giovedì 7 dicembre 2023

Rino FERRARIO


La storia calcistica di Rino Ferrario comincia a sedici anni, quando, dopo il Collegio Arcivescovile di Desio, viene mandato al Collegio di Saronno. Nella squadra del collegio, Rino figurava all’ala sinistra e faceva progressi ogni giorno. A sedici anni, un dirigente lo invitò a giocare nella Pro Lissone, squadra che, a quei tempi, militava addirittura in Serie C. Rino accettò: mancavano dodici giornate alla fine del campionato e il giovane Ferrario le disputò tutte, sempre come ala sinistra. Ogni partita un goal, anche se sotto il profilo tecnico non era propriamente un mostro.
Rino per qualche tempo si dimenticò del football: divenne geometra e, in possesso della maturità scientifica, pensò di dedicarsi all’architettura. Dopo due anni, interruppe bruscamente gli studi a causa della morte del fratello e della mamma.
Furono giorni difficili, tanto più che il servizio militare parve bruciare tutte le sue aspirazioni. Ad Arezzo, dove fece la naia, la sua carriera di calciatore iniziò veramente. In occasione di un torneo calcistico delle Forze Armate, il poderoso Rinone fu seguito con interesse dall’ungherese Hajos, allenatore della compagine aretina. Alla fine dell’incontro Hajos prese da parte Ferrario e gli disse: «Giocheresti volentieri nell’Arezzo?» Rinone accettò; grazie anche a un opportuno infortunio del terzino titolare, disputò dodici partite con la grande soddisfazione della vittoria finale a premiare l’Arezzo.
Nel campionato successivo (1948-49) la società assunse un nuovo allenatore, Piero Andreoli, il quale si interessò molto alla giovane recluta, nella quale vedeva qualcosa di più di una promessa e lo provò al centro della mediana. Fu una grande invenzione: tempismo, potenza, lancio teso e preciso; imbattibilità assoluta sui palloni alti, doti agonistiche ineguagliabili. Forse Rino era un po’ grezzo sotto il profilo tecnico ma Andreoli ne modellò la personalità tecnico e stilistica. Al termine di quel campionato molte società fecero la corte all’Arezzo. A Rinone si interessò Erbstein, tecnico del Torino Campione d’Italia; bussarono anche Sampdoria e Genoa, poi la Fiorentina, che pure aveva Rosetta come centromediano. La spuntò la Lucchese, società maestra nel portare a termine con colpi a sorpresa la campagna acquisti.
Nelle file della squadra toscana giocava tale Avanzolini, esperto e tecnicamente dotato. Nelle prime giornate di campionato Ferrario fu relegato tra le riserve; ma dopo le sconfitte di Novara (5-0) e di Torino (3-1), la posizione di Avanzolini non risultò troppo solida. Provarono Ferrario contro il Palermo: e il pericoloso attaccante Di Maso non toccò palla; sembrava la promozione definitiva, ma per qualche partita tornò in auge Avanzolini.
La consacrazione avvenne con la stupenda prestazione sul terreno dell’Atalanta, dove la Lucchese impose il pareggio per 1-1. Ferrario giocò forse la sua migliore partita a Lucca contro il Milan: la squadra rossonera vinse per 2-0, ma il grande Nordahl non riuscì a tirare neppure una volta. Proprio in quell’occasione Toni Busini, Generai Manager milanista, fece le prime avances per l’acquisto di Ferrario: la cifra (venticinque milioni) sembrò esagerata; allora si fece sotto Gianni Agnelli e Ferrario diventò bianconero nel 1950.
Era un simpaticone, sapeva prendere tutto con filosofia, anche dover rimanere all’ombra di Carletto Parola, da tutti definito il più forte centromediano del mondo. Ferrario seppe aspettare con diplomazia e pazienza il suo momento: nel frattempo, giocando in allenamento con il grande Carletto, riuscì ad apprendere dal grande maestro l’arte dei football. Parola si infortunò con il Bologna e, nell’incontro successivo, proprio a Milano contro il Milan del GRE-NO-LI, toccò a Rinone misurarsi nuovamente contro il Pompiere rossonero e, come la prima volta, fu una prestazione sensazionale di Ferrario, oramai noto ai fan bianconeri con l’appellativo di Mobilia.
Il centromediano strabiliò il pubblico con una partita definita dalle cronache uno spettacolo nello spettacolo: Rino anticipò Gunnar sullo scatto, lo annullò nel gioco di testa, effettuò interventi perfetti e salvataggi stupendi. Nella partita con l’Inter, gli riuscì di mettere la museruola a Benito Lorenzi e fece la parte del leone anche contro con la Spal, impegnata nella lotta per la retrocessione. La Juventus segnò dopo un minuto e mezzo, poi fu costretta a sostenere l’urto della scatenata squadra ferrarese. Quel giorno tutta la difesa dovette lottare con le unghie e con i denti per tenere a freno l’irriducibile Fontanesi.
Carlo Parola ebbe modo di guarire con tutta calma: Rinone stava dimostrando qualità eccezionali. Tredici gare di seguito (ventiquattro in totale in quella stagione) e poi la soddisfazione di concludere con una vittoria a Padova nell’ultima di campionato, con lo scudetto come premio straordinario. Rinone disputa 153 partite nella Juventus e dieci in Nazionale.
Partecipò anche allo scudetto della stella, con qualche anno (e qualche chilo) in più. All’allenatore Broćić, che predicava più partecipazione al gioco urlandogli: «Attak! Attak!» Rinone rispose: «Attaccati al tram!».
Calcio che non c’è più...

MAURIZIO TERNAVASO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1988
Nell’autunno del 1950 ha inizio la fulgida carriera bianconera di un atleta esemplare il cui nome è rimasto legato a splendide stagioni di ripetuti successi della squadra: stiamo parlando del brianzolo Rino Ferrario (detto Mobilia), il cui ricco palmarès comprende ben dodici stagioni in Serie A (di cui sette nella nostra Juventus), due titoli di Campione d’Italia e dieci gettoni in Nazionale maggiore. Il luogo del nostro appuntamento è un modernissimo ufficio sito in un prestigioso palazzo a due passi dalla centralissima Piazza Solferino; e dopo i convenevoli abituali, la mia prima domanda non può che essere la seguente: di che cosa si occupa attualmente, signor Ferrario?
«Sono il presidente di un’agenzia di marketing e pubblicità di un certo rilievo e sono diventato tale dopo una lunga esperienza vissuta sempre in questo settore, settore che continua ad affascinarmi enormemente in guanto creativo, come del resto ritengo creativo anche il gioco del calcio».
Qual è l’esatta origine del soprannome Mobilia che l’ha sempre accompagnata nel corso della sua carriera?
«Quell’appellativo ha una duplice chiave di lettura e si presta a una doppia interpretazione: ero Mobilia sia in quanto figlio di un mobiliere brianzolo; sia in virtù di un fisico decisamente poderoso, un armadio insomma».
Se non erro, lei è stato tra i pochi giocatori ad aver indossato sia la casacca bianconera che quella granata; per di più, dopo aver giocato per una decina di anni da difensore puro, ha concluso la sua carriera proprio nel Torino agendo da centravanti: come può spiegate queste, chiamiamole così, metamorfosi?
«Nel 1959, dal momento che, oramai trentatreenne, non rientravo più nei programmi della squadra, decisi, pur di continuare a giocare, di passare la barricata: così mi ritrovai in Serie B con il Torino, dove rimasi per tre stagioni (la seconda e la terza in Serie A) figurando un anno, con otto goal, capocannoniere della squadra: infatti, dal momento che mi era da sempre piaciuto spingermi in avanti, si era studiato un mio impiego nel ruolo di centravanti, e i risultati furono discreti».
E quali erano le caratteristiche del Rino Ferrario giocatore ante 1959?
«Ero un terzino-centromediano mancino dal grande temperamento, dotato di un buon fisico e di un ottimo colpo di testa; io credo che, salvo casi sporadici, si nasca calciatori in virtù di un’intensa carica agonistica e temperamentale: così imparai poco alla volta la tecnica dal grande Sivori, e la affinai con il passare degli anni. Mi sono sempre divertito come un pazzo a giocare a calcio, e di certo da piccolo non avrei mai immaginato che sarei riuscito a guadagnare dei soldi facendo ciò che più mi piaceva».
Avendo smesso di giocare da oltre venticinque anni, l’amore per il calcio in genere le è venuto meno, o invece continua a essere un assiduo dello stadio?
«Devo confessare che adoro tuttora enormemente il calcio; pur, essendo di fede bianconera, assisto domenicalmente a ogni incontro che si svolge al Comunale, e per di più vado sempre alla ricerca dello spettacolo: per questo sono stato in Messico ad assistere agli ultimi Campionati Mondiali».
Vede attualmente in circolazione, in campo nazionale, un giocatore dalle caratteristiche simili a quel Nordahl che ha dovuto marcare tante volte?
«Al giorno d’oggi vi è abbondanza di centravanti di manovra, ma non di sfondamento, sicché i giocatori di tal ruolo sono più portati a costruire piuttosto che a realizzare personalmente: ne deriva che il ruolo che fu dei Nordahl, Jeppson e Lorenzi viene a mio parere ora ricoperto esclusivamente da un paio di giocatori stranieri: Casagrande e Careca».
Un’ultima domanda, signor Ferrario: ritiene che l’essere stato a suo tempo calciatore, e per di più in una squadra dalla grande tradizione umana e storica quale la Juventus, l’abbia agevolata in seguito, nel corso della vita di tutti i giorni?
«In proposito non posso aver dubbi: l’ambiente della Juventus dà all’uomo una preparazione particolare, inculca ai giocatori un’educazione e una mentalità, un modo di ragionare e di vivere che soccorrono poi quotidianamente; inoltre si è sempre a contatto con personaggi dall’enorme spessore sociale e culturale, ed anche ciò contribuisce a rendere estremamente appetibile una pur breve esperienza calcistica bianconera. Personalmente devo dire che gli anni trascorsi con la casacca a strisce hanno nel complesso forgiato più che positivamente il mio carattere e la mia personalità, e se ho raggiunto un certo successo nel mondo del lavoro ciò lo devo in parte anche a quel fondamentale periodo di vita».

CESARE FIUMI, “CORRIERE DELLA SERA” DEL 2 APRILE 1994
Cesare Ferrario, detto Rino, oggi è un uomo tranquillo. Un signore dai modi garbati, felicemente indaffarato. Capitano di azienda pubblicitaria, capitale ancora intatto di un calcio un po’ dimentico di sé, quello grande e generoso, ruvido e buono. Di spalle larghe come le vedute. Di piedi che non facevano melodie, però entravano a tempo: sapevano far bene. E anche far male. Ma Cesare Ferrario, detto Rino, un giorno di dicembre del 1957 fu anche un uomo tranquillo di altro genere, finendo dentro un remake involontario che consegnò alla storia del calcio azzurro una foto memorabile, un soprannome e una sonora, prodigiosa, scazzottatura. In una gelida serata irlandese Rinone Ferrario rifece John Wayne nella parte del pugile Sean Thornton, come nel film di John Ford, girato proprio in Irlanda, sei anni prima: “Un uomo tranquillo”. Irlanda del Nord-Italia era finita 2 2, con l’invasione di campo e la caccia all’italiano. E Ferrario, mentre guadagnava l’uscita, si trovò di fronte, stupito, una frotta di Victor McLaglen su di giri e con una gran voglia di menar le mani. Lui ne uscì con un paio di costole incrinate, ma gli irlandesi al tappeto, respinti con perdite. Già allora lo chiamavano Mubilia e non solo perché era figlio del signor Isacco, mobiliere di Lissone. Ferrario era un pezzo di centromediano da far paura, Mubilia, appunto: un armadio che quel giorno sbatté le ante in faccia al prossimo, in uno stadio pentolone dove era saltato il coperchio di rancorosi conflitti religiosi.
«Cominciavano allora a Belfast le prime sommosse, ma noi ne eravamo all’oscuro: nessuno ci aveva spiegato la situazione, il clima, gli scontri tra protestanti e cattolici. Scoprii tutto dopo la partita, quando lessi i resoconti che spiegarono l’aggressione contro noi italiani, identificati come cattolici e papisti. Ci bastava un pareggio per la qualificazione mondiale, ma l’arbitro designato non arrivò mai. E noi non accettammo che dirigesse un irlandese. Sbagliammo perché un arbitro è sempre un arbitro. Giocammo perciò una partita inutile, e quella vera la perdemmo un mese più tardi. Ma forse neppure mi dissero che era diventata un’amichevole, di certo il pubblico lo ignorava. Fu una battaglia dal principio alla fine. Allora non c’era il fallo sul portiere, la carica era lecita, per noi una novità. E fu più difficile difendere Bugatti che giocare la palla. Volarono colpi proibiti. Non c’era recinzione e alla fine il pubblico entrò in campo. Credevo fosse un’abitudine, una cosa normale. Ma di lì a poco arrivarono spinte e pugni. Vidi un poliziotto e corsi a raggiungerlo, facendomi largo, sì, a cazzotti. Chi avrebbe mai immaginato un’aggressione a sfondo religioso!»
Storie di un calcio ancora naif, che lambiva appena la storia, mandato allo sbaraglio, una terra di confine tra ingenuità e ignoranza. Oggi è difficile intravvedere in questo raffinato signore di sessantasette anni, torinese acquisito, il Leone del Windsor Park. La storia di Mubilia Ferrario ne uscirebbe sminuita, se lasciata sotto il lampione fioco di quella pagina oscura fatta di pruriti alle mani e di pruderie di leggenda. Anche perché Mubilia fu esattamente l’opposto, un Garrone del calcio, un gigante buono che attraversò la sua stagione di campione. Due scudetti con la Juve di Præst e dei due Hansen, e poi di Boniperti e Sivori, senza perdere quell’entusiasmo che gli veniva da un tempo calcistico che si era perso da un pezzo. Ferrario con quel fisico sembrava catapultato nel calcio degli anni Cinquanta da una rovesciata di Parola (l’uomo di cui prese il posto, la maglia, il destino azzurro): avrebbe potuto essere un terzinaccio della Pro Vercelli d’antan. Era, il suo, un calcio semplice e pieno di cuore. E pionieristico nell’animo. «Sbulinato di gambe, con strane asincronie fra gli arti inferiori e superiori, le ginocchia vaccine, le punte dei piedi divergenti», così Brera raccontava Ferrario. E pure aveva a cuore quel “gallo da combattimento”.
Seguendo il solco tracciato, anni prima, dallo scettico presidente della Pro Lissone: «Se quello diventa un giocatore sul serio, mi mangio un cavallo».
Non lo disse solo lui. Gipo Viani sentenziò: «Se fa goal Ferrario è impossibile». E invece da centravanti del Torino con una rete eliminò il Milan dalla Coppa Italia. E lui si arrabbiò.
«Sono stati divertenti gli ultimi anni di carriera da mezzala e attaccante – racconta – mi dava un senso di libertà enorme giocare avanti, avrei pagato di tasca mia per poterlo fare: che fossero gli altri a curarsi di me. Avevo passato tutta la vita calcistica a fare il guardiano. Il calcio mi ha conquistato quando è diventato una splendida forma di libertà. E successo ad Arezzo, alla fine della leva: mi hanno chiesto di rimanere. Di giocare in Serie C. Il calcio era correre, l’aria in faccia, vincere. E se non vincevi, pazienza. Si immagini un ragazzo che veniva da giorni difficili ed era fin troppo esuberante».
Perché Mubilia prima di diventare Garrone a suo modo era stato Franti: topi morti nel cassetto della maestra, pece spalmata sulla sua bacchetta punitiva. Poi la guerra si era presa quel ribellismo e gli aveva messo la cavezza.
«Mio padre, che era un maggiore della guardia di frontiera, mi aveva mandato in collegio a Saronno. Lì ho cominciato a giocare. La guerra si sentiva di riflesso, non bombardavano come a Milano: eravamo protetti. Essere in tanti, fare gruppo, forse mi dava sicurezza. I giorni di guerra lasciarono il segno: persi mio fratello e mia madre. Mio fratello era un ragazzo stupendo, di ventuno anni, si chiamava Bruno. Morì per una peritonite. Bastava che gli americani fossero arrivati un mese prima con la penicillina e si salvava».
Dopo la guerra, giorni oziosi e soli, sbandati tra il pallone e le carte: calciatore svogliato a Lissone, giocatore avvelenato nei bar. Poi militare ad Arezzo: spesso consegnato in caserma, raccontano i ricordi.
«Però ho potuto giocare nella squadra del battaglione, e Hajos, l’ungherese che allenava l’Arezzo, mi prese con sé. Poi arrivò Andreoli che mi istruì, mi spiegò il calcio vero. Da terzino diventai centromediano e l’anno dopo ero in A, alla Lucchese. E quella è stata una rivelazione, la mia infanzia di calciatore dentro un’Italia che diventava sempre più bella. Siamo stati perfino in testa alla classifica, vincemmo anche in casa della Juve. Calcio spensierato. Avevamo voglia tutti di fare conoscenza, di stare insieme, mi ricordo quelle sale da ballo all’aperto, piene di gente, le feste di paese con le lampadine sull’aia a Fucecchio, a Pescia. Giocare al calcio era tornare a giocare. Non pensavo ai soldi. Dal campo tornavo sul biroccio di Quartuccio, gran bevitore di rosso, e la cavalla conosceva la strada. Si immagini la primavera a Lucca, i colori, la partita vinta: un piacere enorme. Sentivo che bisognava godere dei momenti felici e metterli in cascina. Conobbi un critico d’arte che mi portò a vedere le chiese e gli affreschi, e poi le gallerie che si inauguravano, i nuovi pittori. E uno dei miei primi lavori, alla fine della carriera, è stato far cataloghi d’arte. E poi la musica. Vicino a Lucca c’era Tombolo, il deposito degli americani: camion, materiali e soprattutto montagne di dischi. Quando al mattino mettevo un pezzo di Armstrong, ero innamorato del jazz, tutti dicevano: “Si è svegliato Ferrario”. Il calcio è stato una scuola e la Toscana il primo giorno, quello dell’entusiasmo e della curiosità. L’anno seguente venni a Torino: alla Juve. E poi Inter, ancora Juve e Torino. La Toscana era l’anarchia, Torino un taglio netto: serietà, carriera, risparmio, futuro. Sempre ordinati, educati, precisi. E le gallerie d’arte esponevano pittori più severi. Qui arrivò la maglia azzurra, esordio a Firenze contro l’Inghilterra e il centravanti era ancora Piola, trentanove anni, un fenomeno. Qui ho imparato tanto: Charles con la sua generosità che era un po’ la mia, correre per il campo, dove un compagno aveva bisogno di aiuto. E Sivori con una dote e un difetto eccezionali: era il più bravo di tutti, anche troppo più bravo. Ne approfittava, a volte irrideva: nello sport non è bene. Con me, in allenamento, sapeva di non poterselo permettere, non era il caso. Sono uscito dal calcio che ero uomo fatto. E subito un incontro importante: Gianni Mazzocchi, l’editor che aveva inventato “L’Europeo” e “Quattroruote” e che mi fece partecipare alla nascita di “Quattrosoldi”, il primo magazine dalla parte del consumatore. Ho salutato il pallone e preso la mia strada. Ma le regole sono rimaste le stesse: nel calcio e nel lavoro ho sempre creduto al gioco di squadra, perché l’egoismo finisce per nuocerti. Lo dice la vita, e anche la storia. Sono un divoratore di volumi di storia, anche se il libro che più mi ha affascinato è stato lo “Ulisse” di Joyce, ma non mi va di parlarne. Dovrei dire i miei tormenti e non è giusto, perché tutti hanno i loro. E i miei non sono più importanti e forse neppure differenti. Certo, quella lettura mi ha sconvolto».
Gli anni sono trascorsi anche per Ferrario, che ha cambiato Mubilia: l’armadio possente di un tempo ha lasciato il posto a un secrétaire pieno di ricordi.
«Sono andato a cercare i luoghi di Joyce, mi sono messo davanti alla sua finestra per scoprire cosa vedeva, cosa lo ha spinto a scrivere un libro simile. Il ritorno in Irlanda da ex calciatore era un modo per capire quella terra bellissima e la sua gente».

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