«È un campione, ma soltanto dalla vita in su». Gianni Agnelli aveva le idee chiare e, soprattutto, il gusto di esporle senza tante perifrasi. Naturalmente, le parole di Agnelli non volevano essere un complimento, ma neppure una critica severa. Lui, Aldo Serena, non se la prese; in fondo non aveva mai goduto di fiducia illimitata nelle squadre dove aveva militato.
VLADIMIRO CAMINITI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL SETTEMBRE 1985
Serena occupa l’intera pagina con la sua figura di bomber vero. Di giocatori come lui, di atleti sani e schietti come lui, ha bisogno il calcio per la sua continuità ideale. Serena ha cambiato le più grandi squadre nazionali, le due di Milano e il Torino prima di passare alla massima, alla squadra campione d’Europa. Chi più felice di lui? Il professionista vive di traslochi e mutamenti, deve tenere sempre pronta la valigia sotto il letto, almeno fin quando l’età non lo farà... svincolare e scegliere da solo.
1,83 per 72 chilogrammi, l’Aldo è figlio di un conciatore di pelle, ex calciatore pure lui, nato dunque in una famiglia non proprio benestante, ebbe il basket come primo sport della sua vita. Giocava pivot e si esercitava sull’alto. Non aveva il fisico per fare il cestista e fatalmente scivolò sul calcio, cominciando a scoprire la sua attitudine al colpo di testa.
Un colpo di testa sbrecciante, l’Aldo si aiuta come può, anche Bettega, ricordate, si aiutava come poteva, sgomitava, era il primo ad attaccare, i difensori venivano sgominati. Una cosa simile succede con l’Aldo e il suo colpo di testa fa il vuoto nelle difese e atterrisce i portieri.
Ho visto esordire questo nuovo panzer nell’Inter anni fa. Era novembre, – 13 novembre 1978 – una domenica uggiosa ma non troppo per le scale di San Siro e il suo prato bellissimo. Una partita come tante: Inter- Lazio. C’è Altobelli e c’è Serena. Ci sono due polli nel pollaio. Serena ha diciotto anni, toccherà a lui fare gavetta. E l’Altobelli ha tutto per ottenere il bastone di maresciallo e insomma ci tiene alla sua autonomia.
Inter-Lazio 4 a 0 e l’Aldo infila il suo primo gol in A. L’unico nelle due partite giocate nella stagione della rivelazione. Perché l’Inter non se lo tiene, ma già decide di mandarlo a Como a farsi le ossa...
Si tenga presente che il calcio ha solennemente strappato l’Aldo a un duro lavoro in una fabbrica senza depuratore, seguendo la strada del genitore. Benedetto pallone per tanti ragazzi. E la fortuna anche di aver visto il suo fisico d’improvviso sbocciare.
Serena è già sul lago di Garda. Gioca diciotto volte e mette a segno due gol. Non è che ne siano entusiasti. Ha questa testata ribelle, ma anche il piede è ribelle. I suoi fondamentali sono mediocri. Bisogna che il ragazzo vada a scuola e un po’ di profondo Sud gli farà bene. Un altro campionato in B, questa volta a Bari, l’Aldo va subito, con un sorrisino, un rossore, un cenno della testa umile, rifà la valigia.
Che tipo è, secondo voi, Serena? Semplice e complicato. Egli è di posti e cieli che hanno avuto in uno scrittore l’esaltazione più naturale: Comisso. Serena è disponibile e provato a sofferenze ancestrali, egli appartiene a una bellissima gente di persone inquiete anche quando sono quiete, il senso del destino, la caducità delle cose terrene, l’amore per la natura... Serena ha tutto questo dentro, è semplice e complicato, pronto a ogni concessione e duro nell’illudersi; va a Bari e ce la mette tutta.
Ora ha vent’anni, qualche idea se l’è fatta, comincia a capirci di più, l’ambiente pieno di calore lo scalda, 35 partite e dieci gol. Comincia a nascere un nuovo attaccante, pivot frontale, che non sta fermo ad attendere, arranca se è il caso in retrovia, piglia un sacco di botte e ne restituisce una parte, sulle parabole vola a castigare il mondo, felice, inebriato saluta i suoi gol con le braccia levate al cielo. Oh cielo di Puglia così diverso dal cielo di Milano. Che è bello anche esso, quando è bello, ha scritto don Lisander.
All’Inter finalmente si accorgono che il ragazzo ci sa fare, che è tempo di menarlo tra i buoi di casa, di provarlo nella maglia nerazzurra insomma. Detto fatto, il campionato 1981-82 l’Aldo lo gioca per l’Inter, mai giorni dorati di Bari sono una cosa lontana, l’ambiente altolocato, le sotterranee implicite gelosie, gli interessi privati della grande squadra meneghina, non sono fatti per scioglierlo; l’Aldo va a giocare 21 volte ma va a gol soltanto due; troppo poche, forse – e non so a quale geniaccio venga questa idea, forse al Beltrami – è proprio il caso di cederlo in prestito al Milan. Si divertano loro.
1982-83, il Milan. Ora i giochi sono fatti, ora l’uomo sta facendosi largo e ha tra gli occhi azzurri un’espressione non più di beatitudine e d’innocenza. Ascolta musica rock per riposare, legge buoni libri. E nel Milan va molto meglio che nell’Inter, 20 partite e otto gol. Non le gioca tutte perché non è proprio il caso visto che è in prestito.
Il Milan, il Milan, il Milan... E insomma l’Inter si rosicchia le mani. Come è stato possibile? Il ragazzo deve tornare alla base. Realtà romanzesca del calcio. Ritorna all’Inter, è di proprietà nerazzurra, vi gioca quasi tutte le partite, 28, del campionato 82-83, mette a segno ancora otto gol.
Cosa è un asso, un pilastro del gioco frontale, un tardopede, un bolide, una massicciata di muscoli? Cosa è, un asso o un brocco? Non lo ha capito ancora nessuno. Non lo capirà mai nessuno. Ma poi arriva il Torino di Radice. L’Inter lo dà in prestito al Torino. E stato questo il destino di Aldo, non pochi giocatori nella storia del calcio come lui, col destino di emigranti, tipicamente veneto, una dolcezza e una tristezza, quieti e complicati, semplici e difficili, duri nel fondo, di ghiaccio, perciò atleti completi, campioni.
La Juventus aiuterà Aldo Serena a diventare grande. Il Torino gli è servito per questo approdo coi gol bellissimi – nove – che ha fatto. Forse, finalmente, nella Juventus ne segnerà qualcuno in più, non è da escludere, io l’ho studiata la storia della Juventus e ci ho trovato tutti i fermenti ideali alla vita di un calciatore. La Juventus non è soltanto italiana, essa è internazionale come tutte le altre squadre più grandi, con in più il suo stile smagato, la sua perenne innocenza, il suo bisogno di isolamento; la Juventus è nata nell’altro secolo dal ghiribizzo di alcuni figli di papà che non ne potevano più della retorica dei loro genitori, convinti che la pacificazione, l’amor del mondo, fossero alla base di tutto. Quindi altro che faide paesane, altro che rivalità fagocitate da dipendenti in mala fede, da guastatori del costume calcistico. Il calcio ha bisogno di ingenuità a tutti i livelli e comunque ha bisogno di sportività a tutti i livelli. Nessun odio di parte deve essere alimentato.
Cosa farà l’Aldo Serena nella Juventus? Quanti gol metterà a segno? L’ho già visto all’opera con la nuova maglia, l’ho visto tra i nuovi compagni. Vi posso dire che l’operazione di trapianto è stata felicemente realizzata. Aldo Serena così si aggiunge, col suo viso tondo e i suoi occhi azzurri, la sua inquietudine tipica di cittadino veneto comissiano, veneti delle sue plaghe native hanno riempito i piroscafi nell’emigrazione transeoceanica, ai profili più noti della famiglia juventina, si cala nella realtà in movimento professionale e morale della più grande squadra italiana, per partecipare alle sue nuove vittorie.
Ed io non so quale sorte futura, quale nuova emigrazione, attenda questo sano giovanotto, questo intelligente ragazzone, il cui cartellino e di proprietà di Ernesto Pellegrini. Mi auguro tuttavia che la permanenza di questo pivot del gol leggendario – i gol che segnava un Bettega, un Charles – non sia solo un passaggio alla Juventus. Perché scegliere una maglia in fondo, una e non tante, può essere il vero segreto, non commerciabile, di un campione.
Serena vince il suo primo scudetto, realizzando 20 gol in 35 presenze: segna di testa, di piede e anche di sponda (nel derby di andata, deviando fortunosamente una punizione di Cabrini). Si scatena soprattutto in Coppa Campioni, dove timbra il cartellino 5 volte in 4 partite. Nel dicembre 1985 conquista anche la Coppa Intercontinentale contro l’Argentinos Juniors, segnando uno dei rigori nella lotteria dal dischetto. Purtroppo, risulterà fatale per la Juventus la sua assenza nella doppia sfida contro il Barcellona: Briaschi al Camp Nou e, soprattutto, lo sciagurato Pacione al Comunale, con clamorosi errori determineranno l’eliminazione dei bianconeri. Serena rimane anche nell’annata 1986-87, quella che Marchesi porterà al secondo posto dietro il Napoli di Maradona, durante la quale segnerà “solamente” 16 reti in 36 partite.
ENRICO VINCENTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 2010
Montebelluna, Como, Bari, Inter (tre volte), Milan (due volte), Torino e Juventus. Queste le squadre in cui ha militato Aldo Serena. Tre scudetti vinti con tre squadre diverse. Tanti gol segnati, ovviamente molti contro ex squadre. Un vero e proprio bomber di razza: devastante nel colpo di testa, potente nella conclusione, soprattutto di sinistro. Spesso uomo derby, anche perché fra Torino e Milano di derby ne ha giocati molti e su tutte le sponde. Forse proprio per questo è la persona che meglio può presentare il derby per eccellenza, quello d’Italia.
«Non è facile dare una connotazione a questa partita. Più che altro Inter-Juventus era una gara, almeno per come l’ho vissuta io, segnata da una profonda rivalità storica, ma anche da un forte rispetto reciproco. Da interista era la partita più importante della stagione, contro un avversario che non mollava mai. Anche se magari non stava attraversando un grande periodo di forma, era sempre difficilissimo da battere».
– E in casa bianconera cosa voleva dire affrontare i nerazzurri? «La sensazione era analoga. Io non sono stato fortunato, perché nelle mie due stagioni in bianconero, causa infortuni, non sono mai riuscito a giocare la gara casalinga, mentre a San Siro da juventino ho segnato due gol: uno ci ha permesso di pareggiare, l’altro non ci ha impedito la sconfitta. Anche se in quegli anni l’Inter non era certo all’altezza della Juventus, era ovviamente sempre una prova difficilissima».
– Come si viveva la gara nei giorni precedenti e cosa vi chiedevano i tifosi? «Per noi giocatori di certo non c’era bisogno delle pressioni dei tifosi per sentire quella partita. In particolare da bianconero ricordo che nelle gare disputate a San Siro avevamo sempre un folto numero di tifosi essendo la Brianza un feudo di juventini».
– Due società storiche. Come hai vissuto la tua permanenza in entrambe? «Nell’Inter sono stato in vari periodi con presidenti e dirigenti diversi, mentre nella Juventus sono stato in uno dei momenti più felici della sua storia, a metà degli anni ‘80, con Boniperti presidente, Trapattoni allenatore e giocatori come Platini, Cabrini e Scirea. Prima di arrivare credevo fosse una società molto complessa, in cui fosse difficile inserirsi. Dopo una settimana di ritiro mi sono subito reso conto che era una società snella con tre persone importanti da prendere come riferimento: il presidente Boniperti, il proprietario Agnelli e l’allenatore Trapattoni. Con tutti loro si poteva dialogare. Nella Juventus ti sentivi come in famiglia».
– L’inserimento dunque è stato facile. «Questo aspetto mi ha facilitato moltissimo. Infatti, anche se quell’anno la Juventus aveva cambiato ben quattro undicesimi della squadra, partimmo subito alla grande. Credo che quell’organizzazione societaria sia stata una delle ragioni delle nostre vittorie. Ancora oggi se penso a una società ideale mi viene subito in mente quella, in cui ho vissuto due bellissimi anni».
– Un arrivo non facile, perché provenivi dall’altra squadra della città, il Torino. «Anche questo si ricollega a quanto dicevo prima. Era stata un’estate difficilissima e proprio in virtù di queste difficoltà temevo di non ambientarmi subito. Invece è andata molto bene, grazie all’esperienza e all’intelligenza del presidente, dell’allenatore e dei giocatori più vecchi. Persone in grado di capire subito quali potevano essere i problemi per un nuovo arrivato».
– Una stagione coronata subito da grandi successi. «Il mio primo anno alla Juventus è stato probabilmente il più bello della mia carriera calcistica. Quando giochi in una squadra del genere sei inevitabilmente proiettato in una dimensione mondiale. Arrivano giornalisti da tutto il mondo per chiederti interviste. Se fai gol conquisti le copertine dei giornali, insomma tutto viene percepito in una dimensione più ampia di quello che poteva capitarmi con le altre squadre. Quell’anno eravamo partiti benissimo vincendo le prime otto partite e perdendo poi alla nona a Napoli. Quell’inizio ci aveva consentito di guadagnare subito un ampio margine sulla seconda in classifica. Dopo la straordinaria vittoria della coppa Intercontinentale a Tokyo, eravamo un po’ stanchi e questo vantaggio risultò estremamente utile. La Roma ci raggiunse, ma nello sprint finale riuscimmo a vincere lo scudetto».
– Era una Juventus profondamente cambiata dall’arrivo di Lionello Manfredonia, Massimo Mauro e Michael Laudrup e dalla partenza di giocatori come Paolo Rossi, Marco Tardelli e Zibì Boniek. «Quella Juventus aveva un mix di freschezza e di esperienza, per la presenza di giocatori come Gaetano Scirea, che era un esempio per tutti fuori e dentro il campo, di Antonio Cabrini e Michel Platini. Grandissimi campioni che diedero molto ai giovanotti come me Manfredonia, Mauro o Laudrup, pieni di voglia di fare e imparare».
– Poi il ritorno all’Inter. «In realtà io non ho mai scelto la squadra in cui andare. All’epoca non c’era ancora la possibilità di scegliere ed è stata l’Inter, che era proprietaria del mio cartellino, a decidere. Era proprio un accordo tra le due società per cui io dovevo stare a Torino due anni e Tardelli passare ai nerazzurri. Finiti i due anni, l’Inter mi ha richiamato».
– Due esperienze, un comune denominatore: Giovanni Trapattoni in panchina. «Trapattoni è il mio allenatore di riferimento. Con lui ho raggiunto i traguardi più alti della mia carriera. Il suo atteggiamento schietto e leale è sempre stato molto importante per me. Il Trap era proprio l’allenatore ideale per grandi squadre e grandi campioni, perché era immune allo stress, qualità fondamentale per allenare a certi livelli, e perché sapeva capire i giocatori. Era ed è ancora un grande gestore di uomini. Non credo agli allenatori universali, quelli che possono fare bene in tutte le squadre. Ci sono quelli per le compagini più modeste, che sanno dare particolari motivazioni o trovano soluzioni tattiche per colmare le lacune di un gruppo modesto, e poi ci sono quelli come Trapattoni adatti a capire i grandi campioni e a gestire panchine importanti».
– Tante squadre, tante città diverse. È stato semplice per te? «A posteriori posso dire di essere stato fortunato. Ho vissuto anche nei due Milan di Farina e di Berlusconi, completamente agli antipodi come gestione. Ho fatto tante esperienze, incontrando molte persone. Questo mi ha aiutato a capire meglio il calcio, gli allenatori e tutti i problemi che ruotano attorno ad una squadra. Ovvio che nel mio sogno da bambino c’era quello di poter diventare la bandiera di un club. Non è accaduto, e non per colpa mia, ma perché mi hanno sempre ceduto o dato in prestito, comunque è andata bene lo stesso».
– Un’esperienza importante che ora ti serve nella tua veste di commentatore televisivo. «Sicuramente. Innanzitutto perché adoro il calcio e sin da bambino volevo solo giocare a pallone. E poi, come dicevo, mi è stato utile avere tanti allenatori e giocare in squadre con moduli diversi. Ad esempio il Milan di Capello, decisamente diverso dalla Juventus o dall’Inter di Trapattoni. E poi Radice, che ho avuto sia al Torino sia all’Inter, che aveva idee moderne e diverse da molti altri allenatori. Insomma tutto ciò mi ha consegnato un bagaglio di esperienze che oggi sicuramente mi tornano utili».
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