«La Juventus ingaggia Zizì – scrive Caminiti – il terzo di questi fratellastri sempre affamati e sempre affumati (il fumatore più incallito è lui, va anche in campo con la sigaretta infilata dappertutto) per sentirsi più forte, le ambizioni con l’avvento della famiglia Agnelli sono naturalmente cresciute. Zizì arriva con Barisone, Galluzzi e Mario Varglien; si va a tentoni, il falso conte (Mazzonis non ha le velleità di mostrarsi di sangue blu) cerca di affidare a Carlo Carcano alessandrino giocatori validi.
E Zizì Cevenini gode fama di essere un autentico virtuoso, un fenomeno del dribbling e del goal di possesso come non se ne sono mai veduti; e, in effetti, questo trentaquattrenne dal naso grifagno, dal taglio del labbro vizioso, mezzo storto mezzo gobbo, che calza scarpe di cuoio di sua (e dei fratelli) fabbricazione, merita tutta la sua fama.
Per anni nell’Inter ha dribblato intere squadre, segnando e facendo segnare fantastici goal. È il simbolo di come l’italiano medio considera il calciatore di classe, un dribblomane, un solista senza padroni, un cane sciolto a caccia di emozioni speciali, che sgrida alla voce i compagni, che si sente il più bravo da dieci a zero e lo vomita in faccia a tutti. In allenamento, la sua abilità nel calciare da fermo era così assoluta da mettere spesso in crisi il grande Combi.
Alla partita, cominciava a dribblare, con fanatico impegno e guai a non passargli il pallone. Grifagno come il suo naso, e a ogni impresa pedatoria aduso, pur di arrivare al goal da solo, senza dovere chiedere l’aiuto di nessuno. E che non si osassero di non passargli il pallone; tanto la gente, in quei declinanti anni Venti, si divertiva al calcio ancora da noi football, soltanto vedendolo giocare».
RENATO TAVELLA, DAL SUO LIBRO “ IL ROMANZO DELLA GRANDE JUVENTUS”
Già carico di gloria e di non pochi colpi d’ala, dall’alto dei suoi trentaquattro anni fin da subito si era messo a pontificare. Ma se Combi, con il suo aristocratico distacco, lo invitava alla moderazione e la otteneva; se Rosetta e Caligaris, con altrettanto esempio di signorilità seppur diversa all’apparenza, inchiodavano sul controllo la sua vena polemica; Munerati, con schiettezza per niente diplomatica, al contrario lo mandava con buon abitudine a quel paese, con relativo seguito. D’altronde lui, Ricciolo, pur conoscendo l’arte dei colpi raffinati non meno di altri, si sobbarcava bene sfiancanti galoppate per recuperare qualsiasi palla vagante. E perché ‘sto Cevenini poco si degnava in simili lavori per la squadra: che credeva mai di essere? No, Munerati e Cevenini proprio si potevano vedere come la polvere negli occhi. Troppo diversi di carattere, seppure entrambi fossero fra i campioni più conclamati. «Sono tre gli uomini che, ricevuto il pallone, sappiano giocarlo – ci informa il pioniere Annibale Ajmone nel dicembre 1924 su “Hurrà” – dribbling, finta, passaggio e shoot, con gli occhi bendati e, ciò malgrado, con stupefacente sicurezza e precisione: Cevenini, Baloncieri e Munerati».
PIERA CALLEGARI, DAL SUO LIBRO “LA JUVENTUS”
Zizì Cevenini era il più famoso di cinque fratelli che avevano giocato tutti con la maglia dell’Internazionale. Un anno addirittura contemporaneamente e quella dovette essere una delle poche circostanze in cui i neroazzurri poterono definirsi, con giusta ragione, una grande famiglia. Poi, il primo e il terzo dei Cevenini si erano elevati ai fasti della Nazionale e della fama, specie Zizì, che la brillantezza del gioco e l’estrema stramberia del carattere contribuivano a distinguere. Era, infatti, Zizì per il chiacchierio pungente e mai rallentato con cui aveva afflitto il suo prossimo fin dall’infanzia, protagonista immancabile di beffe e di dispute per mezzo delle quali riusciva a collocarsi al centro dell’attenzione. Era anche l’uomo che una volta, nell’Internazionale, sparì per un mese senza avvertire nessuno e, quando tornò, riprese il suo posto dichiarando di essere stato in Inghilterra. Vi si era recato, così disse, per perfezionare a quell’alta scuola il proprio gioco. Fosse o non fosse vero, bisognava accettarlo così o rinunciare a lui. E la seconda soluzione costava più della prima.
DAL LIBRO “JUVENTUS FIDANZATA D’ITALIA”
Cevenini III era quel finissimo, diabolico, strambo giocatore che era sempre stato. Non aveva più, ovviamente, quelle facoltà che lo avevano reso famoso nell’Internazionale, ma era pur sempre il “vecchio” inimitabile Zizì. E a questo punto è inevitabile parlare di lui, anche se gli aneddoti fioriti sulla sua persona appartenevano al tempo passato. Cevenini era stato un giocatore troppo illustre e troppo conosciuto perché, anche sul declinare di una brillantissima, eccezionale carriera, non si parlasse di lui come di un mito. Terzo di una schiera di cinque fratelli calciatori che per una stagione avevano giocato tutti insiemi nell’Inter, fu tra loro il più celebre, il più classico, il più famoso, il più ecclettico, il più eccentrico, il più bizzarro, il più strambo, il più rude, il più tranquillo, il più focoso. Tutto fu: e spesso, da un momento all’altro, il contrario di se stesso.
Ma perché fu chiamato Zizì? Perché chiacchierava sempre, trovava da ridire su tutto e su tutti, non era mai contento, criticava questo e quello, era sempre con la lingua in moto, pronto ad appuntare lo strale della critica, della maldicenza, della superiorità, in ogni momento e in ogni luogo. E quando non parlava male di qualcuno, parlava di altre cose che magari non interessavano nessuno, erano barzellette, raccontini, parolacce, era un mulinello di parole. In casa, sul campo, al bigliardo, alle bocce, tra i ragazzini del rione cui si piccava di insegnare tecnica calcistica. “Ziz... zi... zi... ziizi”, pareva una mosca, una zanzara, una cicala, con quel suo parlare dialettale. E così nacque Zizì, e con lui la sua leggenda.
Si possono raccontare a decine gli episodi che riguardano il “terzo” dei Cevenini. Come dirli tutti? Del resto sono noti a coloro che conoscono un po’ di anedottica sportiva. Una volta, durante un allenamento, alcuni giocatori, compagni di squadra, provano a tirare in porta: sbagliano, suggestionati dalla presenza del Ceva. Arriva il divo, facendo finta di nulla, si avvicina alla palla, ferma sul disco del rigore, e spara. Il portiere è immobile, come paralizzato. E la sfera va fuori. Cevenini, faccia di bronzo, per nulla scosso, dice: «Ecco come fate voi. Adesso vi faccio vedere come si calcia un penalty». E, dopo una finta da campione mette in rete.
Un’altra volta sparì improvvisamente da Milano: nessuno poté sapere, lì per lì, dove si fosse cacciato. Dopo un mese tornò, calmo, sereno: era stato tutto quel periodo in Inghilterra «per imparare a giocare», come disse poi. Volle riprendere subito il posto in squadra, senza dare ulteriori giustificazioni. Fu accontentato, ovviamente, dato che la società aveva bisogno dì lui. Successe, durante una partita, che un compagno di squadra fece un grave errore. Cevenini dapprima si mise a imprecare, a stramaledire, a malmenare il collega. Infine si mise a sedere, in mezzo al campo, sulla palla. Ci volle del bello e del buono, anche da parte dell’arbitro, per convincerlo a rialzarsi. Divenne celebre una sua polemica con Combi, “l’uomo di gomma” specializzato nel parare i rigori, per un tiro dagli undici metri che Cevenini era riuscito a mettere in fondo alla rete. Zizì non la finiva più di gettare sberleffi verso il tranquillo e signorile portiere juventino. Era successo che prima di battere il famoso penalty Cevenini si era avvicinato all’ottimo Giampiero e gli aveva sussurrato: «Bada che calcerò da quella parte», e sparò davvero nell’angolo indicato, dove Combi, gettatosi con prontezza, non era riuscito neppure a sfiorare il bolide tirato con astuzia e con potenza da Zizì.
Questo era il Cevenini dei bei tempi: ma di lui, quando già rivestiva la maglia della Juventus, si conosce un altro episodio. Ha per protagonista anche Serantoni. Si giocava a Milano: Sera era ancora neroazzurro. Il Ceva, ansioso di far bella figura contro i suoi vecchi amici e i suoi vecchi ammiratori del “pulvinare” e dei popolari, cominciò a sparare verso Degani qualcuno dei suoi micidiali palloni. Serantoni, arguto e pacifico (mica tanto, però) spirito veneto, si avvicinò al “terzo”, e gli disse: «Neh, Zizì, si te tiri an coro cussì, mi te masso...». Cevenini sorrise, e continuò a tirare. Il caso volle però che i primi palloni dopo l’intemerata di Serantoni andassero a finire lontano dai pali. E Sera avvicinò ancora a Cevenini per dirgli «Va avanti cussì, Zizi, e mi no te masso più». Nella Juventus, comunque, aveva trovato una seconda giovinezza, e giocò altre tre partite in Nazionale: l’ultima il 28 aprile 1929, a trentacinque anni, contro la Germania a Torino. Ora è morto anche lui, il 23 luglio 1968 nella sua casa di campagna presso Como.
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