Le nuvole si sono addensate sulla città – racconta Emilio Fede su “Hurrà Juventus” del maggio 1965 – e cominciano a cadere le prime gocce di pioggia. «Fa perfino piacere sentirsi bagnati quando si dipinge questi scorci di paesaggio», dice Enrico Paulucci. Calza il suo berretto alla Sherlock Holmes, tutto quadrettoni grigi e azzurri ed è seduto su uno sgabellino. La tela fissa un angolo di Torino fra i più suggestivi: Piazza Vittorio e i Murazzi. «Preferisco il mare – aggiunge – questo lo sanno tutti. Ho quasi sempre dipinto barche e marine con l’azzurro come solo le riviere italiane possono offrire. I miei quadri più belli sono di tema marinaro. Tranne uno che purtroppo ho perduto: si chiamava “Mischia sotto la porta dei rossi”, era un momento del derby fra la Juventus e il Torino. Un ricordo degli anni in cui indossavo la maglia di difensore della squadra bianconera».
Enrico Paulucci, direttore dell’Accademia Albertina, titolare della cattedra di pittura, è stato infatti portiere della Juventus fino a metà del campionato 1925 quando cedette il posto a Combi. Pochi oggi ricordano nel distinto, austero pittore che è succeduto allo scomparso Felice Casorati nella direzione dell’Accademia Albertina, il ragazzo vivace e rompicollo che difese prima fra gli Allievi, poi in Prima Squadra la porta della squadra bianconera. «Ed ero anche bravo, anzi bravino per essere sinceri», precisa il professor Paulucci. Gli chiediamo perché di quel bravino forse dovuto alla modestia. Lui sorride «Avevo un difetto inammissibile per un portiere: ero distratto. Fra un’azione e l’altra pensavo ai miei problemi al di fuori del gioco oppure fissavo il pubblico per scoprire come avrei potuto dipingerlo in un quadro ad olio e scoprivo che mancava lo sfondo del mare. Un giorno, preso da queste distrazioni, mi accorsi solo all’ultimo momento che il centravanti avversario era a pochi metri dalla mia porta e aveva scoccato un tiro fortissimo. Feci un balzo felino e riuscii ugualmente a deviare il pallone in calcio d’angolo. Mi chiamarono gatto ma io sapevo che era stata fortuna se non avevo incassato il goal. A diciotto anni decisi di abbandonare il calcio, ma non la Juventus. Sono ancora un tifoso accanito».
Paulucci ha sessantatré anni, dipinge da oltre quarant’anni. I suoi quadri sono apparsi alle mostre più importanti sia nazionali che internazionali: dalla Biennale di Venezia, a Roma, San Paolo, Tokio. Egli fa parte del gruppo dei sei (Menzio, Paulucci, Carlo Levi, Chessa, Galante, Boswel) a capo della corrente moderna del figurativismo astratto che hanno fatto parlare di sé in tutto il mondo. Ritrovarlo oggi alla cattedra di pittura ironico e divertito, critico severo di se stesso e della propria arte costituisce un contrasto non indifferente con il lontano passato del quale ci vogliamo occupare: Paulucci portiere juventino. «Errore di gioventù – dice scherzando – che però ha rappresentato un momento fra i più belli della mia vita. Forse lo definisco errore per nascondere il rimpianto. Non ero tagliato per la carriera di calciatore ma ancora qualche anno avrei potuto restare nella Juventus. Avevo disputato due campionati riserve, vincendone uno; un campionato ero stato nei ragazzi che allora si chiamavano Boys. Poi ero stato chiamato in prima squadra, nel 1925. Ricordo la partita contro il Savona, contro la Lazio, a Roma, allo stadio Nazionale. Ero piccolo, magro e sembrava perfino impossibile che potessi alzarmi a toccare la traversa. Invece riuscivo a muovermi con una tale agilità che stupiva tutti. Non voglio dire di essere stato un gran portiere, ma il mio dovere lo facevo con scrupolo. Allora si giocava d’impeto, di volontà e per attaccamento ai colori della società. Non avevamo stipendio, non si pensava neppure al guadagno. Il fatto di indossare la maglia di una società come la Juventus era un premio sufficiente a compensare qualunque fatica».
Gli anni nella società bianconera portarono davvero fortuna al giovane Paulucci. Dopo le belle prestazioni con l’undici della Juventus fu chiamato anche in Nazionale: disputò alcune partite nella rappresentativa degli studenti, contro la Germania e la Romania. Sembrava quindi destinato alla carriera di calciatore. Ma i suoi genitori preferivano che studiasse. Suo padre, generale dell’esercito, gli consigliò di non perdere tempo a inseguire sogni di ragazzo, ma di dedicarsi agli studi. Enrico era combattuto fra la passione sportiva e la volontà del padre. I suoi compagni di squadra, Novo, Brenna, Bigatto, Marchi, Ferraris II, Sesia, Giriodi, Gallina insistevano perché restasse fra i pali, ma ben presto il gatto distratto si arrese alla famiglia. A metà del campionato (siamo nel 1925) fu sostituito da Combi. «Con un portiere come quello la gente non si è accorta nemmeno che io non facevo più parte della Juventus», commenta Paulucci con ironia non disgiunta da un certo tono di malinconia. Continuò ad allenarsi, a seguire, quando era libero da impegni di scuota, la squadra, ma oramai era un estraneo. Più tardi conseguì la laurea in legge, poi quella in scienze economiche e nel frattempo dipingeva quadri di ispirazione marinara.
Gli chiediamo cosa ne pensa della Juventus di oggi. «Sempre una grande squadra. Certo vorrei vederla in corsa per lo scudetto – dice – ma sono certo che questo avverrà il prossimo campionato. Molto è stato fatto quest’anno dal signor Herrera e molto si potrà fare in avvenire…
Ci dia un giudizio su Sivori? «Un bel giocatore. Quando lo vedo giocare mi entusiasmo. Direi che è uno dei pochi calciatori il cui stile è vicino alla mia pittura: astratta. Sembra un giocoliere più che un giocatore, un funambolo-acrobata. Ai miei tempi bisognava avere un gran fisico ed essere combattivi. Ricordo quel Valerio Bona che era un cannoniere tanto forte era il suo tiro. Ma il gioco io l’ho sempre visto alla maniera di Sivori. Lui dà spettacolo fragile e tecnico com’è quando trova la vena migliore. Insomma direi che è un bel tipo».
Cioè lei vorrebbe un gioco astratto? «Gioco no, ma giocatori sì. La nostra pittura viene definita astrattismo concreto. Così dovrebbe essere per i calciatori. Astratti nello stile, ma concreti nel gioco. Sembra assurdo, ma il pubblico deve essere libero di far lavorare la fantasia».
C’è qualcosa che rimpiange del suo lontano passato di atleta? «Il mio unico quadro dedicato al calcio: quella “Mischia sotto la porta dei rossi” che è andato perduto. L’avevo dipinto con tanto amore tradendo per una volta il mare. Era un’immagine così irreale che mi lasciava sognare e ricordare le ore passate a sgambettare sui prati verdi e fare balzi in mezzo ai pali. Non sono del resto il solo pittore che ha avuto un passato calcistico. Basti pensare a Durante e Sclavi. Il che dimostra che assieme ai pennelli abbiamo saputo manovrare anche un pallone».
Nel grande studio privato in Via Cavour le cui finestre si affacciano sui tetti della vecchia Torino che protendono verso il cielo grappoli di comignoli antichi, Enrico Paulucci conserva, fra gli oggetti che più gli sono cari, anche alcune fotografie che Io ritraggono nella formazione bianconera. La data è del campionato 1924-25, un anno legato a nomi di atleti che fanno ora parte della storia del nostro calcio migliore.
RACCONTAVA
La Juventus aveva un campo con la tribuna di legno e, sotto la tribuna, gli spogliatoi: eravamo quasi tutti ragazzi. Ci compravamo tutto: le scarpe, le magliette. Si giocava la domenica, gli spettatori potevano arrivare sì e no a duemila. Autorità presenti poche o nessuna, giornalisti sì. Il lunedì si correva a cercare le Gazzette. «Bravo il portiere Paulucci”!» Dopo di me venne Combi, gran portiere, non ho mai provato invidia per lui, era più bravo di me. Io mi tuffavo bene, ero un portiere “Plongeur”, ma il pallone qualche volta mi scappava di mano, i pennelli no, già li usavo per i miei primi quadri. Alle trasferte si andava per conto nostro, in treno, anche a Roma, dove sul campo il dischetto del rigore era un chiusino. E la sera a dormire qua e là nelle pensioncine. Avevamo un allenatore bravo, che si chiamava Armano e che poi sposò “Tota Bigiota” che teneva il buffet del campo. Ancora oggi, qualche volta, sogno che l’amico presidente della Juventus, venga a propormi di sostituire un portiere. Che gioia, corro a cercare le vecchie scarpe bullonate, la maglia bianca e nera. Quanti giocatori, tra settant’anni, sogneranno ancora la maglia che indossano oggi? Quanti avranno la mia nostalgia? Speriamo! Bello il gioco del calcio, specialmente come lo facevamo noi. Un’aria, un vento, un impeto di gioia.
ALESSANDRA BOCCI, “LA GAZZETTA DELLO SPORT” 7 DICEMBRE 1991
Paulucci, il portiere del piccolo calcio antico.
Il gatto distratto ha la memoria limpida. «Mi chiamavano così perché ero agile ma avevo spesso altro per la testa. Qualche volta vicino a me passava un pallone, dimenticavo perché ero lì e lo lasciavo scivolare in rete».
Enrico Paulucci, pittore, ha novant’anni e due lauree prese per confondere l’avversione del padre a tele e colori. Da ragazzo giocava nella Juventus, fra i pali ha vinto un campionato boys e uno con le formazioni delle riserve, ma ha giocato tante partite in prima squadra prima che arrivasse Combi a fargli ombra. Aveva vent’anni. «Combi era troppo più grande, più pesante e più potente di me, un bravo giocatore, forte e svelto. Smisi».
Dal pallone a Casorati, dall’amicizia col portierone bianconero a quella con Calvino e Montale: racconta, Paulucci, e quando parla dice football, come si usava allora in un calcio che non conosceva serie A e B, un calcio nel quale si vincevano solo medagliette, si viaggiava in seconda classe, si dormiva in alberghi di terz’ordine, e se si perdevano le maglie si poteva giocare anche in camicia. «Eppure in quella Juve c’erano cinque nazionali, e in quella di oggi neanche uno», dice lui sorridendo.
Lo studio sul Lungo Po torinese è luminoso nonostante la giornata grigia, pieno di tele da finire. Ma l’attenzione di Paulucci è concentrata su di una scatola di cartone che custodisce il suo passato di sportivo. «Il football allora era una cosa molto umana, giocata da studenti; ora è tecnologico, un grande spettacolo, più complicato, meccanico; lo vedo come il circo. Con ciò non voglio dire che non mi piace più: mi piace, ma è calcio postindustriale, adatto a questi tempi. Football fatto a macchina».
Ma non può dimenticare, l’amico di Combi («onesto, serio e la serietà è una bella cosa: oggi dicono di essere seri, ma cambiano con un miliardo in più»), il calcio fatto su erba vera, con alberi veri intorno, e delle volte un tombino al posto del dischetto di rigore. Allora la Juve giocava in mezzo ai pioppi, e l’artista in cerca di colori ricorda e ancora ama i campi aperti delle città povere.
Li ama, ma non li dipinge. «Una volta ho fatto un quadro sul calcio, si intitolava “Mischia sotto la porta rossa”. Era il mio periodo futurista, brevissimo. Quel quadro è finito sul fondo di una cassa che doveva servirmi a imballarne altri. Peccato. Comunque i colori del calcio sono belli, sarebbe interessante fare un quadro sul football solo a macchie di colore. Il calcio dal punto di vista pittorico è bellissimo, lo era allora più di adesso con le tettoie che rendono gli stadi dei salotti. Non mi piacciono niente, questi stadi: non si vede più il cielo, la stagione, il sole. Campi finti, prodigi di tecnica, però il calcio non è più così interessante dal punto di vista estetico, non c’è più il contatto con la natura. Perché io non ho dipinto calcio? L’arte moderna non è adatta alla cronaca».
E le tinte del football scompaiono di nuovo nel bianconero della memoria, davanti a foto di vecchia Juve, a diplomi e ritagli, Paulucci non vuole parlare di pittura; getta uno sguardo intorno, guarda le mani sporche di rosso («ho firmato un quadro, si vede che il colore sotto era fresco»), torna con la mente all’albergo di Roma «dove per allenarsi si faceva la corsa con le cimici», al treno che li portava a Livorno, seconda classe e tanta allegria, tanto che si scordarono le valigie nel vagone. «Eravamo senza maglie e sa cosa abbiamo fatto? Siamo andati al mercato e ci siamo comprati delle camicie bianche, di quelle senza collo come si usava allora. Abbiamo giocato così».
Nella capitale, durante le prime Olimpiadi universitarie italiane, aprile 1922, capitava di essere «alloggiati» sulla paglia dello zoo. Ma ci si divertiva, si incontravano squadre finite giù, Savona, Casale, Livorno, e lo stile Juve già esisteva. «Era lo stile di una squadra in fondo aristocratica. Erano regole di comportamento civile, dovevamo essere a posto anche se giocavamo in camicia; lo juventino non doveva mai essere uno sbracataccio che urlava. Ci voleva un certo riserbo, una certa signorilità. E a quei tempi mai più uno sarebbe passato da una squadra all’altra: c’era passione, la passione ci guidava. Ora c’è la passione del tifo ma è un’altra cosa. Ci sono gli sponsor, aveva ragione Pound: dove arriva il denaro non si è più sicuri di nulla».
L’artista confessa di «rimpiangere un po’ quel mondo. L’uomo tende a diventare un numero, e questo non mi piace tanto. Una squadra ha bisogno di un numero dieci, e va a pescare il dieci. Serve un uno, ecco l’uno. Non c’è più passione, solo spettacolo».
Perché questo è rimasto, lo spettacolo: più di prima, meglio di prima. «Quando vedo i portieri di oggi in tv schizzare come palle di gomma mi riempio di ammirazione, sono bravissimi».
Però che tristezza quei campi salotto, quell’erba finta che luccica in tv, quel vip che guarda il calcio in poltrona. «Sono rimasto tifoso della Juve, ma non mi va di andare in quella specie di palchi imperiali. E non mi piace la grande folla di tifosi diventati corpo compartecipe, una specie di coro greco. Non mi va, e poi sono vecchio. Fino a qualche anno fa ancora andavo allo stadio. Ogni tanto mi invitano, ma in fondo preferisco vedere il football in tv».
Luci sul Po. Fuori ora è buio, ma nell’aria dello studio brillano i colori dei quadri. «Chi l’avrebbe detto, che un giornale sportivo mi sarebbe venuto a cercare settant’anni dopo quelle partite – riflette Paulucci –. E io che credevo che solo l’arte restasse».
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