Ci sono annate certamente non particolarmente felici ma che portano anche segnali incoraggianti. Se prendiamo come esempio la stagione con Delneri in panchina, balza subito all’occhio il deludentissimo settimo posto. Ma uno sguardo più attento può cogliere alcuni aspetti positivi. Intanto, si sono create le basi della Juve che vincerà negli anni a venire (con gli acquisti di Pepe, Bonucci, Barzagli, Matri, Quagliarella, Storari) e si è regalato la possibilità a qualche giovinotto di iniziare la propria carriera professionistica: Ekdal, Sørensen, Liviero, Giannetti, Cammilleri, Boniperti, Libertazzi, Buchel.
Tutti faranno più o meno bene lontano da Torino, così come Manuel Giandonato (che, in verità, aveva esordito l’anno precedente a Livorno) che, in quella stagione, scenderà in campo una manciata di volte (in Europa League contro Sturm Graz e Salisburgo e in campionato contro Parma e Chievo da titolare) prima di essere trasferito al Lecce.
GIANLUCA DI MARZIO.COM DEL 2 NOVEMBRE 2018
Una pennellata o un colpo di scalpello. Un centrocampista e un artista non sono così diversi. A volte dipingi, altre scolpisci. Il giovane Michelangelo, futuro top player di pittura e scultura, alla fine del ‘400 prese una tavola e realizzò un quadro. Lo chiamarono la “Madonna di Manchester”, perché lì fu esposto per la prima volta. Eterea, spiazzante e incompiuta. Non aveva ancora compiuto vent’anni.
A Old Trafford, Manuel Giandonato entrò con la sfrontatezza dei suoi 19 anni. E a dieci minuti dalla fine, disegnò una parabola perfetta su punizione. Inattesa e imparabile. Era il maggio del 2011. Del Piero lo applaudì, Ferguson pure. La Juventus vinse 2-1 grazie a quella prodezza. «Sentii il rumore del palo e poi il boato del pubblico. Un applauso spontaneo dello stadio. Era solo un’amichevole per l’addio al calcio di Neville, ma fu pazzesco. Venne anche Beckham a stringermi la mano» racconta oggi.
Artista o centrocampista. Bel dilemma, a guardare i disegni di Manuel. «Lo faccio da sempre, è la mia passione. Vado a mano libera, prendendo spunto soprattutto dalla pop art. Adoro Andy Warhol. Magari dovesse andare male col calcio, mi metto a fare l’artista di strada...».
In attesa che un Giandonato sia quotato come un Banksy, il pallone rimane ancora al centro della sua vita. Oggi il ragazzo di Chieti gioca nella Fermana. Domenica scorsa ha segnato il rigore decisivo per espugnare Pordenone. Vittoria e secondo posto, proprio dietro i neroverdi. «Una battaglia, ma siamo stati tosti. E alla fine abbiamo anche sistemato lo spogliatoio, pulendo tutto. Una società seria si vede anche da queste cose». Applausi.
Certo che da quella notte a Manchester ne è passato di tempo: sette anni e dodici maglie diverse. Una valigia troppe volte in mano e qualche treno perso «perché a volte ho sbagliato scelta e altre chi poteva aiutarmi non l’ha fatto».
Passo indietro. Chi era prima di Old Trafford? Una speranza nella Juve che stava rinascendo, con esordio nel febbraio del 2010 in una Livorno che sarebbe poi diventata tappa cruciale. «Zaccheroni era appena subentrato a Ciro Ferrara. Mi portò in panchina un po’ per caso. Felipe Melo si fece espellere. Non mi stavo neanche scaldando. Ricordo che il mister si girò verso la panchina e disse al vice “chiama Giandomenico”. Toccava a me, anche col nome storpiato. Entrai al posto di Del Piero. Io manco me ne accorsi, me lo disse mio padre la sera. Non feci danni».
Fu la sola presenza di quella stagione. L’anno dopo, con Delneri in panchina, ne vennero altre. Compresa la prima da titolare, a Verona contro il Chievo. Iniziata bene, ma finita con un rosso. «Feci un fallo per fermare un contropiede. Dovevo farlo, altrimenti sarebbero andati in porta. Almeno fu memorabile. Il mio compagno delle giovanili Belcastro – oggi all’Imolese – fu profetico. Prima della partita mi disse che per essere ricordati alla prima serve un gol o un’espulsione. Purtroppo non segnai». Un infortunio al ginocchio purtroppo bloccò la sua stagione.
Dopo l’ebbrezza di Old Trafford, in estate arrivò Antonio Conte. Manuel iniziò la preparazione con il gruppo che iniziava la risalita verso la gloria. «Si capiva che stava nascendo qualcosa di grande. A fine mercato, ero in bilico fra rimanere o andare in prestito. Scelsi Lecce. Forse fu una decisione prematura ma sfido chiunque a rifiutare una serie A a vent’anni».
Otto presenze, una retrocessione e via al giro d’Italia. Tante tappe in salita e qualche foratura di troppo. «Feci un grave errore ad andare nella Juve Stabia. Braglia mi distrusse psicologicamente, fu il mio anno peggiore. A Salerno vincemmo il campionato ma Menichini, subentrato a Somma, mi relegò in fondo alla panchina. Era un problema di ruolo e di età: difficilmente si fidavano a mettere un giovane davanti alla difesa, in una posizione cruciale. Però quella era la mia posizione naturale e lì gioco ancora».
Qualcuno iniziò a capirlo. «A Catanzaro iniziò la mia carriera, con Sanderra allenatore». Poi vennero Padova e Lanciano, ma soprattutto nell’estate del 2016 arrivò il Livorno. «Un’esperienza che mi ha fatto crescere sotto ogni punto di vista, con una tifoseria che mi ha aperto il cuore e tante divergenze con la società».
Un’altalena di sentimenti. L’inizio da protagonista, la rottura del crociato, il desiderio di forzare i tempi, il rientro nei playoff con la Reggiana. «La società voleva che andassi via, ma l’unica proposta era da una serie B portoghese. E se fosse andata male? Chi mi riprendeva in Italia? Ho scelto di restare».
Nuovo anno, nuovo inizio. Tutto bene fino a dicembre. Squadra in testa, poi la rottura con la dirigenza. «Volevano che andassi alla Lucchese. Rifiutai e mi misero fuori rosa». Giandonato assiste inerme alle sconfitte dei suoi compagni. Poi il reintegro a furor di popolo, con l’apoteosi nella partita più importante. «Maglia da titolare contro il Pisa. Il Siena ci aveva appena scavalcato in classifica. Vincemmo 2-0. Metà promozione la guadagnammo quel giorno». L’altra metà arrivò in casa con la Carrarese, ma «il giorno che ricorderò sempre pensando a Livorno è il ritorno allo stadio dopo la sconfitta nei playoff con la Reggiana. I tifosi ci applaudirono, capendo che avevamo dato tutto. A Livorno sono così, sanno riconoscere il cuore».
Un cuore che non è bastato per guadagnarsi la conferma in B. «Ero svincolato, a lungo ho sperato nel rinvio del campionato. Poi è arrivata la chiamata della Fermana. Pochi chilometri da San Benedetto, dove vivo con la mia compagna Vanessa – conduttrice di un programma televisivo sull’Ascoli – e nostro figlio Cristian. Sentivo che era la scelta giusta. I fatti ora lo dimostrano».
Lo dicono anche i numeri: 17 punti in 9 giornate e secondo posto solitario nel girone B. Una lettera che inizia a diventare un pensiero stupendo. «Siamo lì, ma l’obiettivo è la salvezza. Siamo uno spogliatoio di amici con un allenatore – Flavio Destro – capace di semplificarci al massimo i compiti in campo. Una brava persona, cosa che non guasta mai».
Una guida e un esempio, soprattutto per Manuel che a 27 anni inizia a buttare un occhio sul futuro. «Fare l’allenatore non mi dispiacerebbe per niente». E il pittore? «C’è tempo anche per quello. A proposito, sto studiando i ritratti».
Se adesso facesse il suo, avrebbe un sorriso vero. Molto più di quella smorfia della Gioconda. Un’espressione più simile alla Madonna di Manchester. Finalmente compiuta.
Una pennellata o un colpo di scalpello. Un centrocampista e un artista non sono così diversi. A volte dipingi, altre scolpisci. Il giovane Michelangelo, futuro top player di pittura e scultura, alla fine del ‘400 prese una tavola e realizzò un quadro. Lo chiamarono la “Madonna di Manchester”, perché lì fu esposto per la prima volta. Eterea, spiazzante e incompiuta. Non aveva ancora compiuto vent’anni.
A Old Trafford, Manuel Giandonato entrò con la sfrontatezza dei suoi 19 anni. E a dieci minuti dalla fine, disegnò una parabola perfetta su punizione. Inattesa e imparabile. Era il maggio del 2011. Del Piero lo applaudì, Ferguson pure. La Juventus vinse 2-1 grazie a quella prodezza. «Sentii il rumore del palo e poi il boato del pubblico. Un applauso spontaneo dello stadio. Era solo un’amichevole per l’addio al calcio di Neville, ma fu pazzesco. Venne anche Beckham a stringermi la mano» racconta oggi.
Artista o centrocampista. Bel dilemma, a guardare i disegni di Manuel. «Lo faccio da sempre, è la mia passione. Vado a mano libera, prendendo spunto soprattutto dalla pop art. Adoro Andy Warhol. Magari dovesse andare male col calcio, mi metto a fare l’artista di strada...».
In attesa che un Giandonato sia quotato come un Banksy, il pallone rimane ancora al centro della sua vita. Oggi il ragazzo di Chieti gioca nella Fermana. Domenica scorsa ha segnato il rigore decisivo per espugnare Pordenone. Vittoria e secondo posto, proprio dietro i neroverdi. «Una battaglia, ma siamo stati tosti. E alla fine abbiamo anche sistemato lo spogliatoio, pulendo tutto. Una società seria si vede anche da queste cose». Applausi.
Certo che da quella notte a Manchester ne è passato di tempo: sette anni e dodici maglie diverse. Una valigia troppe volte in mano e qualche treno perso «perché a volte ho sbagliato scelta e altre chi poteva aiutarmi non l’ha fatto».
Passo indietro. Chi era prima di Old Trafford? Una speranza nella Juve che stava rinascendo, con esordio nel febbraio del 2010 in una Livorno che sarebbe poi diventata tappa cruciale. «Zaccheroni era appena subentrato a Ciro Ferrara. Mi portò in panchina un po’ per caso. Felipe Melo si fece espellere. Non mi stavo neanche scaldando. Ricordo che il mister si girò verso la panchina e disse al vice “chiama Giandomenico”. Toccava a me, anche col nome storpiato. Entrai al posto di Del Piero. Io manco me ne accorsi, me lo disse mio padre la sera. Non feci danni».
Fu la sola presenza di quella stagione. L’anno dopo, con Delneri in panchina, ne vennero altre. Compresa la prima da titolare, a Verona contro il Chievo. Iniziata bene, ma finita con un rosso. «Feci un fallo per fermare un contropiede. Dovevo farlo, altrimenti sarebbero andati in porta. Almeno fu memorabile. Il mio compagno delle giovanili Belcastro – oggi all’Imolese – fu profetico. Prima della partita mi disse che per essere ricordati alla prima serve un gol o un’espulsione. Purtroppo non segnai». Un infortunio al ginocchio purtroppo bloccò la sua stagione.
Dopo l’ebbrezza di Old Trafford, in estate arrivò Antonio Conte. Manuel iniziò la preparazione con il gruppo che iniziava la risalita verso la gloria. «Si capiva che stava nascendo qualcosa di grande. A fine mercato, ero in bilico fra rimanere o andare in prestito. Scelsi Lecce. Forse fu una decisione prematura ma sfido chiunque a rifiutare una serie A a vent’anni».
Otto presenze, una retrocessione e via al giro d’Italia. Tante tappe in salita e qualche foratura di troppo. «Feci un grave errore ad andare nella Juve Stabia. Braglia mi distrusse psicologicamente, fu il mio anno peggiore. A Salerno vincemmo il campionato ma Menichini, subentrato a Somma, mi relegò in fondo alla panchina. Era un problema di ruolo e di età: difficilmente si fidavano a mettere un giovane davanti alla difesa, in una posizione cruciale. Però quella era la mia posizione naturale e lì gioco ancora».
Qualcuno iniziò a capirlo. «A Catanzaro iniziò la mia carriera, con Sanderra allenatore». Poi vennero Padova e Lanciano, ma soprattutto nell’estate del 2016 arrivò il Livorno. «Un’esperienza che mi ha fatto crescere sotto ogni punto di vista, con una tifoseria che mi ha aperto il cuore e tante divergenze con la società».
Un’altalena di sentimenti. L’inizio da protagonista, la rottura del crociato, il desiderio di forzare i tempi, il rientro nei playoff con la Reggiana. «La società voleva che andassi via, ma l’unica proposta era da una serie B portoghese. E se fosse andata male? Chi mi riprendeva in Italia? Ho scelto di restare».
Nuovo anno, nuovo inizio. Tutto bene fino a dicembre. Squadra in testa, poi la rottura con la dirigenza. «Volevano che andassi alla Lucchese. Rifiutai e mi misero fuori rosa». Giandonato assiste inerme alle sconfitte dei suoi compagni. Poi il reintegro a furor di popolo, con l’apoteosi nella partita più importante. «Maglia da titolare contro il Pisa. Il Siena ci aveva appena scavalcato in classifica. Vincemmo 2-0. Metà promozione la guadagnammo quel giorno». L’altra metà arrivò in casa con la Carrarese, ma «il giorno che ricorderò sempre pensando a Livorno è il ritorno allo stadio dopo la sconfitta nei playoff con la Reggiana. I tifosi ci applaudirono, capendo che avevamo dato tutto. A Livorno sono così, sanno riconoscere il cuore».
Un cuore che non è bastato per guadagnarsi la conferma in B. «Ero svincolato, a lungo ho sperato nel rinvio del campionato. Poi è arrivata la chiamata della Fermana. Pochi chilometri da San Benedetto, dove vivo con la mia compagna Vanessa – conduttrice di un programma televisivo sull’Ascoli – e nostro figlio Cristian. Sentivo che era la scelta giusta. I fatti ora lo dimostrano».
Lo dicono anche i numeri: 17 punti in 9 giornate e secondo posto solitario nel girone B. Una lettera che inizia a diventare un pensiero stupendo. «Siamo lì, ma l’obiettivo è la salvezza. Siamo uno spogliatoio di amici con un allenatore – Flavio Destro – capace di semplificarci al massimo i compiti in campo. Una brava persona, cosa che non guasta mai».
Una guida e un esempio, soprattutto per Manuel che a 27 anni inizia a buttare un occhio sul futuro. «Fare l’allenatore non mi dispiacerebbe per niente». E il pittore? «C’è tempo anche per quello. A proposito, sto studiando i ritratti».
Se adesso facesse il suo, avrebbe un sorriso vero. Molto più di quella smorfia della Gioconda. Un’espressione più simile alla Madonna di Manchester. Finalmente compiuta.
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