diagonale in avanti rispetto a Busquets, come vorrebbe la teoria, ma è libero di venire incontro al pallone finendo anche più indietro. Si muove incontro alla palla, ed è quello di cui ha bisogno una squadra che fatica altrimenti a resistere alla pressione avversaria in uscita del pallone. Arthur, in realtà, ha personalità e tecnica per intervenire dove meglio crede.



MARCO D’OTTAVI, DA ULTIMOUOMO.COM DEL 19 MAGGIO 2021
Cosa ci aspettavamo da Arthur? Se c’è delusione, necessariamente, deve esserci stata prima aspettativa. Ci aspettavamo forse otto-dieci gol? Oppure che all’improvviso diventasse un centrocampista rifinitore? Più passaggi chiave che allacciate di scarpe. O magari che rivaleggiasse con De Paul e gli altri centrocampisti-trattori nei metri guadagnati palla al piede ogni domenica? 
È difficile ricostruire cosa ci aspettavamo tutti da Arthur, visto il tipo di giocatore che è, uno da ottanta passaggi a partita col 96% di precisione. Eppure ci aspettavamo qualcosa e questo qualcosa non è arrivato. Diamogliene atto: non è stato fortunato, fin dal principio. Il costo del cartellino, per esempio, settantadue milioni di euro più altri dieci di bonus che ne fanno il quarto giocatore più pagato nella storia della Juventus, è un po’ ingannevole. Era il 29 giugno e Juventus e Barcellona avevano bisogno di mettere a bilancio quanti più soldi in entrata possibile e allora andava bene scrivere quella cifra lì – a cui si aggiunge Pjanic valutato sessanta milioni – senza mettersi a tirare sul prezzo. L’operazione però era sembrata almeno leggermente sbilanciata a favore della Juventus: il bosniaco era a fine ciclo, mentre Arthur, pur non avendo avuto una seconda stagione eccezionale al Barcellona per via di alcuni infortuni e incomprensioni, arrivava come la mezzala di possesso che tanto era mancata a Sarri.
Ma poi Sarri era stato cacciato. Cosa sarebbe successo se fosse rimasto lui sulla panchina della Juventus? Se magari i bianconeri avessero segnato un gol fortuito nel recupero con il Lione per poi uscire in maniera dignitosa ai quarti, Arthur avrebbe avuto la sua stagione? Con un allenatore che prova a stringere il campo e soprattutto fare possesso nella metà campo avversaria, Arthur si sarebbe trovato più a suo agio, più vicino al lavoro già fatto con il Barcellona dove veniva considerato un Xavi e non un Busquets. Invece era arrivato Pirlo e Arthur aveva dovuto adattarsi. Già alla seconda partita, contro il Crotone, l’allenatore gli aveva fatto notare che non stava più al Camp Nou: «Ha caratteristiche da calcio spagnolo, il suo calcio è corto e vede magari poco davanti». Poteva essere la carezza di uno che quel ruolo lo ha cambiato, ma era sembrata più una sbrigativa bocciatura. Arthur toccava troppo il pallone e verticalizzava poco, e questo era il problema. Nei primi mesi, in fase di possesso, Pirlo voleva che la costruzione del gioco dal basso fosse organizzata con tre difensori e due playmaker, i quali avevano il compito di innescare i cinque giocatori offensivi scaglionati oltre la linea di pressione. In questo tipo di organizzazione ogni secondo aveva importanza per trovare impreparati gli avversari.
Arthur aveva dimostrato presto a tutti che “non era Pirlo”, ovvero che non era in grado da solo di creare il tempo con cui giocava la squadra, di illuminare il campo con lanci a occhi chiusi. Tuttavia più le cose si aggiustavano, non senza qualche difficoltà, più le sue prestazioni miglioravano. Contro il Barcellona al ritorno, in quella che oggi possiamo considerare la miglior partita della Juventus, Pirlo ha alzato un centrocampista per lasciare Arthur più libero di gestire il gioco davanti alla difesa. Ad aiutarlo in fase di costruzione dal basso era poi Ramsey, di solito impiegato più alto tra le linee e non McKennie o Rabiot, mai particolarmente a loro agio nel palleggio accanto al brasiliano. Ma se l’americano era stato il mattatore di quella partita grazie al suo gioco fatto di inserimenti e corse disperate, che Arthur fosse stato importante era difficile dimostrarlo. Ciò che di lui salta più all’occhio è la qualità: quando gioca bene il palleggio della squadra è più fluido, l’uscita della palla più facile, ma non c’è un premio per questo.
Al contrario è stato facile vederlo sedere in panchina mentre davanti alla difesa Rabiot e Bentancur faticavano in maniera così evidente da chiedersi perché non ci fosse Arthur lì, che sembra nato per fare quelle cose. Ma poi quando effettivamente era in campo, tutto quello che si pensava potesse fare meglio dei compagni non bastava. Non bastava anche perché più avanti andava la stagione, più la barca prendeva acqua, più ai centrocampisti era chiesto di coprire più campo, fare più cose, caricarsi di più responsabilità e semplicemente Arthur non è quel tipo di giocatore. A distruggere definitivamente la sua stagione è poi arrivato uno strano infortunio, che lascia capire quanto sia stata poco fortunata la sua esperienza in bianconero fin qui. Dopo uno scontro tremendo con Romero nella partita con l’Atalanta del 16 dicembre, il brasiliano ha saltato una gara per poi tornare in campo come se non fosse tutto risolto. Tra il 24 gennaio e il 6 febbraio ha giocato tre partite da titolare, in tre vittorie. Contro il Bologna ha segnato il suo unico gol (con un tiro fatto cadendo, grazie a una deviazione), contro la Roma era stato fondamentale sempre in quella pratica oscura di ricevere palla dalla difesa e non farsela portare via.
La Juventus sembrava aver trovato una certa stabilità intorno al duo Bentancur-Arthur, con McKennie più libero davanti a loro. Poi si era scoperto che l’ematoma creatosi dopo lo scontro con Romero si è trasformato in una dolorosa calcificazione a livello della membrana interossea. Un infortunio misterioso, arrivato quasi due mesi dopo l’episodio scatenante. Un infortunio di cui tra l’altro non si conosceva il destino: ci sono calciatori che giocano con delle calcificazioni senza problemi e altri per cui è necessaria un’operazione. Dipende dal dolore che si prova. «È stato un infortunio strano, sfortunatissimo», così lo ha definito il giocatore, tornato in campo quaranta giorni dopo, appena in tempo per giocare 102 minuti nella partita di ritorno contro il Porto, con 118 tocchi, 109 passaggi tentati e 102 riusciti, rendendosi però praticamente assente nella creazione del gioco offensivo contro una squadra chiusa nella sua metà campo. A quel punto la Juventus aveva già virato su un gioco costruito sulle corse disperate di Chiesa e i cross di Cuadrado, un tipo di calcio di cui Arthur sembra l’antitesi. 
Ma il momento peggiore doveva ancora arrivare. Se è difficile giudicare nel bene le prove di Arthur, spesso è difficile anche giudicare nel male, almeno fino alla partita col Benevento. Il brasiliano, che in questa stagione ha tentato 1360 passaggi riuscendo per 1276 volte (e sbagliandone quindi in totale ottantaquattro), ha regalato il pallone del gol vittoria a Gaich in maniera quasi drammatica, con una scelta così sbagliata che è difficile dire come possa essergli venuta in mente, quando aveva uno scarico semplicissimo per Szczesny a disposizione.
Quella sconfitta è stata l’apice dell’incompiutezza della Juventus di Pirlo e Arthur è stato un protagonista in negativo. Bisogna però anche far notare come delle otto sconfitte stagionali della Juventus, quella col Benevento è stata l’unica in cui Arthur era in campo. Certo, è più probabile sia un caso, per infortuni o scelte di Pirlo il brasiliano ha saltato quasi tutte le partite più difficili della stagione, ma era giusto farlo notare, visto che gli stiamo dando un premio negativo.  
A tirare le somme – che sia stato una delusione più o meno di altri compagni in una stagione di squadra molto deludente – per Arthur è stata una stagione sostanzialmente buttata. A ventiquattro anni, nella Juventus, con quel costo, con le speranze che i tifosi avevano di aver finalmente preso un centrocampista geniale, il brasiliano poteva e doveva fare di più. Non è migliorato con il passare delle partite, come era lecito aspettarsi, né Pirlo ha trovato un modo per farlo sentire più a suo agio. A livello offensivo non è esistito: la somma dei suoi xG e xA per novanta minuti è superiore solo a quella di Chiellini e se abbiamo capito che non è quel tipo di giocatore, l’anno scorso col Barcellona aveva segnato tre gol e realizzato tre assist. Ma anche per quanto riguarda la fase difensiva non ha brillato. In contrasti, pressioni, intercetti, è sotto la media dei compagni di reparto e spesso anzi è apparso spaesato quando si trattava di tenere atteggiamenti difensivi corretti. Nella recente partita col Sassuolo, il suo tentativo di accorciare su un giocatore distante venti metri ha lasciato un buco alle spalle e fatto partire l’azione del bel gol dei neroverdi.
Insomma Arthur è stato più che altro una fitta rete di passaggi corti, spesso all’indietro. In alcune partite è sembrato sul punto di diventare veramente utile alla Juventus, soprattutto contro squadre che lo pressavano in maniera diretta dove poteva mettere in mostra la sua capacità di difendere il pallone e smarcarsi sfruttando un baricentro basso e gambe forti, ma è durato troppo poco. Più che le sue buone partite, sono state quelle pessime di Bentancur davanti alla difesa a far pensare che Arthur potesse essere indispensabile. Al contrario però, in quel ruolo, devi renderti indispensabile: giocatori come Busquets e Jorginho dimostrano come si possa incidere in maniera fondamentale nel gioco anche senza avere la falcata di un cavallo o la forza di un bufalo.
Forse la delusione è stata scoprire che Arthur non è quel tipo di centrocampista, così raro che ci avrebbe fatto piacere vederne una versione con il Brasile nel sangue e il Barcellona nel curriculum. Il talento di Arthur viene fuori nello stretto, quando viene messo in difficoltà, quando i compagni intorno a lui si muovono come una macchina ben oliata e il suo compito diventa non quello di dettare il tempo alla squadra, ma fungere da facilitatore della manovra. Eppure adattarsi è il destino dei calciatori che non riescono a incidere in maniera decisiva sul contesto, come è successo ad Arthur in questa stagione. Quest’anno Arthur non ci è riuscito, ma un anno in più non si nega a nessuno, con o senza Pirlo.

Un anno in più non si nega a nessuno, è vero, e sarà così anche per il brasiliano. E sarà un altro flop, nonostante il ritorno di Allegri. E, alla fine della stagione, verrà dato in prestito al Liverpool.

Nessun commento: