È entrato nella storia juventina, più che per le sue gesta, per quel clamoroso (per quei tempi) rifiuto di vestire la maglia bianconera. Nell’estate 1977, infatti, Boniperti lo vuole a Torino. La valutazione è di oltre due miliardi: la Juventus che non era riuscita a raggiungere Riva non vuole lasciarsi scappare quello che è considerato, da tutti, il suo erede. Ma poche ore dopo la firma del contratto, il giocatore rifiuta il trasferimento, con motivazioni in gran parte personali.
Dopo un colloquio con Boniperti e un ultimatum che non gli lascia scelta, Pietro Paolo raggiunge Villar Perosa il 25 luglio, il giorno fissato per il raduno. L’avvocato Agnelli avrebbe rinunciato a lui; dice, infatti, in quelle ore: «Inutile forzare una decisione, si rischia di compromettere sul nascere ogni rapporto».
«Fu una storia davvero strana – ricorda Virdis – io non avevo alcuna intenzione di lasciare la mia terra e per questo puntavo i piedi, ma le pressioni, affinché cambiassi idea, si rivelarono insostenibili. Non so come, ma il massimo dirigente bianconero riuscì a trovarmi e, così, sottoscrivemmo l’accordo nello scantinato di un negozio di Santa Teresa di Gallura».
Pietro nasce in provincia di Sassari il 26 giugno 1957 e si mette in evidenza con la maglia del Cagliari: buona tecnica, forte di testa, fisicamente adatto a combattere alla pari con i difensori più arcigni, grande determinazione, ma anche un caratterino niente facile. La Juventus ripone molta fiducia in quel baffuto ragazzo, in prospettiva futura, per sostituire Boninsegna.
Gli inizi sono molto confortanti: alla prima giornata di campionato arriva il Foggia al Comunale: da 0-0 al riposo al clamoroso 6-0 finale, a cui contribuisce entrando all’inizio della ripresa. Poi, a Napoli, segna addirittura il goal della vittoria, candidandosi a giocare titolare ma, improvvisamente, si blocca. Prima si accampano scuse tecniche, si parla di incomprensioni con il Trap, di difficoltà di ambientamento nella grande città, poi la triste realtà; mononucleosi, campionato finito. La Juventus vince il diciottesimo scudetto e arriva in semifinale di Coppa dei Campioni ma Virdis colleziona poche presenze.
Virdis ha, comunque, la fiducia dell’ambiente juventino e il 1978-79, è una stagione decisamente migliore: pur estraniandosi spesso dal gioco, contribuisce alla causa bianconera in modo importante, facendo da sponda a Bettega e segnando goal decisivi. È il secondo cannoniere della Juventus, dopo Bettega, e un suo goal al Catanzaro in semifinale spiana alla squadra la strada per la conquista della Coppa Italia.
Purtroppo, il rendimento di Pietro non è costante, talvolta è anche poco concentrato in zona goal: la stagione successiva, le sue presenze tornano a scendere e il suo contributo ritorna marginale. La società decide che sia meglio trovargli un posto dove rigenerarsi: ritorna, in prestito a Cagliari per un anno, dove disputerà una stagione positiva, di chiaro rilancio.
«Sono stato io a chiedere a Boniperti di ritornare alla Juventus, perché volevo riprendere contatto con le mie vere possibilità, rifacendo il cammino fin dai primi passi. E poi c’era un altro motivo importante; mi ero reso conto che ero partito con il piede sbagliato, quando arrivai a Torino la prima volta. Quel rifiuto al mio trasferimento condizionò immediatamente il rapporto tra me e l’opinione pubblica; non solo, ma addirittura fra me e i miei compagni. Ecco il motivo per cui non ebbi a rendere a sufficienza, ecco perché sorse quella barriera fra me e i tifosi bianconeri. Quando si è giovani, si crede e si pensa di essere maturi, però non lo si è mai abbastanza; a conti fatti, ci si accorge di navigare nel bel mezzo del mare dell’errore. È quanto è successo a me; per un anno ho vissuto fra così tanti errori da restarne distrutto moralmente».
Il miglior Virdis di sempre si vede nel 1981-82, al ritorno dalla Sardegna. È lui uno dei protagonisti di una Juventus tosta e poco spettacolare, quando è chiamato a sostituire Bettega, infortunatosi seriamente e costretto a chiudere con largo anticipo la stagione e a rinunciare al Mondiale in Spagna. Virdis è capocannoniere juventino, con nove centri in campionato e tre nelle coppe, ma ha il torto e la sfortuna di dare il massimo quando la concorrenza nel ruolo si è fatta, in prospettiva, terribile. La Juventus recupera Paolo Rossi, dopo la squalifica, esplode Nanu Galderisi e stanno arrivando Platini e Boniek; per Pietro Paolo Virdis, non c’è più spazio.
Lascia la Juventus per l’Udinese, dopo 110 partite e ventinove reti, molte in assoluto ma poche rispetto alle premesse. Virdis, tenacemente cercato a vent’anni, dieci anni più tardi, nel Milan di Gullit e Van Basten, si rivelerà davvero un ottimo giocatore.
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL SETTEMBRE 1982
Ci sono personaggi difficili, nel ricco e variegato mondo del pallone. Difficili da capire, da inquadrare in schemi convenzionali. Decifrabili solo a patto di essere superficiali, di lasciare da parte certi dettagli che poi dettagli non sono, ma l’essenza stessa del personaggio. È difficile, tanto per scendere al concreto, essere Pietro Paolo Virdis, personaggio di una Juve presente eppure già sorpassata, viva eppure già irrimediabilmente dietro l’angolo.
La vicenda bianconera di Pietro ha il sapore delle stagioni vivaldiane, compresa com’è tra estati rutilanti e spesso sfarzose e inverni di riflessione e talora di fatalismi. Sono anni importanti, per il personaggio e per la squadra, e al tirare delle somme riesce difficoltoso liberarsi da certi influssi sentimentali, di quel romanticismo che vive a fianco di personaggi del pallone, e più che mai aleggia intorno a Pietro Paolo Virdis.
Non vogliamo ricostruire passo dopo passo la carriera juventina, ma certo non si può fare a meno di qualche riferimento storico. La storia, nel caso di Virdis, fornisce, in effetti, elementi preziosi per inquadrare, tecnicamente e anche umanamente, il personaggio.
Il primo approccio di Pietro alla Juve è già emblematico: il personaggio è consistente, lineare nella sua complessità, per nulla comodo. C’era uno schema tradizionale dell’approdo ai colori bianconeri, fatto di entusiasmi incondizionati, di emozioni, di ringraziamenti a destra e a manca. Virdis se ne discosta apertamente e clamorosamente, soffrendoci per primo, perché è fuor di dubbio che certi rifiuti, meditati e rimeditati, costano più di qualunque assenso.
L’immagine dell’attaccante è già ben delineata quando finalmente avviene il primo, festoso incontro con i tifosi. Un’immagine specialissima, perché ci si attende giustamente molto da un giovane sul cui talento non c’è da discutere. E il giovane sembra essere subito sulla diritta via. Il debutto in campionato è di quelli da ricordare, con prestazione araldica contro Foggia e goal di solare bellezza contro il Napoli a Fuorigrotta. Allora è fatta, abbiamo il nuovo Pietro, pensa affrettatamente qualcuno, che già avvicina Virdis al non dimenticato mito Anastasi. Non è fatta per niente.
Il personaggio è difficile, e certi fattori ambientali lo rendono ancora più difficile. Solo, nella grande e fredda città che esalta i miti, e che lo attende una lotta dura e senza speranza. Subentra un fatalismo sottile che s’impossessa del ragazzo, troppo sensibile per poter fingere indifferenza.
La Juve che arremba sui campi peninsulari preparando l’assalto all’Europa ha bisogno di Virdis soltanto in seconda battuta, potendo ancora contare sul più straordinario compare d’area di rigore dei tempi moderni, Boninsegna detto Bonimba. Per Pietro, briciole di gloria, come la notte del Glentoran, due reti stupende e una prestazione generosissima che passa in sostanza sotto silenzio. E poi, la malattia. Adesso, diventa difficile convincere il ragazzo che il suo fatalismo è fuori luogo. La stagione numero uno con la maglia bianconera è volata via senza soddisfazioni. E l’estate del Mundial argentino e dell’esplosione di Pablito Rossi anticipa per Virdis difficoltà ancora maggiore per l’anno seguente.
Il 1978-79 sembra contraddire, almeno all’inizio, certi presagi poco favorevoli per il ragazzo sardo, che nel frattempo è militare. L’avvio è buono, con due reti di pregevole fattura segnate al Milan nella finale di un torneo di settembre. E contro i Rangers, nella prima partita di una nuova scalata alla Coppa Campioni, Pietro da un saggio delle sue doti di uomo goal realizzando una rete acrobatica che manda in visibilio lo stadio torinese. Sembra che non manchi nulla al definitivo decollo del sardo, che anche in campionato debutta con una doppietta a Verona.
Virdis rimane Virdis, ossia il personaggio non facile, al quale nulla è regalato dal destino. E, infatti, le buone promesse non hanno un seguito adeguato. La Juve patisce momenti di autentico appannamento e proprio Virdis finisce coinvolto nel momento negativo della squadra, che ancora una volta è fuori dalle Coppe Europee e, per aggiunta della malasorte, è pure lontana dalle primissime posizioni in campionato.
Gli alti e bassi della squadra e del centravanti continuano nella stagione successiva. Certi equivoci tecnici sulla funzione di Pietro nel contesto della squadra sono stati risolti felicemente, ma non basta per dare smalto ed entusiasmo a un atleta che ha urgente bisogno di ricaricarsi, sentendosi nel frattempo meno investito di responsabilità. Bettega pivot è il capocannoniere del campionato. Virdis torna al Cagliari in prestito. È la soluzione più saggia. Ritornerà diverso.
È storia di ieri, il prosieguo di questo racconto. Pietro, che ha intanto trovato in Claudia l’ideale completamento della sua maturazione di uomo, torna in bianconero senza proclami e quasi in punta di piedi, ma si capisce subito che è cambiato profondamente, che ha tutto per essere davvero campione tra i campioni. La trasformazione è spiegata al mondo una sera di settembre, in occasione di Juve-Celtic di Coppa Campioni. Il suo goal di possesso, di rabbia ma anche di finezza, la dice lunga sulle sue doti mai del tutto espresse. E la svolta, tanto attesa e finalmente realizzata.
Ora nessuno più si stupisce nel vedere Pietro risolvere da campione partite più delicate con acuti da cannoniere classico. Ad Avellino, a San Siro con il Milan e in tante altre circostanze i goal di Virdis spianano alla Juve la strada per conquistare la doppia stella. Alla fine, nove reti rappresentano il bilancio di un’annata senz’altro positiva.
È stato l’attaccante juventino più assiduo con il goal, ha avuto momenti esaltanti, si è calato con umiltà e determinazione nei panni di Bettega assente per infortunio. Ma non bastano i goal, contro il destino. Ora la Juve, che recupera ed ha finalmente Pablito di tutti i sogni argentini, non può permettersi di sacrificare un personaggio della caratura di Virdis in panchina. Il controsenso tecnico emerge evidente, e non può che convenirne l’interessato. L’ultima delle stagioni vivaldiane di Pietro bianconero è finita in un crescendo di suoni e di immagini festose.
Ma c’è da voltare pagina. Lineare, coerente con un destino certamente non favorevole, Virdis in versione Udinese deve già in partenza smorzare certi entusiasmi, per il noto, serio infortunio che lo costringe a saltare la parte iniziale della stagione. C’è solo da sperare, anzi da credere fermamente, che sia l’ultimo assalto della sorte. Lo merita il campione. Lo merita l’uomo.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL SETTEMBRE 2015
Partirei dall’estate del 1977, quella del “gran rifiuto” alla Juve. Cosa c’è di vero? «Di vero c’era la delusione per aver fallito il pronto ritorno in A con il mio Cagliari. Arrivammo secondi a pari merito con Atalanta e Pescara. Lo spareggio a tre ci disse male e rimanemmo in B. Per cui io non volevo lasciare la squadra perché la volevo riportare in A».
– Tifavi Cagliari da piccolo? «Tenevo per la Juventus, ma andavo all’Amsicora con mio padre per vedere Riva e compagni. Nella stagione dello scudetto non abbiamo perso una partita in casa. E c’ero anch’io tra i tifosi che invasero il campo quando, a due giornate dalla fine, vincemmo lo scudetto. Lì è nato l’amore per la squadra della mia città».
– Ma tu non sei di Sassari? «Io sono di Sindia nel nuorese, a Sassari ci sono solo nato. Poi a sette anni, con tutta la famiglia, ci trasferimmo a Cagliari. Ho sempre avuto la passione per il pallone. Si giocava per strada, in spazi stretti o nei campetti, ore e ore. In quel modo ho messo a punto il mio talento. Mi presero nel settore giovanile della squadra dei Vigili Urbani di Cagliari. Ci allenavamo in un campo vicino all’Amsicora. Alcuni dirigenti del Cagliari mi notarono, ma poi decisero di lasciar perdere».
– Deluso? «Un po’ sì. Ma mi rifeci alla grande perché mi prese la Nuorese e a sedici anni ho esordito in Serie D. Fu duro staccarsi dalla famiglia. A Nuoro, dove abitavano ancora i miei nonni, stavo nella foresteria. Ogni tanto veniva mio nonno Sebastiano a controllare. Faceva di tutto per non farsi vedere. Fu una stagione molto positiva, segnai undici goal. Il Cagliari a quel punto fu costretto a ricredersi e mi comprò spendendo molti più soldi».
– 1974. Dalla D alla Serie A e l’album Panini ti mette subito in figurina. Un bel salto mortale. «Non stavo nella pelle dalla gioia. Ero accanto al mio idolo Gigi Riva, c’erano altri reduci dello scudetto: Tomasini, Niccolai, Nené, Brugnera, Gori. In verità era un Cagliari in fase calante. Io feci il mio esordio alla prima giornata, 6 ottobre 1974, contro il Vicenza. Finì 0-0, giocai con il numero undici al posto di Riva».
– Quanto ha pesato l’eredità di Rombo di Tuono? «Non ci ho mai pensato, perché altrimenti il peso mi avrebbe schiacciato. Mi feci crescere anche i baffi, mi rendevano più uomo maturo. Mi sono messo a disposizione dei compagni. Ero l’ultimo arrivato, non potevo pretendere altro. Certo, il fatto che al pronti via mi abbiano dato la maglia di Riva è stato un segnale».
– In quel tuo primo campionato giochi diciannove volte, ma non segni mai. «Però, con me accanto, Bobo Gori fece dieci goal. Ho contribuito al suo successivo passaggio alla Juve (ride). Tendevo un po’ a deprimermi, anche se sapevo che il futuro era dalla mia. L’anno dopo, specie dopo l’ultimo gravissimo infortunio di Riva, giocai sempre più spesso titolare. Feci sei goal, ma non bastarono a salvare il Cagliari dalla retrocessione».
– E il quadro si complica. «Saltato Riva e con la squadra in Serie B, iniziarono a scarseggiare i finanziamenti. Gli stipendi venivano pagati con sempre maggiore ritardo. L’obiettivo dichiarato per la stagione 1976-77 era l’immediata promozione, ma il periodo d’oro era finito e i soldi andavano comunque trovati. Ergo, la mia futura cessione sarebbe diventata una dolorosa necessità».
– Perfetto, torniamo dunque all’estate 1977. Eravamo rimasti ai veri motivi del rifiuto e tra questi l’attaccamento alla maglia. Poi? «Non volevo lasciare la famiglia. Era morto da poco mio padre. C’erano mia madre e tre sorelle. Ero l’unico maschio, sentivo di dover fare l’uomo con i baffi. Questi sono i veri perché del rifiuto iniziale. Il resto è leggenda, comprese le fidanzate mai esistite».
– E intanto Boniperti viene in aereo a convincerti. «Boniperti era già in Sardegna, in vacanza a Santa Teresa di Gallura. Ci siamo incontrati due o tre volte, sempre di nascosto dai giornalisti. Parlammo a lungo, gli spiegai i miei motivi, lui mi tranquillizzò».
– E così si arriva alla scena finale della discesa dalla scaletta dell’aereo a Torino. «E poi si dice degli elicotteri di Berlusconi. Boniperti era già lì. Copione perfetto: lui sorridente con il giovane ribelle alla fine convinto e ricondotto alla ragione. Quel giorno si sprecarono i flash. E sorrisi anch’io, perché ero più che felice di indossare il bianconero».
– Cosa non ha funzionato a Torino? «Il primo anno mi ammalai, poi ci fu il servizio militare. Nel frattempo Boninsegna non mollava e giocava sempre meglio. Io accusai il colpo. Moralmente ero a terra. Mi aiutò molto Claudia, che conobbi lì a Torino e con la quale mi fidanzai. Lei, fin da quei primi momenti, ha avuto un ruolo fondamentale per me».
– Qualcuno ti ha mai fatto pesare il rifiuto? «Quando le cose non vanno bene, pesa tutto. Su di me c’erano enormi aspettative. In B l’anno prima avevo fatto diciotto goal, ero il nuovo Riva. I tifosi bianconeri non potevano essere contenti di me».
– E i compagni? «Mi accolsero bene, a partire da Gentile e Tardelli. Ma anche il Trap fu bravissimo con me: parlavamo molto, mi incoraggiava, sentivo la sua fiducia».
– Mai capitato di parlare con loro del rifiuto? «Qualche volta con Boniperti. Con i compagni mai. C’erano delle battute, tipo: “Ma che sei venuto a fare?”, “Ma perché non sei rimasto in Sardegna?”. In quelle occasioni mi ha fregato la durezza caratteriale, invece avrei dovuto essere più diplomatico e stare un po’ più al gioco. Mi arrabbiavo e me la prendevo».
– Dopo tre anni in bianconero, torni al Cagliari. Come maturò quella decisione? «Ne parlai con Boniperti, che capì la situazione. Decidemmo che avrebbe fatto bene a tutti un anno a casa. Io avevo bisogno di ritrovare fiducia in me stesso. Il tecnico del Cagliari, Tiddia, fu molto bravo con me. All’inizio non ero tra i titolari, poi iniziai a giocare sempre più spesso, prima di tornare nelle retrovie».
– Ci fu un motivo particolare? «Sì. Ragioni di mercato. Me lo disse Gigi Riva, passato nei quadri dirigenziali. “Dobbiamo mettere in vetrina Selvaggi che ha molte richieste. Tu tornerai alla Juve a fine prestito. Dobbiamo monetizzare”».
– 1981: torni alla Juve e vinci lo scudetto. «Fu la migliore stagione a Torino. L’anno sabbatico mi fece bene. L’attacco si poggiava su di me, specie dopo l’infortunio a Bettega. Credevo nella riconferma».
– Invece? «Ero in vacanza a Parigi, tranquillo. Poi leggo sui giornali notizie su una mia possibile cessione. Chiamo subito in sede. Il Boss (Boniperti, ndr) mi dice che sarò confermato al 99,9%. Invece no. Ci rimasi malissimo. Pensavo di essermi meritato una nuova stagione alla Juve. Ma la società aveva speso molto ed io ero uno di quelli che potevano essere sacrificati a un prezzo interessante. Fu così che mi accordai con l’Udinese».
– Lo vivesti come un declassamento? «No, c’era già Causio e c’era la voglia di investire e far crescere la squadra, come mi spiegò Franco Dal Cin, dirigente dei friulani. La conferma ci fu sia con il mio ingaggio che con quello di Zico l’anno dopo».
– Due anni e l’ennesima risurrezione di Virdis. «Il primo anno fu problematico per un incidente al ginocchio in allenamento. Mi scontrai con il nostro portiere di riserva. Nell’azione precedente mi ero trovato da solo davanti a lui, lo avevo superato in dribbling e avevo fatto goal. Il preparatore gli disse di uscire con più convinzione. Nell’azione dopo, boom».
– Ti sei rifatto nella stagione successiva. «Dieci reti, una bella squadra con Causio e Zico come compagni di reparto. All‘ultima giornata affrontammo il Milan. Feci goal e di fatto si crearono le premesse per il mio passaggio in rossonero. Ariedo Braida, all’epoca direttore sportivo dell’Udinese, tentò di convincermi a rimanere. Ma di là c’era Gianni Rivera che mi voleva. E poi Nils Liedholm, che mi aveva cercato già anni prima quando allenava la Roma».
– In rossonero rimani fino al 1989, in tempo anche per vincere una Coppa dei Campioni. «A Barcellona, 24 maggio 1989. Mi fecero un bel regalo Sacchi e Gullit. Entrai al posto dell’olandese al 60’, eravamo già sul 4-0. Una gioia immensa indossando per l’ultima volta la maglia del Milan prima di andare a Lecce e vivere due stagioni belle».
– Ultima domanda: è mancato un po’ di azzurro alla tua carriera? «C’è stato quelle delle Nazionali minori e soprattutto dell’Olimpica. Mi basta così».
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