mercoledì 19 settembre 2012

ANCHE I “MILLIONARIOS” PIANGONO

MATTEO DOTTO, “GS” SETTEMBRE 2011:
La retrocessione del River Plate, il club che ha vinto di più in Argentina, è stato un dramma sportivo ed umano che ha macchiato una leggenda mondiale. Vi raccontiamo come è potuto succedere. E da dove si riparte adesso.

Da dramma sportivo a caso politico. La retrocessione del River Plate e soprattutto la ristrutturazione dei campionati a partire dalla stagione 2012/13 (su pressione governativa per questioni di vile pecunia, alias diritti TV) hanno tenuto banco nell’inverno australe quanto e più del tracollo dell’Argentina in Coppa América e del cambio sulla panchina della “Selección” (Sabella al posto di Batista).
Con una clamorosa retromarcia, la Federcalcio argentina guidata dallo storico presidente Mio Grondona, in carica dal 1979, si è rimangiata lo “scempio”, come è stato ribattezzato da stampa e tifosi. La gabola che avrebbe permesso al River di tornare in una massima serie ampliata dalla prossima stagione a 38-40 squadre (a spanne, la somma di A e B attuali) e che avrebbe salvato da possibili patemi da retrocessione altre grandi come Boca, Racing e San Lorenzo, che hanno cominciato questa stagione, partita il 7 agosto, con una media punti (quella che ha sempre decretato le discese in B) tra le più basse.
L’esordio dei “Millonarios” nel torneo cadetto argentino (martedì 16 agosto contro il Chacarita) entra così nella storia del River alla pari di quella nefasta domenica 26 giugno che aveva segnato (con il 2-2 interno contro il Belgrano di Cordoba) l’onta della prima discesa agli inferi della più titolata squadra d’Argentina (in quanto ad allori nazionali: 33).
Per la rinascita (e per centrare una promozione a questo punto non più acquisita nei fatti) Daniel Passarella è andato sul sicuro: sarà Matias Almeyda ad allenare il River nell’unica stagione in B. Quell’Almeyda che in Italia si ricorda per tante stagioni con le maglie di Lazio (scudetto 2000), Parma, Inter e Brescia, quell’Almeyda che da calciatore “minacciava” di smettere a ventotto anni (in realtà, dopo una lunga pausa di riflessione attorno ai trentuno/trentadue, ha finito di giocare nel giugno scorso a trentotto anni suonati) e che adesso si ritrova a fare un mestiere che probabilmente mai avrebbe immaginato. La scelta del presidentissimo Passarella è piaciuta ai tifosi, fiduciosi che Almeyda possa trasmettere ai giocatori quella grinta che lo contraddistingueva in campo.
Un River “con huevos”, con le uova, cioè con le palle: è quello che chiede la “Hinchada millonaria”. Quasi andando contro la storia, perché il tifoso del River è sempre stato di palato fine, apprezzava più il gesto tecnico che il tackle, figlio di una tradizione che ha visto il Club Atlético River Plate primeggiare in Argentina, in Sudamerica e nel mondo (1986, unico successo intercontinentale) grazie al bel gioco.
La sublimazione del River bello e vincente resta “La Maquina”, quel terrificante quintetto offensivo inventato in panchina da Renato Cesarini; argentino nato a Senigallia, nelle Marche, ma cresciuto a Buenos Aires. Cesarini da noi è conosciuto per i suoi goal a ridosso del 90° minuto e per essere stato protagonista nella Juve dei 5 scudetti consecutivi (dal 1931 al 1935), in Argentina è stato invece anche allenatore di successo e non a caso creatore di quell’attacco atomico in grado di segnare 302 goal in 137 partite. Munoz, Moreno, Labruna, Pedernera e Loustau: ecco la vera macchina da goal in grado di regalare al River 3 scudetti e 2 secondi posti dal 1941 al 1945.
E di ispirare uno dei primi cori da stadio che non necessita neppure di traduzione: “Sale el sol, sale la luna, centro de Munoz, goal de Labruna”. Già, Angelito Labruna detto El Feo, il brutto: 515 gare di campionato con il River griffate da 292 goal. Un fenomeno. Come Adolfo Pedernera, detto El Maestro, uno dei calciatori più completi della storia. O come José Manuel Moreno detto El Charro, che in Argentina i vecchi appassionati di calcio continuano a considerare di un altro pianeta, superiore addirittura a Maradona ed a Di Stéfano.
Alfredo Di Stefano, la Saeta Rubia, la freccia bionda” anche lui un mostro del futbol targato River, dove debutta a diciannove anni prima di emigrare (in Colombia e poi in Europa) e vincere di tutto e di più con il Real Madrid. Per lui cifre mostruose: 22 titoli vinti da calciatore (di cui 5 Coppe dei Campioni con il Real), 1.121 gare ufficiali giocate con 844 goal segnati. Era in campo, il grande Alfredo, nell’amichevole di beneficenza giocata dal River a Torino il 26 maggio del 1949 in omaggio allo squadrone caduto a Superga: c’era e segnò anche un goal nel 2-2 finale (reti nell’ordine di Nyers, Labruna, Di Stefano ed Annovazzi).
È negli anni Cinquanta che il River s’impone definitivamente come la miglior squadra argentina: 5 titoli dal 1952 al 1957 sotto la regia in campo di un Labruna (per dirla con un luogo comune) anziano ma sempre valido: arretra un po’ il suo raggio d’azione ed è il leader di quello squadrone insieme con il portiere Amadeo Carrizo e Nestor Pipo Rossi, il primo di una lunga serie di numeri 5 tecnici e geometrici, registi dai piedi buoni e dal cervello fine. In attacco, quasi al termine di quel fantastico ciclo, esplode un mancino talentuoso e litigioso che gioca con i calzettoni abbassati e fa impazzire di rabbia i difensori avversari e di gioia i propri tifosi: si chiama Enrique Omar Sivori, per tutti in Italia diventerà Omar (un po’ come chiamare Armando Maradona: il grande Diego). EI Cabezón, protagonista anche con la camiseta della “Selección” argentina nella Coppa América del 1957, viene venduto per 10 milioni di Pesos: utili e necessari a costruire la parte di tribuna mancante dello stadio Monumental, inaugurato nel 1938 ma completato, proprio grazie alla cessione di Sivori, vent’anni dopo.
Con Sivori, in attacco, altri due calciatori emigrati poi in Italia: l’uruguaiano Walter Gomez, dal rendimento discreto ma non eccezionale nel Palermo, e Santiago Vernazza, che lascerà buoni ricordi a Palermo, Milano (rossonera) e Vicenza.
Dal 1957 al 1975 c’è un buco nero di diciotto anni senza titoli: prima della retrocessione era considerato il periodo più buio nella storia del River. Che pure in tempi di vacche magre continua a sfornare talenti: uno dei più amati è Norberto Alonso, detto Beto, un trequartista che debutta a soli diciotto anni nel 1971, partecipa senza troppa gloria personale (3 presenze, ma soltanto una da titolare) ai Mondiali del 1978 vinti in casa tra mille sospetti ma riesce, a trentatre primavere, a conquistare il Mondiale per club con il suo River che batte a Tokyo la Steaua Bucarest. Ed a chiudere così, con l’assist per il goal vincente di Alzamendi, una carriera magari poco pubblicizzata in Europa, ma considerata stratosferica in Argentina.
Alonso, con Daniel Passarella, il portiere Fillol, il centravanti Luque ed un giovanissimo Ramon Diaz, rappresenta l’ossatura del River tornato vincente e travolgente tra la seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. In linea con una storia fatta di grandi campioni dai piedi più che buoni anche l’intensa doppia esperienza di Enzo Francescoli con la maglia del “Millonario”: per sei anni, dal 1983 al 1986 e dal 1994 al 1997, il Principe dispensa calcio regale e trascina il River alla conquista della seconda Libertadores nel 1996.
Oltre ai magici colpi di genio dell’uruguaiano, la squadra allenata da Ramon Diaz punta forte sui guizzi di Ariel Ortega e sui goal di Hernàn Crespo: per il Burrito e per Valdanito, l’esperienza europea sarà double face. Crespo ha lasciato ovunque il segno a suon di goal e di una condotta anche extra sportiva irreprensibile, tanto che a trentasei anni gioca ancora in Italia, nel Parma. Ortega ha fallito in Spagna come in Italia prima di avviarsi ad un triste declino impregnato di alcol.
Tanti altri giocatori targati River sull’esempio di Francescoli prima e Crespo poi hanno ammaliato il calcio europeo ma, chi per una ragione chi per un’altra, sono risultati come Ortega più fumosi che di sostanza. Tre nomi: Marcelo Gallardo, Javier Saviola, Pablo Aimar.
Il lento crepuscolo del River è racchiuso in qualche numero: negli anni novanta, 10 titoli conquistati (8 locali e 2 internazionali), dal 2000 ad oggi soltanto 5 (tutti in Argentina) con un solo scudetto (Clausura 2008). Insomma, c’era una volta il glorioso River.
Oggi alle prese con una difficile opera di ricostruzione. Della squadra retrocessa se ne sono andati 6: oltre al neotecnico Almeyda, ritiratosi dall’attività agonistica, il gioiellino Lamela (Roma), il presunto gioiello Buonanotte (Malaga), il bomber Pavone, il promettente Lanzini (Fluminense) ed Acevedo (Banfield).
In entrata, Passarella e Almeyda si sono dati all’operazione nostalgia. Non ha scaldato i cuori il rientro alla base del centrocampista Nicolas Domingo, una meteora nel Genoa 2008/09 (zero minuti, una sola presenza in Coppa Italia contro il Ravenna). È stata invece accolta cori grande entusiasmo la ricostituzione della coppia d’attacco Cavenaghi-Dominguez, rinnovati gemelli del goal a quasi dieci anni dal trionfo nel Clausura 2002.
Fernando Cavenaghi, classe 1983, torna al River sette anni dopo con alle spalle altalenanti stagioni in Russia (Spartak Moskva), Francia (Bordeaux), Spagna (Mallorca) e Brasile (Internacional Porto Alegre). Così come sette anni dopo rientra alla base Alejandro Dominguez detto El Chori, seconda punta, classe 1981, ad un passo dalla Juve nello scorso mercato, una lunga e positiva esperienza russa (Rubin Kazan e Zenit) prima del flop nel Valencia.
Due goleador di ritorno per far tornare grande il glorioso River del tempo che fu.

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