Metà ottobre del 1945, calciare il pallone era uno dei primi segni della vita che ricominciava. Ed ecco un nome mitico per la Vecchia Signora: Silvio Piola, trentaduenne, già oltre la metà della sua lunghissima carriera che doveva riservargli ancora una maglia azzurra, a quasi quarant’anni. Piola era stato nella Pro Vercelli e nella Lazio, i suoi gol in Serie A erano quasi 200.
Se per Meazza si parlava di genio del tempo e del tocco, lui sembrava una sorta di cavaliere antico che sfondava con gesti poderosi e veloci. Segnava spesso in acrobazia, di preferenza con il pallone uncinato a mezz’aria e spedito fulmineamente in rete, senza che il portiere avversario potesse accorgersi di niente. Durante la guerra aveva indossato la maglia granata del Torino-Fiat nel campionato di guerra, non ufficiale e, lanciato da Loik e Mazzola, aveva segnato qualcosa come 27 gol in 26 partite. Il suo passaggio alla Juventus nacque da un mancato accordo con la Lazio, che voleva pagarlo a percentuale sugli incassi; rifiutò e preferì lo stipendio sicuro di Madama.
Debuttò in maglia bianconera in un derby segnando il gol della vittoria battendo, su rigore, Bacigalupo. Era un buon inizio per la Juventus e per il suo cannoniere annunciato (avrebbe fatto 16 gol) protagonista di un grande campionato, tra compagni come Coscia e Sentimenti III, Magni e Borel II, nonostante prolungate assenze per malanni muscolari che lui attribuiva alla scarsa preparazione del tempo di guerra e alle lunghe soste in piedi nei treni affollati durante le trasferte. Fu una lunghissima stagione che lo portò molto vicino allo scudetto, come non gli era mai successo e come non gli sarebbe più capitato.
Perché Piola, campione del Mondo, due volte capocannoniere, recordman assoluto dei gol segnati in Italia, non è mai riuscito a essere, almeno una volta, campione d’Italia. E questa del 1946 rappresentò la grande occasione. C’era, è vero, il Grande Torino a dettar legge, ma il più lungo campionato della nostra storia, prima diviso in due spezzoni, poi con un girone finale, aveva in serbo una sorpresa. Quando si arrivò a metà luglio, a due domeniche dalla fine, la Juventus era due punti davanti al Torino: Piola l’aveva trascinata in una sequenza di 7 vittorie consecutive. C’era però da giocare ancora il derby, alla penultima giornata e fu un derby che oggi si definirebbe drammatico, ma allora un aggettivo simile ricordava tragedie appena finite, un gran duello di centravanti: lo vinse l’ex Gabetto, autore del gol vittoria.
Così le due rivali affrontarono alla pari l’ultima fatica, il Torino subissò il Livorno di reti, la Juventus tentò disperatamente di vincere a Napoli, ma riuscì solo a pareggiare proprio con Piola, dopo essere stata addirittura in svantaggio, che poi ne sfiorò altri in mischie rabbiose, il cuore in tumulto e la furia che sembrava quella dei tempi vercellesi.
Piola rimase alla Juventus per un altro anno. Fu un buon campionato, che lo vide giocare mezzala e, nonostante il cambio di posizione, segnare altri 10 gol. L’ultimo a Venezia, a raddoppiare il vantaggio ottenuto da un ragazzino biondo che indossava la maglia numero 9 e che avrebbe fatto parlare molto di sé. Quel ragazzino era Giampiero Boniperti.
SI RACCONTA SU “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1963
Le mie stagioni nella Juventus furono due e furono le stagioni più romanzesche della mia vita. Indubbiamente ho vissuto parentesi più divertenti di quelle torinesi, a Roma con Zenobi, il presidente buono, sono stato addirittura felice, ma a Torino, nella maglia bianconera, ho vissuto i miei mesi più difficili, ho attraversato le peripezie e le vicissitudini più strane, così che, a ricordarmi di quei giorni, me ne sento quasi orgoglioso, perché erano giorni davvero difficili, erano tempi duri per il nostro Paese.
Ricordo quella Juventus come una squadra particolare, allenata da Borel (che poi giocava pure) e con due portieri, il grande amico mio Cochi Sentimenti e il giovane Viola, il quale bussava spesso all’attenzione dei dirigenti con le sue spettacolose parate del mercoledì e si meritava il posto in squadra soppiantando il nazionale Cochi. Ma era una cosa speciale: perché Cochi lasciava la porta e si metteva all’ala destra e, come ala destra, come scriveva quell’indimenticabile giornalista sportivo che si chiamava Casalbore, giocava altrettanto bene. Un’ala dalla velocità impressionante e dal tiro al fulmicotone.
Ricordo alcune partite della stagione ‘45-46. Contro l’Inter, in una partita attesissima, il 17 febbraio del ‘46 lottammo novanta minuti. La difesa dell’Inter, con Franzosi, Marchi e Passalacqua, Cominelli, Milani e Barsanti, bloccò inesorabilmente ogni nostra offensiva, nonostante i tentativi delle ali che erano Sentimenti Lucidio e Sentimenti Vittorio e i miei sforzi. Io avevo come mezzeali Borel e Coscia con i quali mi intendevo meravigliosamente. Ma quel pomeriggio non ci fu nulla da fare; Franzosi parava tutto, ricordo che parò una mia capocciata da un metro e una sventola di Sentimenti IV da quaranta metri, per la quale il pubblico aveva già urlato al gol.
Ma, ripeto, non furono anni facili, e il mio rendimento non fu soddisfacente. Io non potei rendere nella Juventus come il presidente Dusio sperava, perché ci si allenava poco e andavo soggetto a molti strappi. Io abitavo a Vercelli e, per venire a Torino ad allenarmi, ci mettevo non meno di cinque ore. I servizi ferroviari risentivano della lunghissima e atroce guerra; ricordo che salivo in treno alle undici e arrivavo nel tardo pomeriggio. Nelle stazioni si rimaneva fermi per ore. Arrivavano ordini e contrordini, spesso invece di continuare il percorso, si rifaceva la strada del ritorno. Una volta partii da Vercelli alle undici e tornai a Vercelli all’una.
La stagione ‘45-46 finì, per noi, con una beffa e con una scazzottatura gigantesca a Napoli, dove pareggiammo 1-1 e dove perdemmo lo scudetto vinto dal Torino, soprattutto per le scarponerie di Pretto, la mia bestia nera, con il quale pochissime volte nella mia carriera riuscii a giocar bene. Non è che Pretto mi intimorisse, ma entrava duro e cieco, a testa china, e così io a Napoli, bersagliatissimo dalla folla, non fui di grande utilità. Il campionato fu vinto dal Torino con un punto su di noi. Avevamo disputate 26 partite nel girone eliminatorio e poi si sono giocate 14 partite per il girone finale. La guerra era finita da pochi mesi e le trasferte erano travagliate da enormi difficoltà.
Le cose si normalizzarono nella stagione seguente, quando la Juventus, meglio organizzata, continuava il dominio del grande Torino. Venti squadre in campionato, grande passione, stadi di nuovo traboccanti di gente. Io speravo di rendere di più, di fare contenti i miei dirigenti. Avemmo belle giornate, ma non fu una stagione bella per me. Ricordo un pomeriggio di sole a Genova, dove vincemmo per 5-1, quel pomeriggio io giocai veramente bene. Ero marcatissimo, ma mi liberavo subito della palla, insomma il nostro attacco fece faville.
Però, non ho molti e precisi ricordi di partite, perché non furono due stagioni di gloria calcistica per me. Furono anni difficili, tormentati, si guadagnava poco e giocare era difficile. Però, la Juventus si stava già facendo lo squadrone che sarebbe stato dopo, pronto a raccogliere l’eredità del Torino di Superga. C’era Sentimenti IV, un portiere trascendentale, fortissimo tra i pali come in uscita, capace come ho detto di giocar bene anche all’attacco. E non è vero che Sentimenti IV non ci vedesse, ci vedeva benissimo. A Vienna con la Nazionale c’ero pure io, e si perdette per 5-1, ma non per colpa di Cochi, ma per due ragioni, una tecnica e una climatica. Quella tecnica riguardava anche me (non stavo granché in forma quel giorno) e tutta la squadra assai male assortita; quella climatica il maltempo che trovammo al Prater, con quel vento maledetto che turbinava in campo e che non fece vedere la palla al nostro portierone.
Oh potessi giocare oggi nella Juventus, avere vent’anni e stare accanto a Sivori, chissà quanti gol farei! Ma mi posso consolare: in fondo ho fatto parte anch’io della squadra di Rosetta, di Combi, di Monti, di Orsi, di Cevenini, la squadra dei dodici scudetti e di tutti gli italiani.
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