mercoledì 16 novembre 2022

Paulo DYBALA

 

Ci vorrebbe un colpo di genio Juventus – scrive Enzo Palladini sul “GS” del maggio 2016 – ci vorrebbe l’Avvocato. Una pennellata d’autore, come quella che paragonò Roberto Baggio a Raffaello o quella che ha regalato l’immortalità calcistica a Del Piero con l’accostamento a Pinturicchio. Per Paulo Dybala servirebbe quel sorriso ironico, quella erre moscia. Ma l’Avvocato, si sa, è uno dei personaggi meno imitabili della storia recente. O meglio: lo è dal punto di vista vocale, non certo da quello umano.
E allora per dare un soprannome alla nuova stella della Juventus è meglio percorrere strade alternative, meglio andare su qualche opera che è un po’ meno nota al grande pubblico. Con la macchina spazio-tempo andiamo allora a Londra, esattamente in Manchester Square, dove ha sede la Wallace Collection. Lì c’è un capolavoro che assomiglia tanto a un gol di Dybala. Si chiama “The Rainbow Landscape”, ma qualcuno lo chiama anche “Landscape with Rainbow”: paesaggio con arcobaleno. Un soggetto poco sfruttato in pittura perché non è così semplice da rappresentare. Invece Rubens ne ha fatto una meraviglia vera, così come Paulo Dybala ha saputo trasformare un apparentemente banale tiro in porta di sinistro in un arcobaleno prodigioso. Fatto con il destro era il “gol alla Del Piero”, ma il gioiello argentino con il suo sinistro magico riesce a pennellare quella forma dalle posizioni più impensate. Una curva che tende alla perfezione, come quell’arcobaleno di Rubens che sovrasta un paesaggio inquietante e al contempo terribilmente accattivante.
Non a caso si porta dietro un soprannome che già di per sé indica qualcosa di superiore alla media: “la joya”, il gioiello. Una di quelle parole che ascoltate in Spagna suonano in un modo, sentite in Argentina sembrano completamente diverse. Questione di slang, adattamento sudamericano di una lingua che ormai è parlata in una ricca percentuale di mondo. Ma l’Argentina, quel Paese che sembra essersi radicato così profondamente nel suo ego e nel suo modo di essere, è stato la sua culla quasi per caso. Un punto d’arrivo quasi casuale per il nonno Boleslaw, scappato durante la Seconda Guerra Mondiale da Krasniow, paesello di contadini poveri a una settantina di chilometri da Cracovia, per andare a finire chissà perché proprio a Laguna Larga, nel pieno della pampa argentina. Insomma, altro paesello di contadini (forse solo un pochino meno poveri), altro posto lontano dalla metropoli, altro posto dove per emergere bisogna essere e avere qualcosa in più, qualcosa che costringa il mondo a dire: prepara i bagagli e parti. Da qualche parte arriverai, con un tappeto rosso ad accarezzare i tuoi passi.
Figlio d’arte, quello magari no. Sarebbe una forzatura eccessiva. Papà Adolfo, la passione per il calcio, ce l’ha sempre avuta, ma le sue esibizioni sui campetti di Laguna Larga non hanno lasciato il segno nella storia locale. Gli arcobaleni che disegna il figlio con il piede sinistro, Dybala senior li poteva vedere con il binocolo quando smetteva di piovere. In campo, preferiva tener fede alle sue origini europee con uno stile di gioco deciso, ai limiti del regolamento, genesi del soprannome “el chancho”, il maiale. Poca arte, concretezza molta o forse anche troppa, ma con tanta voglia di avere un figlio calciatore. Il resto della storia è arcinoto, si racconta a ogni gol di Paulo. Fallito il progetto “un calciatore in famiglia” con il primogenito Gustavo e il secondogenito Mariano, il signor Adolfo non si è arreso e prima di andarsene forse aveva intravisto la magia del piccolino di famiglia.
A quattro anni Paulo già dimostrava talento con il pallone tra i piedi, a otto aveva passato a pieni voti il provino con il Newell’s Old Boys, destinazione bocciata dal padre per scegliere poco dopo l’Instituto Cordoba. Poi tutto veloce, velocissimo: la perdita del padre a quindici anni («Da allora i miei fratelli, se mi devono dare uno schiaffo, me lo danno. Gustavo ha trentacinque anni, Mariano trentadue; dicevano che a calcio fosse bravo, ma non ha avuto il coraggio o la volontà che ho avuto io: lasciare tutto e inseguire un sogno»). Poi tutto veloce e tutto precoce: l’esordio nella Serie B argentina a diciassette anni, il trasferimento al Palermo a diciotto («Io mi ero immaginato di giocare due o tre anni nel River o nel Boca, prima di essere pronto per l’Europa. Ma un giorno è arrivato Zamparini con dodici milioni e sono stato costretto ad andare»), i gol bellissimi in Serie A praticamente da subito.
Ora la Juve. Ora e per molto tempo, almeno così si augurano i tifosi bianconeri. L’importante è dare sempre il massimo e papà Adolfo, che in pratica è stato il suo primo vero allenatore, glielo ha insegnato presto; anche se gli vedeva segnare due o tre gol in una partita, dopo la doccia lo sgridava: «Hai fatto degli errori, mai accontentarsi». Ma Dario Franco, che è stato suo allenatore nell’Instituto Cordoba, la pensava già diversamente: «Si è capito subito che Paulo aveva la classe, la forza mentale e la tranquillità per fare il calciatore, tant’è che venne subito utilizzato con i ragazzi più grandi di lui».
Rino Gattuso l’ha allenato per un paio di mesi al Palermo, ma per fargli capire come va il mondo, nelle partitelle lo stendeva senza tanti complimenti, quando il ragazzo si permetteva di dribblarlo o di irriderlo con qualche tocchetto a effetto. Poi è stata la volta di Giuseppe Iachini, che non ci ha messo molto a scatenare la sua innata vena realizzativa.
C’è un signore al quale si deve in buona parte l’acquisto di Dybala. Ovviamente il merito finale va al presidente Andrea Agnelli, che ha messo a disposizione la cifra pesante dell’investimento, ma sotto quegli arcobaleni disegnati in molte partite c’è la firma di Fabio Paratici. Il direttore sportivo è un patrimonio tecnico dell’umanità bianconera e ai vertici lo sanno benissimo. Non ama l’autopromozione e l’autoreferenzialità, agisce nell’ombra e praticamente non sbaglia un colpo. Parla tutte le lingue che servono per lavorare nel calcio ad alti livelli, ha un archivio sterminato sul suo computer, conosce anche i giocatori della Serie B di Andorra. E quando ha iniziato a insistere su Dybala, i suoi capi l’hanno assecondato. Non mente Maurizio Zamparini quando dice che Inter e Milan le hanno provate tutte per intrufolarsi nell’affare. Tutto vero. Ma Paratici non ha mai mollato.
Agnelli ha preso Dybala per una cifra che sembrava assurda, quaranta milioni di euro tra parte fissa e bonus. A meno di un anno di distanza, in casa bianconera hanno la consapevolezza di aver fatto un affare straordinario. La Joya vale almeno il doppio e dovrà essere coccolato in tutti i modi possibili per poterlo trasformare nel leader di una squadra che sembra destinata a dominare ancora a lungo il calcio italiano. «Qui a Torino ho acquisito la voglia di vincere, che è una cosa strana e difficile. A giugno, dopo la finale di Champions contro il Barcellona, tornai con l’aereo della squadra e mi colpì molto un episodio. Marchisio venne a presentarsi e mi disse: «Preparati bene, che l’anno prossimo dobbiamo vincere tutto». Era incredibile: avevano appena giocato una finale di Champions e invece che alle vacanze pensavano già alla stagione successiva. È lì che ho misurato la distanza tra il Palermo e la Juve».
Fa strano scomodare i grandi del ventesimo secolo parlando di un ragazzo che praticamente fa parte nella sua totalità del ventunesimo, fatta eccezione per l’allattamento, l’asilo e la prima elementare. Dopo il velleitario tentativo di immedesimazione nell’Avvocato, ci sta una citazione di Eduardo De Filippo. Per uno come Dybala gli esami in teoria non finiscono mai, invece ciò che sembra davvero infinita è la sua capacità di superarli tutti a pieni voti. Magari con la lode e un applauso generale. Lo aspettavano tutti al varco, per il peso delle quaranta milionate e per la necessità di fare un salto spazio-temporale da una squadra come il Palermo a una corazzata come la Juventus. Il suo faccino da studente modello ha superato tutto come se stesse bevendo un succo di frutta. Ci si chiedeva se potesse essere un degno sostituto di Tevez e i fatti stanno dimostrando che molto presto dovremo invece chiederci se Carlitos sia stato un degno predecessore della Joya.
Quando ha scelto il numero ventuno, in molti pensavano che la maglia di Pirlo potesse pesare una tonnellata sulle sue spalle. Invece la porta come se fosse una canottiera traforata sulla spiaggia di Punte del Este (che è in Uruguay, ma piace tanto anche agli argentini). Nelle gerarchie iniziali interne alla Juve doveva essere alle spalle di Morata e Mandzukic, con la prospettiva di giocarsi un po’ di spazio a gomitate con Zaza. Oggi siamo vicini alla frase che va sempre di moda in Sudamerica: «La Juventus è Dybala e altri dieci». E quando si parlava di Paulo come trequartista del futuro, come fantasista, insomma quel “10” che Pogba porta per prestigio e non per caratteristiche innate, probabilmente Allegri pensava tra sé e sé quante bischerate dicono questi giornalisti.
Se invece andiamo ad analizzare con grande attenzione le partite di Dybala negli ultimi mesi, scopriamo che l’attitudine è proprio quella: non più – come nel Palermo – una prima punta che aspetta i cioccolatini di un compagno geniale ma un po’ incompreso (el mudo Vazquez), bensì un attaccante completo, mobile, grintoso, infaticabile podista che va a cercare il pallone negli spazi deserti tra le linee e in un millesimo di secondo lo trasforma in uno di quegli arcobaleni che picchiettano i legni della porta nel punto in cui si incrociano, come se dicessero: ciao portiere, mi dispiace per te.
Il posto di Tevez se l’è preso con disinvoltura nella Juventus, che forse ragionando a posteriori avrebbe dato il dieci a lui più che a Pogba. Ma prima o poi quelle aste milionarie diventeranno denaro sonante e quella maglia potrebbe cambiare padrone e passare sulle spalle del genio argentino che calcia di sinistro come Sivori, che ha sei lettere nel cognome come Sivori e che è stato portato alla Juve da un rappresentante della dinastia Agnelli, proprio come Sivori. E l’altro elemento impressionante di Dybala è la sua capacità di essere trans generazionale. Ai nonni fa venire in mente appunto Sivori, ai papà ricorda Del Piero e ai figli, forse, una via di mezzo tra Aguero e addirittura Lionel Messi. Come cade, cade bene: paragoni illustri ne abbiamo, anche troppi. Il problema è che sono quasi tutti argentini. E qui va a inserirsi il rapporto con la Nazionale, che non è semplice per la grande concorrenza, ma come canta Mick Jagger, “Time is on my side”: la Joya può tranquillamente aspettare qualche anno per diventare titolare inamovibile dell’albiceleste.
L’attesa non ha mai fatto male a nessuno, almeno apparentemente. E per uno che ha voluto vestire certi colori con tutte le sue forze, che potrà mai voler dire qualche panchina... Dybala poteva giocare con la Nazionale italiana e sarebbe stato un colpo pazzesco, vista la carenza di attaccanti che possono vestire l’azzurro. Antonio Conte ci ha provato, chissà se ci credeva davvero. Con garbo ed eleganza, si è sentito rispondere «no gracias, soy argentino». Fino al midollo. Ha provato a corteggiarlo anche il Paraguay, ma allora tanto valeva aspettare all’infinito, oppure dire sì alla Polonia grazie al passaporto ereditato da nonno Boleslaw. Il 23 settembre finalmente è arrivato il telegramma che Paulo aspettava da una vita, quello di Gerardo “El Tata” Martino, Ct argentino. Il 14 ottobre ecco l’esordio contro il Paraguay (15’) e altri due spezzoni contro Brasile (9’) e Colombia (20’). Nelle gerarchie del Tata sta già sorpassando un Tevez che, da quando è tornato in Argentina, dopo l’entusiasmo iniziale condito da qualche vittoria con il Boca sembra avere imboccato il viale del tramonto.
Ma i dolori del giovane Dybala sono destinati a continuare, sempre che lottare per un posto tra i vicecampioni del mondo possa essere considerato un dolore. L’attuale generazione di attaccanti argentini comprende non solo Lionel Messi, ma anche Gonzalo Higuain, Sergio Aguero, Ezequiel Lavezzi, il giovane Angel Correa dell’Atletico Madrid, il tuttofare Angel Di Maria che però un posto da titolare lo deve avere per forza. Più Tevez, ovviamente. Lotta dura senza paura, un altro esame da superare. Un esame che Dybala non sembra timoroso di affrontare. Con la solita faccia sorridente, con la sua semplicità innata e con quel ciuffo da bravo ragazzo che lo rende ancora più simpatico. Dal 3 giugno l’Argentina gioca la Coppa America del Centenario negli Stati Uniti. Un’edizione speciale che può scatenare un giocatore speciale, il Rubens di Laguna Larga, il pittore degli arcobaleni che fanno illuminare sempre quell’angolino lì, in alto, alla destra o alla sinistra del portiere. Sempre colorati, meravigliosi e inafferrabili, come solo gli arcobaleni sanno essere.

ROBERTO PERRONE, DAL “GS” DEL NOVEMBRE 2018
La Joya è ancora felice? Non è un ossimoro, anche perché la Joya in spagnolo significa gioiello e non gioia, come verrebbe spontaneo. Però un gioiello, un bel gioiello, è anche detto gioia. E la gioia è quasi simile alla felicità. Usciti indenni, speriamo, da questo calembour iniziale, avviciniamoci al centro del nostro dire. Qui si parla di calcio, ma potremmo anche parlare d’altro. Questo è un caso classico di ricerca della felicità, con l’eterna questione posta da Giacomo Leopardi nel Canto Notturno di Un Pastore errante dell’Asia: “ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?”.
È la domanda che ci facciamo tutti e si può tradurre anche siamo felici? Paulo Bruno Exequiel Dybala è felice? La Joya arrivò a Torino nell’estate del 2015 per prendere il posto di Carlos Tevez, in preda a una crisi di saudade, per usare un termine brasiliano. Soffriva di nostalgia. L’Apache voleva tornare a casa, voleva riprendere la residenza in Argentina. Poi, quando aveva già i bagagli sull’uscio, gli arrivò un’offerta da un club europeo e la saudade era bella che sparita, ma Madama mostrò i muscoli: a casa vai gratis, altrove a pagamento. Ma questa è un’altra storia.
Sebbene avesse caratteristiche tecniche differenti e anche un modo diverso di esprimerle sul prato, Paulo doveva impersonare lo stesso ruolo in commedia che aveva contraddistinto l’avventura dell’Apache: segnare e decidere.
Nei primi due anni di Conte chi andasse a rete non aveva importanza, il bomber era Vidal. Poi arrivò Tevez e “Votantonio” gli avrebbe fatto fare la fine degli altri, su e giù dalla panca ma quello ogni pallone che toccava lo metteva dentro.
Lo stesso accadde con Llorente. Nacque la coppia del gol, inaudita nei pensieri dell’allenatore della rinascita bianconera. Paulo, per l’idea di spesa della Juventus di allora, è costato tantissimo: quaranta milioni al Palermo. Soldi ben spesi, visto che ora, secondo Transfermarkt, ma non solo, ne vale almeno 110.
Il primo anno è stato un trionfo, anche di soddisfazione personale. Dybala giocava da centravanti o comunque era lui quello da cercare, a cui affidare il pallone.
Il diamante sull’anello, la ciliegina sulla torta. Mandzukic e Morata non gli facevano certo ombra e lui è sempre stato la stella. Poi è arrivato Gonzalo Higuain e qualcosa si è incrinato, infine Cristiano Ronaldo e il problema è diventato chiaro: Dybala non era più il gioiello della corona, ma uno dei gioielli e doveva dividere il palcoscenico, pardon il terreno con i compagni. Fare il fenomeno, ma anche farsi gli affari degli altri, cioè delle squadra, come vuole Allegri. In questi due anni, sia Mandzukic che Higuain hanno dimostrato di essere più bravi a reggere la sostenibile pesantezza di essere attaccanti che non fanno solo gli attaccanti.
Però. Nel campionato 2017-18 Dybala ha segnato ventidue gol, più quattro altrove, per un totale di ventisei, il numero più alto da quando è alla Juventus, compreso un infortunio che lo ha tenuto fuori quaranta giorni. E allora di cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando di un fuoriclasse che “ha bisogno di giocare” come dice Allegri ma che, anche se è tornato al gol, segnando le sue prime reti stagionali, rappresenta una domanda aperta. Infatti prima veniva sottolineata la sua assenza (dalla formazione iniziale, dalla centralità juventina, dal gol) e ora viene sottolineato il suo ritorno (al gol, alla soddisfazione di essere di nuovo importante).
Perché la verità è che Dybala appare infelice, anche quando non lo è. Nell’anno sociale terminato a maggio, aveva vissuto tutta una serie di cambiamenti, anche traumatici. La fine della storia d’amore con la fidanzata storica Antonella Cavaleri che naturalmente si è sfogata su un giornale specializzato in faccende di gossip, forse il più specializzato (“Chi”): “Più Paulo diventava famoso, più si allontanava da me. La popolarità e le ragazze che gli facevano il filo hanno rovinato la nostra storia”. Dopo un passaggio con Ginevra Lambruschi, professione influencer, ecco la nuova fiamma, la ventiduenne Oriana Sabatini, nipote della mitica Gabriela che spezzò tanti dei nostri cuori tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90, tra il Ronald Garros e Wimbledon. Poi ci sono state le gesta del fratello Mariano, new entry come procuratore.
Di agenti-parenti-coltelli sono piene le cronache. In questo caso la liquidazione dell’ex manager Pierpaolo Triulzi e dello sponsor tecnico a cui questo aveva legato Dybala, la Puma, a cui è stata preferita l’Adidas, fornitore bianconero, ha portato alla solita trafila di carte bollate.
Pare che Pavel Nedved, quello che si è sposato con la compagna di banco delle elementari e ha battezzato i figli con i nomi suoi e di sua moglie, quello tutto casa e stadio, quello che al mattino all’alba, anche con la neve, sfrecciava sotto le finestre di Umberto Agnelli al Parco della Mandria, lo rimproverasse spesso per queste sue turbolenze extra-juventine.
Le impressioni sono sempre soggettive, eppure tutti abbiamo questa immagine di Dybala poco felice, la faccetta con gli occhi inquieti, il ciuffo sbarazzino incapace di trovare una collocazione. Appare così mentre sta in panchina, spesso non utilizzato, spesso arrabbiato come molti dei suoi compagni (da Higuain a Mandzukic, fino a Khedira) per le sostituzioni, come è accaduto un anno fa. A lui, come agli altri, non è toccato uno sgabello in tribuna o addirittura un anno di esilio, come a Leonardo Bonucci, però, malgrado i gol, tanti, più di tutti, Dybala appare come qualcosa di incompiuto. E anche se non lo è, è questo che sembra. E quindi è un problema.
Il nuovo anno sociale è cominciato allo stesso modo, avanti e indietro dalla panca, la prima di Champions tutta fuori. E poi con la crescita di Bernardeschi, altro ruolo certo, ma tutti a dire che è lui – e in second’ordine Douglas Costa – la spalla ideale di Ronaldo.
Massimiliano Allegri, alla fine del campionato 2017-18, ha tentato una motivazione del suo malessere, presente malgrado il fatto che i suoi gol siano stati decisivi. “Gli ha fatto male il paragone con Messi. Si tratta di due giocatori diversi. Dybala è aerobico, Messi è esplosivo. Paulo segna a rimorchio, segue l’azione e la conclude. Messi si muove bene anche in spazi ristretti, Paulo quando non ha spazio va in difficoltà. Il nuovo Messi? Stiamo calmi. Magari mi avrà anche odiato ma gliel’ho detto tante volte. Nel finale della stagione, quando è tornato a essere se stesso è stato bravissimo. Il suo obiettivo è fare altre grandi stagioni con la Juve e poi andare in uno degli altri grandi club europei per migliorare ancora”.
Alla Juventus non sono preoccupati. Aspettano che Dybala torni se stesso. Intanto è tornato dal Mondiale del suo scontento, dove praticamente non ha avuto spazio, e dalle vacanze in ritardo. Aveva bisogno di recuperare, energie e consapevolezze. Era appesantito, ma non c’entravano i chili, piuttosto quella sensazione di essere importante, senza riuscire a farlo capire pienamente. Aveva, ha bisogno di trovare una giusta dimensione. “Posso giocare sia con Messi che con Ronaldo” ha dichiarato lanciando una grande sfida, all’inizio dell’anno sociale 2018-19, quello in cui ha, avrà accanto, appunto, Ronaldo. Una sfida soprattutto a se stesso.

ALBERTO POLVEROSI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL FEBBRAIO 2021
Da una parte il Napoli di Sarri. Dall’altra Dybala. Da una parte il Gioco, dall’altra il Giocatore. L’ha sempre spuntata Dybala e quando le due strade si sono incrociate, pur vincendo hanno perso entrambi. Hanno vinto lo scudetto, ma e finita lì, con una deludente stagione di Dybala e col licenziamento di Sarri. Potremmo banalmente concludere che quando il Gioco e il Giocatore si cercano spesso finisce in uno scontro più che in un incontro. In realtà la nostra idea è diversa: si è trattato di un’occasione persa per entrambi. La colpa? Di uno dei due più grandi giocatori di questo Millennio, ovvero Cristiano Ronaldo. L’altro, Messi, è stato più volte evocato per un confronto con Dybala e anche in questo caso è stato commesso un errore. Non sono simili. Messi, con Ronaldo, appartiene alla schiera dei fuoriclasse, Dybala sta sotto. Però poteva, e forse ancora potrebbe, accorciare le distanze.
Nell’ultimo campionato prima di Ronaldo, il dieci bianconero aveva segnato ventidue gol. Era Dybala il centro della Juve, erano il suo pensiero, il suo genio, la sua personale qualità a dominare il campo. La Juventus di Allegri continuava a vincere un campionato dietro l’altro, ma alla casa madre avvertivano l’esigenza di tentare ancora la conquista dell’Europa, per questo è arrivato Ronaldo. Al primo anno insieme, Dybala è uscito di scena. Chi gioca accanto a Cristiano può interpretare un solo ruolo, quello del comprimario. Benzema, nell’ultimo campionato da fiancheggiatore di CR7, ha segnato cinque gol, nei due successivi ne ha fatti quarantadue e in quello attuale, dopo quattordici giornate, è già a sette. Come ha detto Zidane: «Ronaldo pensa solo al gol, Benzema non solo al gol».
CR7 si prende tutto, punizioni, rigori, occasioni, in campo cercano solo lui, anche se è marcato, anche se ha tre avversari intorno. È normale, anzi è inevitabile che sia così, ha fatto quasi 800 gol in carriera. Con Ronaldo, Dybala è passato da ventidue a cinque gol. L’anno seguente è appena risalito a undici reti. Ma il suo gioco ha perso entusiasmo, vitalità, gioia, fino ad arrivare alla crisi di questa stagione.
Dybala non può giocare con Ronaldo, o meglio, non è una coppia ideale. A tutt’e due serve un centravanti vero, perché nessuno dei due occupa l’area di rigore. Ci arrivano da lontano, con la palla al piede. Partono da due posizioni diverse, uno da sinistra, l’altro da destra, ma arrivano allo stesso punto. Dybala, Ronaldo e? Per rispondere «e un centravanti» ci vorrebbe un tecnico temerario, con una visione più che con un’idea. Ciccio Baiano è stato il suo primo allenatore a Palermo, quando Paulo arrivò piccolo e mingherlino dall’Instituto di Cordoba, Serie B argentina. Baiano è stato il centravanti del Foggia di Zeman e la “spalla” di Batistuta nella Fiorentina, è stato anche in Nazionale e a Palermo era il vice di Sannino. «Dybala è un trequartista, lo era anche quando arrivò in Sicilia e lo è oggi nella Juventus. Come tipo di giocatore ha due paragoni italiani, Benny Carbone e Roberto Baggio, giocatori di una tecnica straordinaria, pur appartenenti a categorie diverse. Dybala vede l’assist e il gol alla stessa maniera di quei due. Come livello, Paulo è a metà strada fra Carbone e Baggio, che era iscritto alla dimensione dei fuoriclasse».
Ancora oggi si parla del ruolo dell’argentino. Nella sua migliore stagione siciliana (tredici gol nel 2014-15), Beppe Iachini lo trasformò in centravanti: «All’epoca ricordo che c’era chi lo vedeva esterno col piede invertito, chi lo voleva trequartista, chi seconda punta. Io gli ho parlato e ho cominciato subito a lavorarci come attaccante, un po’ alla Montella, alla Ramon Diaz, quelle punte molto rapide e molto tecniche. Vicino all’area di rigore era fulminante e in più creava spazio per ì centrocampisti che si inserivano, come Rigoni che quell’anno segnò dieci gol. Dybala ne fece tredici e ne sbagliò tantissimi, arrivava sempre per primo sulla palla buona».
In attacco quel Palermo aveva anche Belotti, appena acquistato dall’Albinoleffe, e dietro Franco Vazquez. «Li facevo girare, a volte giocavano Dybala e Belotti, altre volte Vazquez e Dybala. Non c’era una prima e una seconda punta, Dybala e Belotti giocavano in orizzontale e talvolta li schieravo tutt’e tre con Vazquez alle spalle dei due attaccanti, pronto a inserirsi. Ma Paulo dava il meglio quando era vicino all’area avversaria, allontanarlo lo avrebbe portato a disperdere energie».
Quando è arrivato alla Juve, Allegri gli ha spiegato come avrebbe dovuto cambiare il suo gioco e la sua posizione e con Max la sua crescita è stata continua, fino all’arrivo di Ronaldo. Dybala è stato l’ispiratore di Mandzukic, di Higuain e poi di se stesso.
Nelle sue stagioni migliori, quelle dal 2016 al 2018, c’è stato un momento (anche più di un momento), in cui si era davvero avvicinato a Messi. Il giorno del “quasi contatto” era stato l’11 aprile 2017, Juventus-Barcellona 3-0, doppietta del dieci della Juve. Sembrava il passo definitivo verso una dimensione stellare. Poi qualcosa è cambiato, Dybala è uscito dal cono di luce, non ha trovato dentro di sé la forza necessaria per recuperare posizioni. Ronaldo aveva invaso il campo e lui stava dietro. E arrivato il Covid insieme ad altri infortuni e la cronaca di questa stagione parla di una crisi inattesa proprio nei mesi in cui dovrebbe rinnovare il contratto. Già, ma gli conviene restare alla Juve? Chi sostiene di sì basa una buona parte della propria tesi sull’eventuale calo di Ronaldo, ma al posto di Paulo non ci conteremmo troppo. Cristiano è una macchina fisicamente inattaccabile, ha trentacinque anni e mentre scriviamo è ai vertici della classifica dei cannonieri della Serie A insieme a un altro ragazzino che ha quattro anni più di lui, Zlatan Ibrahimovic. Non crediamo proprio che lasci prima di aver segnato un altro centinaio di gol. E allora è giusto che un giocatore come Dybala rimanga all’ombra del portoghese?
Questa è stata una stagione complicata per l’argentino. Malattia e infortuni, oltre a Ronaldo e all’irrinunciabile Morata, lo hanno spinto ancora più ai margini della Juventus. Pirlo ha fatto una cosa giusta nella partita di Marassi contro il Genoa quando, pur avendo recuperato Morata a cui era stata ridotta la squalifica, ha schierato Dybala come titolare e finalmente è arrivato il suo primo gol in campionato. Poteva ricominciare da qui la risalita del dieci, in realtà nella gara seguente, anziché insistere, facendogli sentire una fiducia che ora non avverte più, Pirlo lo ha portato di nuovo in panchina e gli ha poi concesso i sei minuti riveriani nel finale contro l’Atalanta, una partita che richiedeva un colpo di genio per trasformarla in vittoria. Un altro infortunio e un’altra panchina intera nell’ultima gara dell’anno, quella del disastro contro la Fiorentina. Non aveva nemmeno un briciolo di condizione per entrare sullo 0-1? Il 2020 della nuova stagione si è concluso con questi numeri: tredici presenze su venti partite ufficiali, solo sette da titolare, solo quattro giocate dall’inizio alla fine, per un totale di 663 minuti e la miseria di due gol.
Hanno influito in modo pesante i tanti malanni, però se nel 2021 riuscisse a recuperare una buona condizione farebbe comunque fatica a trovare spazio in presenza di Ronaldo. Agnelli ha detto che gli è stato proposto un contratto da giocatore “top 20”, ma se è così, se è fra i primi venti d’Europa, significa che Dybala è un giocatore determinante che però non gioca le partite determinanti, perché quelle vanno a Ronaldo e al centravanti del momento. Paulo va messo al centro, deve sentire il caldo intorno a sé. Come diceva Sarri, metterlo in panchina è un delitto (eppure ce lo metteva). È vero che tocca anche a lui (soprattutto a lui) pretendere di più da se stesso e chiedersi quale sia il suo vero obiettivo. Nella Seleccion ha segnato appena due gol, negli ultimi tre campionati con la Juventus finora ne ha fatti diciassette in tutto giocando settantuno partite, anche se non tutte intere. È Dybala che deve ritrovare il vero Dybala, ma la domanda finale è semplice: deve farlo nella Juve o cercarsi in un’altra squadra? Può darsi che mentre questo giornale va in stampa, il giocatore che indossa la maglia numero dieci e il club bianconero giungano a un accordo definitivo. Ma a noi resterebbe la sensazione di un campione confinato. Il calcio, più della Juve, ha bisogno del vero Dybala.

ROBERTO PERRONE, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL SETTEMBRE 2022
Quello di Paulo Dybala è stato un po’ come quello raccontato in uno dei più famosi romanzi del maestro della scuola hard boiled, la via americana al noir degli anni d’oro. Come nella storia narrata da Chandler, l’addio vero è stato pronunciato già un anno fa, anche se nessuno gli dato il giusto significato o forse se n’è addirittura accorto. La storia di Paulo Dybala è racchiusa in due immagini, lui scalzo, in maglietta e pantaloncini, nello Stadium deserto che conversa con Dusan Vlahovic nel cerchio di centrocampo. È la notte tra il 16 e il 17 maggio. Intorno deserto e silenzio, le voci della gente che ha lasciato l’impianto, smorzate dalla lontananza. La promessa/premessa di una coppia d’oro spezzata dalla strategie del club ma non spezzata dai sentimenti, amicizia e stima tra compagni esistono ancora.
Alleluja.
Un d’ore prima, segnando alla Lazio, il nuovo centravanti aveva esultato “alla Dybala”, con la celebre mano a maschera, gesto d’affetto/vicinanza per il compagno di pochi mesi.
E poi c’è l’immagine della Joya con la maglia numero ventuno della Roma, alle spalle il palazzo della Civiltà Italiana (o Colosseo quadrato), davanti la spianata dell’Eur riempita da diecimila tifosi festanti per uno degli acquisti più pirotecnici del Terzo Millennio giallorosso, questa foto sì promessa/premessa autentica di una nuova fantastica avventura per uno dei giocatori che tutti quelli che amano il calcio vogliono vedere sempre in campo.
Però c’è qualcosa di ancora più simile in questi due scatti ed è la solitudine di Paulo Dybala. Anche nel secondo, malgrado la folla festante e la notte illuminata da luci, colori e gonfia di cori e urla, Dybala, se non un uomo solo è sicuramente un calciatore solo, perché quelli come lui, con i piedi in equilibrio tra estro e fantasia, con un posto sul campo che solo loro si possono trovare, sono destinati a una estraneità nei confronti di tutti gli altri che hanno un ruolo definito. Dono dei “diversi” come dice la canzone dei Pooh. Non per scelta, per costituzione.
La storia di quest’ultimo anno di Paulo Dybala è la metafora perfetta del calcio italiano, una specie di centrifuga dove finiscono frullati idee e progetto nello spazio di un amen, dove si vive alla giornata (al massimo all’anno), dove quello che valeva ieri, in investimenti, strategie, convinzioni, opere e diventa un peccato d’omissione. E poi si ricomincia. Un lungo addio dalla Juventus di Paulo Dybala comincia dunque un anno fa, tra l’estate e il ritorno dell’autunno, quando parte la saga del rinnovo contrattuale, in scadenza a giugno 2022. A qualche commentatore di una certa età, quorum ego, ha ricordato la parabola del rinnovo di Roberto Baggio nel 1995. Anche lui un estroso. Certo più ribelle di Paulo il quale, in tutto il lungo addio, si è concesso solo un momento rivoluzionario, quando dopo aver segnato all’Udinese, regalò alla tribuna i suoi occhietti fiammeggianti. Ah, se gli fossero appuntiti, quanto male potrebbero fare. Però allo sguardo tagliente non aggiunse altro.
Baggio doveva firmare per Madama da un momento all’altro, ogni giorno era quello buono, poi firmò per il Milan, con i tifosi in rivolta (un classico a ogni cambio di casacca del Codino d’oro).
Nel caso di Paulo Dybala siamo andati avanti così fino a gennaio, quando la società ha comunicato ufficialmente che le trattative sarebbero riprese quando la classifica, e quindi le prospettive della squadra, fossero state un po’ più certe. Era un modo di prendere tempo, di spezzare lo stillicidio giornaliero di bollettini come questo (da Sky, ma su tutti gli altri media, giornali, tv, web, non erano diversi): “L’agente dell’argentino è a Torino per sistemare gli ultimi dettagli burocratici, ma l’accordo è già stato raggiunto: l’attaccante guadagnerà otto milioni più due di bonus, alcuni legali anche alle presenze. La firma prima della sosta natalizia, nuova scadenza fissata al 30 giugno 2026”.
E invece non è andata così, nessun’accordo, nessuna firma, nessuna nuova scadenza. Il destino di Dybala è segnato dal suo ingresso nella centrifuga, il nuovo algoritmo del caldo italiano prevede il sacrificio anche di chi ha i piedi fatati, perché al di là della bravura, conta solo il business, la strategia mordi e fuggi. Nessuno è incedibile, tutti sono sacrificabili sull’altare del nuovo paganesimo calcistico, dove non contano la bravura, l’età, l’usura, lo stipendio più o meno ricco, ma il programma a breve scadenza, il carpe diem, le squadre smontate e rimontate da una stagione all’altra. Dybala va per i ventinove, Di Maria per i trentacinque, ma uno va e l’altro viene al Grand Hotel la Continassa. Che cosa dobbiamo ricavarne? Dybala viene lasciato andare ufficialmente il 21 marzo, nei pressi della scadenza in cui si dovevano riprendere le trattative, quella con la squadra con la classifica un po’ più certa.
Maurizio Arrivabene il nuovo Ceo (come piace a quelli bravi), che già in più di una occasione aveva dato spigolose (eufemismo) sulla Joya, in sintonia con il principio secondo cui tutti possono finire nella centrifuga, sentenzia: “L’acquisto di Vlahovic ha cambiato l’assetto tattico e il progetto. C’è stato un incontro chiaro e rispettoso con Dybala, Un’offerta al ribasso non sarebbe stata rispettosa nei suoi confronti”.
Il 16 maggio Paulo è commosso dalla manifestazione d’affetto dei tifosi, anche se la cerimonia degli addii è sbilanciata nei confronti di Giorgio Chiellini. L’anzianità di servizio del numero tre è indiscutibile, però, insomma si poneva alzare un po’di più la percentuale di Paulo. Giorgione gli passa anche la fascia di capitano e il popolo dimostra tutta la sua partecipazione al lutto perché Dybala non sarà più con la Juventus alla fine dell’anno Sociale 2021-22.
Al lungo addio di Paulo alla Juventus, che termina quel giorno, si sovrappone il lungo addio all’Inter che è già cominciato da tempo. Anche qua, “il giorno è oggi” e i titoli possibilisti, se non “certisti” (“Dybala primo sì”) si sprecano, addirittura si arriva a mettere in tabellone una sfida con il Milan per i servizi dell’ex juventino (“Derby alla Joya”). Quanto è stato vicino all’Inter, veramente? Pochissimo, forse niente, forse il vecchio skipper, navigatore di ogni mare, Beppe Marotta agita l’ingaggio che non si può permettere, soprattutto dopo averne imbarcato nuovamente Romelu Lukaku e senza avere ancora ceduto attaccanti in esubero, per destabilizzane la Juventus e i suoi tifosi che non vogliono certo vedere Paulino loro, con “quella maglia”.
Ecco, la faccenda del figliol prodigo Lukaku, tornato a casa dopo aver dissipato la sua dote di prestigio e successo nella tentacolare Londra (la dote in denaro non sarebbe riuscito a farla evaporare neanche avendo a disposizione tre o quattro vite), racconta un altro dettaglio dello strano destino di Dybala. Ammesso che ci sia stata veramente la possibilità di rivederlo in azione a Milano, con l’investimento su Lukaku, la vita calcistica di Dybala si ritrova per la seconda volta alle prese con la stessa situazione. Marotta non ha pronunciato la frase di Arrivabene cambiando il nome di Vlahovic “l’acquisto di Lukaku ha cambiato l’assetto tattico e il progetto”. Ma se c’è veramente una storia in atto, cosa che non crediamo, la fine del più breve addio interista si verifica quel giorno.
Chi è Dybala a questo punto? Non si sa, ma è come la “bella di Torriglia, tutti la vogliono e nessuno se la piglia”. Tace il calcio estero, dopo Inter e Milan saltano fuori il Napoli e la Roma. E c’è qualcosa di vero, infine. OK, la Roma è il nome giusto per il nuovo domicilio di Paulo Dybala.
E qui comincia una nuova storia, tutta da scrivere. Perché Paulo Dybala in questi ultimi anni è stato gioia ma anche dolore, il suo per i molti fisici e quello dei tifosi che l’hanno visto in campo a chiazze. Sia lode alla Roma a trazione yankee-portoghese che ha avuto il coraggio di investire su un grande giocatore, di affidarsi a chi potrebbe farle fare un salto di qualità. Però, a proposito del calcio italiano e della sua linea di condotta, siamo ancora al grande riciclo, al tentativo di rivitalizzare uno straordinario campione. Tentativo benemerito sia chiaro, perché noi vogliamo Paulo Dybala splendido, splendente, in campo, con qualsiasi maglia. Siamo tifosi del bello, dei gioielli, che è quello che significa “gioia”. Siamo stati contro il suo addio, fin dalla prima ora, felici che si sia tramutato in “benvenuto”.

Il suo saluto al popolo bianconero: «Sono arrivato qui a ventuno anni, come il numero che allora portavo sulle spalle. In questi anni sono cresciuto come calciatore e come uomo. Sono stati anni bellissimi, pieni di gioia, lavoro, gol e vittorie. Non sempre è andato come speravo o come meritavamo, ma ci siamo sempre rialzati. Grazie a questa squadra ho tagliato traguardi davvero importanti, ho trovato compagni speciali. Mi sono sempre sentito amato dai tifosi, dalla gente, dai bambini. E questo non lo dimenticherò mai. Con il tempo sono cresciute le responsabilità e ho sempre cercato di essere all’altezza: siamo stati insieme sette anni, sette anni di momenti bellissimi e anche qualcuno difficile. Le nostre strade oggi si dividono, ma vi porterò sempre nel mio cuore, perché mi avete tanto amore e tanto rispetto. Io spero di avervi dato un po’ di gioia. Grazie a tutti».

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