Mancino grintoso e determinato, nasce a Genova il 30 settembre 1928 e gioca nella Nazionale Olimpica ai giochi di Londra del 1948. Raggiunge Torino subito dopo la manifestazione londinese e veste la maglia bianconera solo in quella stagione, prima di essere ceduto all’Atalanta. Ritorna juventino nell’estate del 1951, giusto in tempo per vincere lo scudetto e ripartire per Roma, sponda biancoceleste. In totale accumula trentasette presente e undici reti.
Il 1948-49 – si legge su Pianetagenoa1893.net del 9 giugno 2014 – è l’anno del grande salto alla Juventus, squadra nella quale occupa il posto da titolare nel ruolo di ala sinistra: in quel campionato segna nove reti in trentadue presenze. La prima sconfitta (1-2) con i bianconeri arriva alla terza giornata in trasferta con il Genoa: cosa ricorda di quella partita giocata domenica 3 ottobre 1948? «In quella partita ebbi un’occasione d’oro. Ero da solo davanti al portiere Piani e riuscii a non segnare un goal che sarebbe stato difficile sbagliarlo. Diversi amici erano venuti a vedermi: abitavo da ragazzo in Via Bobbio, molto vicino al Ferraris. Si attraversava “u puntin”, il ponte di legno sopra al Bisagno».
I due derby (entrambi persi dalla Juventus, in casa 1-2 domenica 24 ottobre 1948 e in trasferta 1-3 domenica 13 febbraio 1949) sono gli ultimi giocati dal Grande Torino. Cosa ricorda di quella leggendaria formazione e qual era l’atmosfera delle ultime edizioni derby della Mole con i granata nel ruolo di favoriti? «Il Torino era proprio una grande squadra. C’era Mazzola, Loik, Gabetto: erano grandi giocatori di gran classe. In porta c’era il fratello di Manlio Bacigalupo, Valerio, con cui avevo giocato. Erano più bravi della Juve. Ricordo che giocai contro il loro terzino Ballarin: picchiava come un dannato e giocava attaccato a me. Sempre riguardo ai difensori c’era Blason che menava come un fabbro».
Ma che tipi di falli commettevano? «Facevano entrate molto dure sulle gambe. Niente gomitate o manate in faccia come avviene adesso. Tutto sommato era facile però giocarci contro. I terzini erano dei “bestioni” ma non erano veloci: bastava che li anticipassi, lanciavo il pallone lontano e gli davo due o tre metri in pochi attimi. Adesso i difensori sono molto più agili e veloci: non ho vergogna a dire che se giocassi ora non toccherei palla».
Nel 1951-52 torna alla Juventus per una stagione. In quel vittorioso campionato si deve accontentare delle briciole lasciatele da Karl Aage Præst, facendosi, comunque, trovare pronto con due reti in cinque presenze. Ci può descrivere le caratteristiche tecniche della forte ala sinistra danese? «Era un grande giocatore, anche se un po’ lento: non avevo nulla da eccepire sul fatto di essere la sua riserva. Era molto alto e aveva un dribbling secco che lo rendeva molto pericoloso, oltre a saper crossare in modo preciso. All’epoca le ali dovevano arrivare sulla linea di fondo e crossare il pallone all’indietro fuori dalla portata del portiere».
A proposito: all’epoca come si festeggiavano gli scudetti? «Non c’erano festeggiamenti particolari, come il pullman scoperto con la folla attorno. Fummo invitati dall’avvocato Agnelli a Villar Perosa per una cena di gala».
Quali sono stati i giocatori bianconeri che più l’hanno impressionata? «Giampiero Boniperti era un dritto, che sapeva imporsi, oltre ad essere un giocatore di classe. Carletto Parola era un signore nel vero senso del termine, così come Pietro Rava: il mitico terzino sinistro vincitore dell’oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936 e della Coppa Rimet 1938 era un sanguigno e sapeva marcare molto bene. Ho ottimi ricordi anche di John Hansen ed Ermes Muccinelli».
Che tipo di ambiente era quello della “Vecchia Signora” di allora? «Era un ambiente molto affettato, per niente facile e molto selettivo. Io non posso lamentarmi, poiché mi hanno trattato sempre bene. Eravamo pagati bene: 90.000 lire di stipendio al mese più una serie di premi che aumentavano di molto la paga base. Anzi all’epoca era previsto dalla Federazione che lo stipendio fosse fissato in base al numero di abitanti della città in cui giocava la squadra di appartenenza del giocatore».
Che tipo era l’avvocato Agnelli? «Era una persona autorevole, di cui subivi il fascino. Mi ha regalato nel 1952, in occasione dello scudetto, una bambola con i colori bianconeri che ho ancora in casa».
E poi nel 1952-53 giocò la sua ultima stagione in Serie A con la maglia della Lazio, poi va al Como prima di tornare ai lilla del Legnano. «Andai alla Lazio, poiché, essendoci alla Juventus Præst, non giocavo quasi mai. Non mi sono trovato molto bene. Poi nella stagione successiva sono passato al Como in Serie B, che lottava per la promozione: l’anno dopo sono ritornato al Legnano».
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