Dio non ascolta tutte le preghiere – scrive Italo Cucci sul “Guerin Sportivo” del 17-23 dicembre 1997 – e in questo i credenti non individuano crudeltà ma giustizia. In morte di Giovanni Alberto Agnelli, affettuosamente chiamato Giovannino, fra i tanti commenti ho sentito quello di una donna che diceva: «Mi dispiace, ma non dimentichiamo che ogni giorno, ogni ora, c’è una morte che giudichiamo ingiusta e magari non la sottolineiamo perché tocca a qualcuno che non conosciamo».
Di fatto, non piangiamo Giovannino perché era figlio di Umberto Agnelli, nipote di Giovanni Agnelli, già investito per la presidenza della Fiat, già baciato da grande successo nel mondo dell’imprenditoria e della finanza come dalla fortuna – si credeva –- fin dal primo vagito. Piangiamo un bravo ragazzo che per i trentatré anni che gli è stato concesso di vivere ha cercato di essere normale, di comportarsi da uomo e non da mito, da Giovanni Rossi (il nome che si dette giovanotto per imparare a lavorare, apprendista operaio alla Comau di Grugliasco) e non da rampollo della più illustre famiglia d’Italia.
Giorni fa ho udito un altro principe ereditario – Emanuele Filiberto di Savoia – dire che sogna di tornare in Italia «per poter andare allo stadio a vedere la Juventus». È uno di “Quelli che il calcio...” e possiamo sospettare – magari gratuitamente – che questa scelta di basso profilo nasconda una tattica politica “intelligente” adottata nel momento in cui ci si rivolge a un Paese che è stanco di Principi, di Miliardari, di Potenti. Ma quando Giovannino ha chiesto a suo padre di andare al “Delle Alpi” per assistere a Juve-Manchester di Champions League; quando, uscito dallo stadio anzitempo per sottrarsi alla curiosità morbosa della gente, ha gioito al gol di Inzaghi mentre un`auto lo riportava a casa: in quell’occasione non chiedeva l’abbraccio della folla, per tanti lenimento per mille pene, né la dedica palese del Supergol di Inzaghi al Supertifoso, ma confermava anzi uno stile di vita da Ragazzo Normale, di un giovane che, avendo tutto, non pretendeva la luna (e si sarebbero fatti in quattro per dargliela) ma la soddisfazione di un lavoro, la responsabilità di una famiglia, l’amore di una moglie, la tenerezza di una figlia. Avuto anche questo, non gli è stato dato il tempo di gioirne, di maturarne l’esperienza con passione di marito e tremori di padre. Gli è stata troncata la vita, semplicemente: forse perché restasse esemplare – chi può penetrare i misteri della divinità? – magari perché esemplare fosse la morte.
Esaudito il suo piccolo sogno di tifoso, Giovannino è tornato a casa, il giorno seguente ha fatto la comunione, ha pregato, poi si è spento. Mettendo fine a una sofferenza che può rendere più forti e coraggiosi di un conclamato eroe di guerra: perché questo sfida la vita mentre il malato l’ama disperatamente.
Ora ricordo Giovannino non perché sia stato l’illustre rampollo della famiglia Agnelli né per il vuoto che ha lasciato, visto che la sua riservatezza l’aveva reso lieve come un sorriso. Lo ricordo perché l’ho conosciuto e ammirato giungendo a pensare che tutti vorrebbero un figlio come lui: educato, sereno, disponibile, semplice e “naturale”. Un giornalista è sempre lieto di coltivare “buone amicizie”, di avvicinare i potenti e magari di goderne la confidenza o – a volte – semplicemente l’indulgenza. Di conservarne, infine, un pensiero “importante” da riferire subito, forse domani, addirittura “dopo”: mi è capitato tante volte. La conoscenza di Giovanni Alberto Agnelli mi ha gratificato di sensazioni inedite che ho tenuto per me e che ricapitolo in un solo pensiero: peccato se ne sia andato, sarebbe stato utile alla pace sociale fra i padroni e i lavoratori, a un reale rapporto democratico rappresentato anche dall’essere insieme in uno stadio a gridare “forza Juve” senza sentirsi proprietario di una passione popolare.
Forse non era il tempo di un uomo così e più che piangerlo è bello pensare che possa ritornare. Uno non può credere solo alla crudeltà divina, in certi momenti, ma anche alla speranza. E quello che dico, con la presunzione di rappresentare i lettori, anche alla famiglia di Giovanni Alberto Agnelli. La speranza è un fiore da non lasciare appassire.
MASSIMO GIANNINI, DA “LA STAMPA” DEL 14 DICEMBRE 1997
Giovanni Alberto Agnelli – come scriveva Byron nella lettera alla madre nel 1804 – era predestinato ad aprirsi «il passaggio verso la Grandezza», aveva iniziato a farlo, ma senza calpestare alcuni valori di fondo: «In cosa credo? Nell’onestà. La mia qualità migliore? L’entusiasmo». Anche con i suoi difetti, «soprattutto la testardaggine», ammetteva. Ma come Byron, mai con «disonore». Un giovane che pur appartenendo a una casata onnipotente, e pur sapendo che presto gli sarebbe toccato lo scettro che fu già del capostipite e fondatore, il bisnonno senatore Giovanni, quando lo chiamavi per un’intervista ti rispondeva puntualmente «perché dovrei interessare tanto?». Oppure, con un eccesso di sottostima: «Il nome che porto non è un passaporto sufficiente per esprimere pareri autorevoli». Un giovane che riusciva persino a scovare i lati negativi del suo essere, appunto, «un Agnelli»: «Sei sempre al centro dell’attenzione, anche quando non ne hai bisogno o non ne hai voglia».
Bisognerebbe ricordare questa studiata sobrietà, nel carattere di Giovanni III, che i genitori non avevano mai influenzato. Le scuole al San Giuseppe dei Fratelli delle scuole cristiane, con la madre Antonella Bechi Piaggio che ripeteva alla sua prima maestra, Giuseppina Piva Ghigo: «Voglio che mio figlio si senta un bambino come gli altri». E lui pareva esserlo davvero, su quelle foto scolastiche del ‘69 in sbiadito bianconero, mischiato in mezzo ai bambinetti con i riccioloni e la giacchetta abbottonata fino al collo. Oppure su quelle estive, più solari, tra gli scogli o le nevi delle ville di famiglia, all’Argentario e al Sestriere, ma spesso anche tra la gente, nelle spiagge «popolari», nel lungomare di Forte dei Marmi. E in fondo anche la scelta di sparire all’estero, ad Atlanta, insieme alla mamma nel frattempo divorziata da Umberto e risposata in seconde nozze con il duca Uberto Visconti di Modrone, e di studiare alle superiori alla Me Callie Academy di Chattanooga, poi economia alla Brown University di Providence, rientrava in questo volontario «esercizio di normalità»: l’America, lontana dai riflettori del tuo «borgo», l’impersonale melting-pot statunitense. Dove a faticare sui libri gomito a gomito con John John Kennedy, anche se sei un Agnelli, e sei «qualcuno» a casa tua, impari a sentirti uno come tanti dentro al grande mondo. Dove ti educhi al mito della «frontiera», il grigio della realtà accenna a colorarsi di ideali. E appunto, la concretezza si impasta con i sogni, e un certo pragmatismo yankee finisce per aprirsi fatalmente un varco, anche nella mente di un giovane europeo che si sente già «classe dirigente»: «John Kennedy – era infatti il motto di Giovanni Alberto – diceva “non chiedere quello che qualcuno può fare per te, ma quello che tu puoi fare per la società”. Ognuno può fare qualcosa per migliorare tutti, ed io cerco di farlo».
Bisognerebbe ricordare come questo senso della responsabilità, questa consapevolezza del ruolo sociale si alternasse in lui con questa pretesa, uguale e contraria, di quasi «anonimato». Di vita «ordinaria», sia pure da ricchissimo studente. Tanto sport al college e fuori, tanta musica di Brian Eno e David Byrne, suo amico personale, e solò qualche botta di bella vita e party newyorkesi, di cui però da questa parte dell’Oceano non si è mai saputo nulla, né si è mai visto un solo flash, una sola fotografia. In quegli anni, il massimo dell’under statement arriva col servizio militare: volontario destinato alla Caserma Vannucci di Livorno, nei para, «per due motivi –dirà poi – il primo perché mio nonno materno ne è stato uno dei fondatori, il secondo perché per me quello è il miglior corpo specializzato dell’esercito italiano». È rimasta un’immagine pubblicitaria per la campagna di arruolamento nei carabinieri, a marcare questa «fede» da soldato, e paradossalmente questa voglia di non apparire, di nuovo, un «privilegiato»: nove ragazzi qualsiasi in uniforme, sotto la scritta «vieni nei carabinieri, una professione sociale». Tra «Paolo, Elicotterista», «Silvano, servizio d’istituto» e «Antonio, Reparti Mobili», anche lui, in fez e mimetica: «Giovanni, paracadutista». «Da ufficiale, e con mansioni diverse –- fu la sua ammissione postuma – avrei fatto il carabiniere tutta la vita».
E invece, come lui sapeva bene, c’era pronta un’altra vita, ad aspettarlo dopo la laurea. C’era la Fiat. «Me ne occuperò – riconosceva all’epoca del campus di Rhode Island – come è inevitabile e normale che sia». E allora, bisognerebbe ricordare le tappe della sua «carriera» aziendale, a partire da quell’esordio a 18 anni ormai fin troppo esaltato dall’agiografia ufficiale: a Grugliasco, con la tuta da apprendista-operaio e nascosto dietro al nome falso di Giovanni Rossi, per due mesi alla catena di montaggio della Cornali. Per lui niente di strano: as usual, come il Byron che se ne va in Turchia, in Italia e in Grecia ad aiutare gli insorti. Per la famiglia un po’ meno, benché proprio il padre gli avesse ricordato che «tre mesi di vacanza d’estate sono troppi», e Romiti, affezionatissimo al ragazzo, gli avesse suggerito «laureati, e inizia a lavorare prima che puoi». Ma né Umberto, né Cesare, avrebbero immaginato che Giovanni Alberto volesse entrarci proprio da una «porta» come quella, nell’universo del lavoro. Un primo, beve «strappo» a uno stile e a una tradizione. «Non sapevamo chi fosse – avrebbe poi ricordato Luigi Berton, delegato Cgil–- non mangiava con noi in mensa, ma era un ragazzo alla mano, parlava di calcio».
Bisognerebbe ricordare l’apprendistato nell’Ibm americana, negli uffici amministrativi della Teksid, poi la scelta della Piaggio, l’approdo e il tentativo di rilancio della leggenda italiana delle due ruote. Assistente del presidente Gustavo De Negri, consigliere delegato della Motovespa in Spagna, infine il vertice del gruppo, la guida di un «giocattolo» da 2500 miliardi per 4500 addetti, a soli 29 anni. Un’esperienza per lui totalizzante, piena di soddisfazioni manageriali, ma ricca anche di problemi. Buona l’intuizione di scommettere sugli emerging markets, la Cina e l’India, buona l’idea di reinventare, modernizzandola, la mitica «Vespa», ma sofferto il ritorno al pareggio e il recupero di quote di mercato, per l’aggressione dei competitori globali, Honda, Aprilia, Yamaha. Poco importa. Resta il fatto che Giovanni Alberto, per la gente di Pontedera, era un mezzo salvatore: si oppose al progetto di trasferire le produzioni a Nusco, e rafforzò invece l’insediamento toscano, dove s’era fatta la storia passata della Piaggio. Così, in un colpo solo, si ingraziò Peppone e Don Camillo: stimato dal sindaco pidiessino Enrico Rossi, che un giorno se lo ritrovò di fronte in municipio per un caffè di riconciliazione tra l’azienda e la città, dopo la stagione degli scontri sindacali; benvoluto dal parroco del Duomo Enzo Lucchesini, che levò al cielo una sua prece: «Speriamo che non vada via – disse una volta – ha fatto tanto per la gente di qui!».
Bisognerebbe ricordare, di quegli anni, anche lo stile e gli hobby di Giovanni III. Lo sci o il golf al sabato, lo stadio alla domenica, e sempre Forza Juve, «giocattolo» di famiglia pure quello, per divertirsi ogni tanto, allenandosi con lo squadrone di Platini o Pablito Rossi. Poi i completi Tasmania cinque giorni a settimana, rigorosamente grigi antracite, ma le camicie button down con i polsini sempre slacciati, al contrario di quelli abbottonati con l’orologio sopra, tanto cari allo zio Gianni. Perché comunque un Agnelli qualche vezzo, qualche stravaganza nel suo look lo deve avere. La vita appartata, nel «rifugio» della tenuta Varramista, villone quattrocentesco disegnato da Michelangelo dove aveva vissuto la nonna materna Paola. Le 12 ore quotidiane in ufficio, tra poster di «Vacanze romane» con Gregory Peck e di vespette d’epoca, la sua porta sempre aperta, le riunioni open con i collaboratori. «Li ascolto tutti – diceva – e cerco di far sì che ogni decisione venga condivisa». Un’idea di trasparenza aziendale, e di filosofia manageriale, che si materializzò due volte. La prima con un suo «manifesto dei valori Piaggio» appeso in direzione e nei reparti a Pontedera, il cui motto era: «L’etica del lavoro è il caposaldo del vivere in azienda, l’etica dell’azienda è il caposaldo del suo agire nel mondo». La seconda con un altro «strappo» alle tradizioni di gruppo: nell’aprile del ‘96 un’intervista sull’Herald Tribune, ad Alan Friedman, già poco amato in casa Agnelli per un suo ruvido libro sulla famiglia edito da Longanesi, nella quale invocò limpidezza nelle strategie della grande industria, criticò il «capitalismo delle stanze chiuse» e dei sindacati di controllo, insomma sfiorò la lesa maestà verso il gruppo di famiglia e verso la Mediobanca di Cuccia, da sempre cara a Romiti. «In Italia arrivò a dire dovrebbero nascere almeno 5, 6 nuove Mediobanca...».
Bisognerebbe ricordare infine l’«educazione sentimentale», e quindi le tantissime conoscenze, ma le poche vere amicizie di questo ragazzo: «Ne ho poche – ammetteva – di quelle con la A maiuscola, intendo». E qui ritorna Byron, che scriveva «posso avere mille amici, che sono come i compagni nel valzer di questo mondo, ma una volta finito il ballo non ti ricordano poi tanto...». Comunque, tra i pochi amici una curiosa «contiguità» con un po’ di gente di Sinistra: Valerio Veltroni, fratello di Walter, Marialina Marcucci, persino Michele Santoro, domatore di tante tele-piazze ai tempi della kabulista Raitre. Di nuovo: tutto normale per Giovanni, perfetto «impolitico» come si è sempre professato, ma un po’ meno per un Agnelli. E bisognerebbe ricordare soprattutto l’infinita teoria di amori veri, falsi, o presunti, che Giovanni Alberto (anche qui, molto byronianamente) s’è portato dietro fino all’ultimo. Di tutto gli è stato attribuito, com’era ovvio per un giovane di quel «partito», rimasto scapolo fino a 32 anni: eteree fanciulle e sconosciute, contesse, duchesse, principesse, attrici e top model. «Purtroppo non mi risulta, e comunque non come vorrei» si nascondeva lui, con la solita discrezione. Ma qui bluffava, e facevano fede le tante foto, quelle sì pubblicate dai rotocalchi e dai settimanali: lui disinvolto con sigaretta o sigaro a fianco di Antonella Interlenghi o Domiziana Giordano, in smoking con Alessia e Albiera Antinori, in polo e maglione con Laura Avogadro di Collobiano, o con la cugina Maria Brandolini D’Adda. Ne hanno fatta meno, di fede, le voci sui suoi innumerevoli flirt con Cindy Crawford, Valeria Marini, Francesca Dellera, Alessandra Martines, la baronessa olandese Anna Marie Van Pallandt, giunonica e muta bellezza nordica affiancata chissà mai perché a Biscardi in un vecchio Processo del lunedì televisivo. E chi più ne ha più ne metta, per quello che ormai vale. Ciò che conta, e che gli è rimasto fino agli ultimi passi su questa terra, è l’amore, quello vero, con un’altra ragazza bella e ricca, quasi «normale» come lui, l’anglo-americana Avery Frances Howe, già architetto nello studio di Richard Rogers co-progettista del Beaubourg, conosciuta chissà come e chissà dove, e sposata il 16 novembre di un anno fa. Bisognerebbe ricordare quell’immagine ancora serena, il giorno delle nozze a Pisa, che dovevano restare segrete e invece non lo furono, lei in un cappotto di cachemire bianco, lui in tight e gardenia all’occhiello, a camminare insieme dopo la cerimonia verso un futuro che mai avrebbero potuto immaginare. Allietato solo, poco prima della tragedia finale, dalla nascita di una figlia: Virginia Asia, che cercherà suo padre tra le pagine di un album di fotografie, senza poterne ricordare l’abbraccio.
Bisognerebbe rammentare tutto questo, nel giorno in cui l’articolo di giornale diventa un epitaffio, e non invece – come doveva essere – un augurio per Giovanni Alberto asceso al vertice del gruppo. Era il progetto di suo zio Gianni, che annunciò al Nouvel Economiste l’investitura: «Rientrato dalla guerra – aveva detto l’Avvocato – l’uomo di fiducia di mio nonno, Vittorio Valletta, mi chiese: “Il presidente della Fiat sarà lei o sarò io?”. Io gli risposi “lei, io non mi sento pronto”. Mio nipote risponde come me 50 anni fa. Ma io gli ho già messo un piede nella porta, gli ho detto che si deve preparare».
Non è stato così. «Lasciami vivere bene, se possibile, e morire senza dolore...», scriveva Byron, ancora lui, in una delle sue lettere più belle. Il Destino, Dio, il Caso: qualunque cosa abbia deciso della vicenda umana di Giovanni Alberto, gli ha concesso solo uno di questi due privilegi, e solo per un attimo. Un attimo intenso, pieno di tutte queste cose che bisognerebbe ricordare: di onori e di oneri, di fama e di sogni fuori dal cassetto. Ma finito così, al vento d’autunno, nel parco dei Roveri dov’era cominciato.
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