domenica 5 settembre 2021

Stefano FRANCESCON

 

La data segna 10 marzo 1956 – scrive Andrea Aloi sul “Guerin Sportivo” dell’11-17 aprile 2001 –. Apri il vecchio giornale e leggi che la difesa sampdoriana “nulla ha potuto fare contro la dinamite esplodente dal piede dell’esordiente mezzala destra juventina Stefano Francescon, un giovanotto torinese di 22 anni”. Uno dei “puppanti”, il decimo pischello lanciato nella mischia del campionato ‘55-56 dall’allenatore Sandro Puppo, «l’unico che ha osato buttare dentro tutti quei giovani, una persona gentile, magnifica, lo chiamavamo “dottore”, voleva così».
Esordio e gol, sette partite con cinque pareggi e due sconfitte in una stagione bruttina di purgatorio per la Juve. La Serie A accarezzata, una breve parentesi dolce fra tanti anni di Biellese. Stefano è un pensionato vispuccio di sessantasette anni, se ne sta a San Pietro, una frazione di Coassolo Torinese, nelle valli di Lanzo. Sua moglie Adriana, per celia e complicità di affetti, sostiene che quando vien la notte “dinamite Francescon” va al night: personalmente propendiamo per l’ipotesi bar con gli amici nelle ore serali e, visto che vive in mezzo al verde, per il cheek to cheek con le rose nelle ore diurne. Pronta conferma: «Smesso di giocare a trent`anni per un guaio al ginocchio, smesso di lavorare in panetteria a Torino nell’82, sono venuto qua e mi sono abituato. Passo le giornate in giardino, semino e poto».
Dai cross alle michette (meglio “biove”, visto che siamo in Piemonte), una storia normale per l’Italia callosa di molti lustri fa, pacifica per Stefano: «Sono il figlio di un panettiere, eravamo quattro maschi e tre femmine. Mio nonno era di Asti e il cognome veneto viene da un bisnonno esiliato politico dall’Austria nella prima metà dell’Ottocento, pare. Lavoravamo tutti col papà, io fin da piccolo ho imparato quel mestiere e ho pensato bene di rifarlo a carriera finita. C’erano i fratelli che insistevano: ma devi allenare, mica sei abituato a stare alzato di notte, non resisti. Però allenare non era nel mio carattere e l’unica cosa che sapevo fare era il panettiere. Impastare, infornare, dall’una e mezza di notte fino a mezzogiorno. L’ho fatto per i figli, ne ho due, Roberto e Sabrina, sono grandi. Ne parlavo con Viola qualche tempo fa: caro Giuanin, dovevamo nascere vent’anni dopo».
Giovanni Viola, classe ‘26, il portiere: «Aveva aperto un negozio, una merceria a Torino. Eh... lui ha i suoi anni». Stefano è del ‘34. Gli anziani li pesano quei numeri, fra le mani, nella testa, e bisogna avere i capelli bianchi per capire cosa vuol dire. «Nel ‘56 prendevo centomila lire al mese dalla Juve. Era venuto Gianni Agnelli negli spogliatoi e aveva promesso: se vincete, altre centomila di premio. Accidenti, mai vinto una volta».
A metà degli anni Cinquanta un Pivatelli valeva 60 milioni, Boniperti 45, la quotazione dello svedese Jeppson era sui 55 milioni, la metà del picco registrato nel ‘52, quando il Napoli di Lauro ne aveva scuciti 105 per prenderlo all’Atalanta, primo record “scandaloso” del calciomercato moderno. Nel ‘55-56 la Juventus dei danesi John e Karl Hansen è tramontata, il primo gioca a Catania in B, il secondo ha salutato il nostro campionato. Resiste all’ala sinistra l’altro danese delle meraviglie, Karl Praest, ma lo scatto è quello dei trentatré anni. Accanto a Viola e Nay, al roccioso difensore Corradi, a Emoli, Garzena, Boniperti, giocano i “puppanti”: fra i tanti, Turchi, Bartolini, Francescon e due stranieri improbabili, il brasiliano Colella e l’argentino Vairo, gente da nono posto al fianco di Genoa, Torino, Spal, Vicenza e ringraziare.
Dal ‘51-52 niente scudo sulla maglia, Boniperti è sulle spine e confessa a mezza voce propositi di abbandono. «La squadra c’era abbastanza, insomma... Sono andato alla Juventus nel momento sbagliato» inquadra Francescon: il ‘55-56, prima vittoria alla nona giornata, un record negativo, la squadra che minaccia uno sciopero per non aver ricevuto nei tempi previsti il premio pattuito. Il ‘56-57 è un altro nono posto, la Juve teme addirittura la retrocessione. In totale, cinque anni di quaresima e gli ultimi tre davvero penosi, un’eternità per gli appetiti vivaci della squadra in oggetto, che puntualmente rinascerà nel ‘57-58. Da Colella e Vairo a Charles e Sivori: Gigi Peronace, naso finissimo, raccomanda il gallese, Cesarini indica il divino izquierdo. Un’altra storia.
Nel “momento sbagliato” di Stefano qualcosa luccica, la pellicola della memoria non balla: «Con la Samp finì 2-2, io tirai una gran botta, Farina ci mise la mano ed Emoli segnò su rigore. Gol di Meroi per loro e tocca a me, tiro fortissimo, Pin che si tuffa e gli si piegano le palme. Pareggiò allo scadere Farina».
Dieci marzo, un sabato, Comunale di Torino semideserto perché era un giorno quasi del tutto lavorativo e il weekend non abitava nei dizionari. «Era una delle prime partite che trasmettevano in televisione e mio papà andò a comprarne una grande come un cinematografo, da 34-35 pollici. Mi piacerebbe tanto poter avere il filmato... Non mi aspettavo di giocare, ero solo aggregato ai titolari. Due giorni prima ero entrato nella caserma di Bra, nel Cuneese, per il servizio militare, non mi avevano nemmeno consegnato la divisa e vedo arrivare Boniperti e Combi (sottolineato: Combi, ndr). Mi dicono: “Guarda che devi giocare”. Fortuna che il maggiore era della Juve, mi convocò subito: “Corri almeno a tagliarti i capelli e poi vai”. La sera rientrai in caserma».
E poche storie: «Se l’immagina, puntare i piedi, a quell’epoca, andare in società a chiedere di restare o di andare almeno in B. Ci si doveva accontentare e niente mugugni. Allenamenti tutti i giorni, da martedì a venerdì, Puppo era uno che ti faceva lavorare ma anche divertire, ci sono quelli che ti ammazzano e basta. Molta palla, salti per colpire di testa, nessuna palestra o macchinari, esclusivamente ginnastica, scatti, giri del campo per il fiato, mai fatto i pesi. Di ricostituenti ho sentito parlare soltanto adesso. Passato alla Juve, mi sono sposato».
La società, diciamo così, gradiva nel veder sistemati e tranquilli. Una tavola delle leggi (lo avrebbero chiamato “stile”) che non ammetteva deroghe: nel ‘51 all’inglese Carver era bastata un’intervista in cui si lamentava dei dirigenti per salutare la panchina. Il silenzio, la disciplina pagano e l’erba curata degli stadi grossi sembra persino più soffice a chi viene dal dribbling fra buche e sassi. Nella Torino del dopoguerra i rettangoli verdi e senza gobbe si contano sulla punta delle dita. Per Francescon già la terra battuta del campo Rebaudengo in Barriera di Milano, prima periferia popolare, è «una conquista, favoloso giocarci da bambini. Ho cominciato lì, un oratorio. Avrò avuto tredici-quattordici anni e sono andato nel Volpiano, quarta categoria, e a quindici a Biella, in provincia di Vercelli. Ero il pupillo dell’ingegner Fila, presidente della squadra e pure dirigente della Juve. Io che ero un gagnetto (in lingua: praticamente un moccioso; il “burdel” dei romagnoli, ndr) giocai subito in prima squadra, da mezz’ala destra, la Biellese era nella C a girone unico. Nel ‘50, l’anno successivo a Superga, mi spedirono in prestito al Torino, nella Primavera. Poi di nuovo a Biella: ci son stato dieci stagioni con l’intervallo dell’anno con la Juve. Nel ‘61 andai alla Lucchese, appena promossa in B, avevo ventisette anni. Senza vanti: avrei dovuto farlo prima ‘sto saltino, ma a Biella non mi lasciavano andar via. A Lucca c’era Zavatti, un altro degli allenatori factotum dell’epoca, preparazione atletica, tecnica, tattica, faceva tutto lui. Ho giocato con Bassetto, il nazionale».
Ovvero l’interno Adriano Bassetto, ex Atalanta, sceso in Toscana a trentasei anni per bruciare l’ultima legna: se n’è andato nel ‘99. «La prima stagione a Lucca ci salvammo, la seconda fu una girandola di allenatori, disastroso. Venne perfino Amadei, lui, il fornaretto, un altro figlio di panettiere. La società aveva debiti, non mi avevano pagato diversi mesi di stipendio. Allora decisi: “Io vi lascio gli stipendi e voi mi lasciate libero, col mio cartellino”. A bilancio metto due anni umanamente bellissimi, i migliori, per l’amicizia coi compagni, per l’atmosfera di grande famiglia, dal segretario al presidente. Sono tornato in Piemonte, al Chieri, vicino a Torino, quarta categoria. Come allenatore avevamo il mio ex compagno di squadra Viola, lo mandarono via e subentrò Parola. Il guaio è che a Lucca mi ero fatto male, i medici non capivano bene se era o non era menisco. Bastava mezzo passo falso e andavo giù, pensi che il ginocchio mi s’inceppa ancora. Avevo trent’anni, per quei tempi calcisticamente vecchio: non ti guardavano manco in faccia. Attento, non che si corresse come oggi a una velocità enorme, si stava in campo con la testa ed era più la palla che viaggiava. Ho giocato contro Gren già molto anziano, quando era al Genoa: un grande, che intelligenza».
Un calcio e i ragazzi di quasi mezzo secolo fa. Atleti con gli occhi nel sole, nel paese che recuperava energia, lavoro, orizzonti. Come sempre, il tempo ha vinto la sua partita. «Alla Juve non fu difficile ambientarsi. Eravamo timidi noi giovani, s’immagini, vicino a quei campioni. Ma se potevano ti aiutavano. È andata. E mi è rimasto il giardino. Il calcio continuo a vederlo, mi piace, altro che. Seguo le mie tre società, Juventus, Lucchese e Biellese. Della Juve l’unico che ho frequentato un po’ è stato Viola, lui è di San Benigno Canavese, vicino a Ivrea. Gli altri spariti, dove non lo so. Se lo ricorda Corradi, il terzino? E Montico? Mi hanno detto che era ricoverato, sa qualcosa di Montico?».

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