sabato 31 ottobre 2020

Miralem PJANIC

 


«Respira Mire, questo è il ritornello che mi ripeto nella mente, nei momenti decisivi di una partita. Ed è quello che continuo a ripetermi ora, mentre provo a scrivere quello che sto provando in questo momento. Sono arrivato quattro anni fa per provare a vincere tutto. Perché anche quando non ci riesci, questo è ciò che deve provare a fare sempre un calciatore della Juventus.
Sono stati 4 anni intensi, vissuti al fianco di grandi professionisti ma soprattutto di amici veri, con i quali ho condiviso vittorie e record, ma anche amare sconfitte ad un passo dal traguardo. Sono stati anni in cui sono maturato come uomo e come padre. Questa è la città dove Edin è cresciuto, diventando il primo tifoso di questa squadra, e dove con la mia famiglia abbiamo costruito i più bei ricordi della nostra vita.
Penso che non si dica mai a sufficienza grazie, e quindi: Grazie alla Famiglia Agnelli. Grazie a tutti i compagni che hanno condiviso con me questo percorso. Grazie a tutti i dipendenti e i membri dello staff, che mi hanno aiutato a crescere. Grazie ai tifosi che ogni giorno mi hanno fatto sentire speciale.
Perché se c’è una cosa che ho imparato, è che non esiste un tempo minimo per innamorarsi. Alla fine è molto semplice: indossa questa maglia come una seconda pelle, dai sempre tutto e, non sbaglierai mai. Ora però abbiamo poco tempo da perdere e molto da andare a vincere fino al termine della stagione.
E quindi respira Mire, perché quello che oggi ti sembra così triste, da domani sarà uno splendido ricordo che porterai nel cuore per tutta la vita».

ALESSANDRO BISETTO, CATENACCIOECONTROPIEDE.IT DEL 28 GENNAIO 2020
La Bosnia degli anni Novanta, quelli della guerra per i paesi dell’ex Jugoslavia, non rappresenta di certo uno di quei contorni ideali per crescere un figlio e garantirgli un futuro sereno. Tra i tanti che lasciarono in quegli anni i Balcani per cercare una vita migliore, ci sono anche Fatima e Fahrudin Pjanic, che il 2 aprile del 1990 diedero alla luce Miralem, in quel di Tuzla, terza cittadina per grandezza della Bosnia.
Fahrudin allora militava nel FK Drina, squadra di terza divisione jugoslava che fornì a lui e alla sua famiglia, dopo una serie di numerosi rifiuti, il visto per lasciare il Paese e fuggire in Lussemburgo, lontano dagli orrori della guerra che di lì a poco avrebbe messo in pericolo i suoi affetti più cari e con la possibilità, quindi, di ricominciare nuovamente una vita che d’un tratto si era fatta buia e senza futuro.
Miralem fin dai primi anni cresce a pane e pallone: cerca sempre di seguire il padre sia agli allenamenti che alle partite e si fa notare per la sua voglia di calcio. A sette anni inizia a tirare i primi calci nelle giovanili dello Schifflange – squadra nella quale militava il padre –, dimostrando da subito grandi qualità e un’attitudine al gioco degna di nota. Il calcio europeo non poteva che essere una conseguenza e l’occasione si concretizza a Metz – città geograficamente molto vicina al confine tra Francia e Lussemburgo – anche grazie ai consigli di Guy Hellers, centrocampista della nazionale lussemburghese, passato proprio nel Metz nel corso della sua carriera e che all’epoca garantì per Pjanic dopo averlo visto brillare nel Granducato.
Servono quattro anni al ragazzo per scalare le gerarchie del club francese e presentarsi al cospetto della prima squadra, nella quale esordisce da subentrato all’età di 17 anni in un Metz-PSG terminato 0-0. Il suo primo contratto da professionista diviene realtà pochi mesi più tardi: un triennale firmato con i Grenats, come vengono soprannominati per il colore della loro maglia. Un contratto festeggiato con il primo gol della sua neonata carriera, verso la fine del 2007, su rigore – e non è un dettaglio da dimenticare così facilmente – contro il Sochaux, che permette a Pjanic di inserire il suo nome tra i più giovani marcatori della Ligue 1.
Chiude l’annata con 38 presenze, accompagnate da 5 gol tra campionato e coppa – nella quale il club peraltro non sfigurò affatto in quella stagione, anche grazie alle prestazioni dello stesso Pjanic –, non sufficienti però a evitare la retrocessione della squadra granata, costretta così a vedere partire buona parte dei suoi giovani più talentuosi, attratti dalle sirene del calcio europeo più affermato.
Tra questi ovviamente non può non essere inserito Pjanic, che il 6 giugno del 2008 ufficializza il suo passaggio al Lione, per la “modica” cifra di 7,5 milioni di euro. La squadra viene da una serie di annate fantastiche, forse le più gloriose vissute all’ombra dello Stade de Gerland – oggi non più utilizzato –, e sta ancora festeggiando il settimo titolo nazionale consecutivo, conquistato pochi mesi prima. L’OL ha bisogno di una mini-rifondazione tecnica, palcoscenico ideale per far crescere un giovane affamato come Miralem, che nella sua stagione iniziale ha la possibilità di studiare da uno dei maestri del centrocampo brasiliano e mondiale, Juninho Pernambucano, specialista assoluto dei calci piazzati.
La sua prima stagione a Lione non inizia nel migliore dei modi: Pjanic infatti, in uno dei suoi primi match di campionato, subisce un grave infortunio al perone per una brutta entrata di Dalmat – centrocampista passato anche in Italia, all’Inter tra le altre – e si rivede in campo solamente a metà stagione, nella quale vuoi per adattamento in un nuovo club o per le precarie condizioni fisiche, non ha inciso come ci si aspettava.
La stagione successiva per Pjanic è quella della svolta: la prima novità riguarda il lato tattico e vede il ragazzo prendere in mano le chiavi del centrocampo dei Gones, visto anche l’addio di Juninho – migrato verso i ricchi lidi del Qatar, dopo aver realizzato 100 reti con il club, 44 da calcio piazzato –, dal quale prende in eredità anche il numero 8. In un avvio di stagione a dir poco brillante, arriva anche il primo gol, lo segna in Champions League e, per lo strano gioco di destini che contraddistingue questo magico sport, viene realizzato su calcio di punizione, con indosso la maglia del suo maestro predecessore. In quell’annata non sarà l’unico nella competizione – cinque in totale a cui si aggiungono sei reti in campionato –, che vede il suo club arrivare fino alla semifinale poi persa nettamente contro il Bayern Monaco, dopo aver eliminato il Real Madrid agli ottavi.
L’annata a venire, quella 2010/2011, sarà per lui l’ultima in terra francese. La decisione di lasciare il Lione non è influenzata, come spesso accade, da un cambio di guida tecnica – che rimane saldamente nelle mani di Puel, a cui Pjanic deve molto della sua maturità e intelligenza tattica –, quanto piuttosto per l’ingombrante presenza di un altro talento francese – mai veramente sbocciato – che in quella stagione diventa suo compagno di squadra, Yoann Gourcuff. I due assieme in campo si vedono raramente e il bosniaco inizia così a vedere molto spesso la panchina, relegato ai margini del progetto dallo stesso club che lo ha visto diventare grande tra i grandi.
L’addio è cosa fatta l’anno seguente, dopo 121 presenze, 16 reti e 21 assist, cambia Paese e approda in Italia, alla Roma, per 11 milioni di euro, nell’anno in cui Luis Enrique approda sulla panchina giallorossa. Con l’allenatore spagnolo, proveniente dalle giovanili del Barcellona, Pjanic trova da subito spazio in un calcio fatto di tecnica e fraseggio prolungato con la palla tra i piedi. Un concetto forse troppo astratto e mal visto in un campionato come quello italiano, che alla fine della stagione vede la Roma non qualificarsi dalle coppe europee dopo 15 anni, con il conseguente esonero del tecnico dopo una sola annata.
Le sue stagioni nella Capitale hanno visto una serie di alti e bassi dovuti anche e soprattutto ai continui cambi di allenatore: come detto Luis Enrique, seguito dopo una sola stagione dal romantico ritorno di Zeman – tecnico con cui lo stesso Pjanic non ha mai avuto un grande feeling e che nel corso della stagione lo ha relegato molte volte in panchina –, cacciato anch’egli dopo un solo anno per far posto a Rudi García. Il francese intuisce finalmente le potenzialità dell’incantatore bosniaco, che infatti nella stagione 2013/2014 – la terza in giallorosso – gioca quasi tutte le partite di campionato e soprattutto le disputa da grande campione, così come ci si poteva aspettare dopo averlo visto nei suoi primi anni in terra transalpina.
Impiegato da interno di centrocampo nel 4-3-3 o da trequartista nel 4-2-3-1, il suo livello di calcio si alza notevolmente: memorabile il suo gol contro il Milan nell’aprile del 2014, dopo aver saltato da solo tutta la difesa rossonera e spiazzato con un tocco delizioso l’incolpevole Abbiati. Quel che colpisce è la fluidità del fraseggio e la facilità con cui intuisce linee di passaggio proibitive per chiunque altro, il tutto accompagnato da un piede sopraffino che gli permette di realizzare diverse reti dalla distanza e da calcio piazzato, la specialità della casa.
Nei suoi tre anni con Garcia in panchina saranno 23 le reti messe a segno e 27 gli assist forniti ai compagni, con la ciliegina sulla torta della doppia cifra in entrambe le specialità raggiunta nel 2015/2016. Numeri che gli valsero l’attenzione delle grandi d’Europa: il piccolo principe – come veniva soprannominato a Roma – era finalmente diventato re, ed era giunto il momento di indossare la corona, cingendosi dei trofei assenti dalla sua bacheca fino a quel punto.
Quello che porta il giocatore a Torino, sponda Juventus, è un trasferimento che fa scalpore: la squadra bianconera rappresenta per Pjanic l’occasione di vincere, celebrando una carriera brillante ma allo stesso incompiuta. Viene pagata la clausola di 32 milioni di euro – messa nero su bianco dalla Roma durante il rinnovo del calciatore nel 2014 – e uno dei più forti centrocampisti della Serie A di quel periodo cambia clamorosamente maglia.

VALERIA ARENA, JUVENTIBUS.COM DEL 29 GIUGNO 2020
Ho scritto un necrologio persino per la vendita di Hernanes, figuriamoci se posso esimermi dal salutare per sempre Miralem Pjanic.
Pochi giorni fa dissi ad alta voce, e per alta voce intendo che pigiai a caso le lettere della tastiera del cellulare, che una delle missioni di questo anno sgangherato sarebbe stata quella di determinare quale membro della coppia si fosse disinnamorato per primo, quindi se Pjanic della Juve o se la Juve di Pjanic, mentre a individuare il momento esatto in cui la magia sarebbe evaporata, ho rinunciato pressoché da subito, perché, come canta bene il poeta, quando finisce davvero l’amore ancora nessuno lo sa. E lo so che state tutti aspettando che vi urli la parola Cardiff per difendere la mia reputazione, ma no, non credo che nessuno si sia disinnamorato di qualcun altro dopo quella partita, a parte Dani Alves, ovvio.
Avanzando a tentoni per pregiudizio, punterei tutto sulla Juve, d’altra parte è (quasi) sempre la Juve che si disinnamora per prima, è (quasi) sempre la Juve che ti mostra la porta, sia per entrare che per uscire, è (quasi) sempre la Juve che ti saluta e si volta dall’altra parte, eccetto per Dani Alves, ovvio. Sarebbe quindi da stupidi non rendersi conto che la dipartita di Pjanic è il tassello numero uno, anzi due se consideriamo anche Sarri, di un cambiamento che la società ha già annunciato lo scorso anno. Insomma, pare esserci un nuovo centrocampo in town, per cui forse Babbo Natale può anche stracciare i quintali di letterine che abbiamo scritto in questi anni e che lui ha prontamente ignorato.
Il centrocampo, dicevamo, la spada di Damocle che ha iniziato a pressare sulla ferita sin dallo smembramento di quell’ottava meraviglia del mondo che era ritrarre in successione Vidal, Pogba, Pirlo e Marchisio. Ed è qui che inizia il necrologio dedicato a Pjanic, perché, purtroppo per lui, non si può procedere su questa strada ignorando chi e cosa è stato chiamato a sostituire.
Fateci caso, tutto ciò che c’è da dire su una questione, è già stato spiegato per bene da quelli bravi, come quel “magari avessimo avuto noi questi attaccanti qui” di Andrea Pirlo, che lascia presupporre un altrettanto “magari questi attaccanti qui avessero avuto noi”. Una sintesi perfetta che, per la sua spietata semplicità, possiamo custodire gelosamente nei giorni a venire e poi con sfregio ignorare perché, a conti fatti, il risultato finale è stato praticamente identico. Per arrivare alla volta celeste e trafiggere le stelle bastava solo un po’ di tempismo e una anagrafica che giocasse a favore nostro.
Torniamo però a Pjanic. Il necrologio, d’altra parte, dovrebbe essere il suo, ma qui non se ne vede ancora traccia, a dimostrazione di quanto sia difficile dibattere di lui senza citare in modo compulsivo Pirlo. E allora colgo l’occasione per trasformare questo elogio funebre in una lunga e tenera carezza a tutti quelli che sono chiamati a occupare i posti lasciati vuoti dagli Dei, a sostituire i fuoriclasse e persino a non farceli rimpiangere, pure se molto bravi. Non credo avremo difficoltà a ricordare Pjanic positivamente, d’altronde la sua carriera e la bacheca dei trofei, ossia la presunzione scesa sulla terra e fattasi carne, parlano abbastanza chiaro, così come non credo che saremo in grado di negare che, se di quelli come Pirlo non ci stanchiamo mai, di quelli come Pjanic, bravi come solo sanno essere gli umani, e ciò pieni zeppi di idiosincrasie, presto o tardi ci stufiamo.
Il più grande regalo che possiamo fargli, quindi, è ricordarlo per quello che è stato, e cioè Miralem Pjanic, e non per quello che non è stato, un Pirlo a metà con un altro nome, e che probabilmente non sarà mai. Magari finalmente disimpareremo a cercare come degli ossessi gli eredi di e inizieremo a focalizzarci sull’unicità di ogni giocatore, nel bene e nel male.
Ricordiamoci di Pjanic per i suoi pregi, tanti, e per i suoi difetti, tantissimi. Anche perché, parliamoci chiaro, Pjanic non sarebbe Pjanic senza quell’indolenza tutta sua, senza quella volontà di sbattersi il meno possibile, senza quelle giocate che fanno cadere nel dimenticatoio ogni fesseria o svogliatezza pregressa. Probabilmente sarebbe un altro giocatore e noi un’altra squadra.
Ora ci aspettano due mesi di separazione in casa con il pensiero fisso di un altro inizio nella testa per entrambi e un grattacapo mi aleggia dentro la scatola cranica: la passione è proprio finita o ci sarà spazio per gli ultimi fuochi?

MASSIMILIANO MINGIONI JUVEATRESTELLE.IT DEL 29 GIUGNO 2020
Dunque è arrivata l’ufficialità, nel mese pertinente, visto che di solito è dedicato al calciomercato, ma in pieno svolgimento della coppa Covid: Miralem Pjanic, pur continuando a esserlo, non è più un giocatore della Juventus. Il singolare frangente rende arrischiato un bilancio, perché ci sono ancora parecchie partite da giocare, e tuttavia la sensazione diffusa è quella di un epilogo fatale, scontato, per cui già da tempo il nostro 5 aveva come scritta addosso la parola “ex”.
Pur sperando di poter aggiornare il palmares entro agosto azzardiamo quindi un résumé del quadriennio da juventino del bosniaco; e tanto per non farci mancare un cliché, spariamo subito un “luci e ombre”. Arrivato con la fama di calciatore di sopraffina qualità tecnica ma con la preoccupante tendenza a svaporare nelle partite ad alta intensità agonistica, Mire ha sostanzialmente confermato il ritratto pur vivendo, in modo positivo, una decisa trasformazione tattica, da trequartista elegante ma talvolta frivolo a concreto, puntuale regista di centrocampo.
Trasformazione fortemente voluta da Massimiliano Allegri, e quindi controversa nello strampalato clima di contestazione permanente accesosi nei secondi due anni e mezzo di gestione del livornese, malgrado la ricca messe di trofei. Cui, diciamolo, Pjanic ha contribuito in modo sostanziale, aggiungendo al bagaglio già noto (aperture raffinate, tocchi eleganti, punizioni micidiali) in particolare una robusta crescita in fase di interdizione, di protezione della difesa, di “legna”, a volte persino con qualche eccesso nei falli per mancanza del “tempo” mentale da medianaccio; a uno di questi falli, non sanzionato con il massimo della pena in un noto Juve-Inter, è legata la più recente delle 12000 leggende nere sulla Juve che ne inficerebbero l’albo d’oro dal 1905.
Molto bene i primi due anni (è lui, con Khedira, a formare il centrocampo che ci porta fino a Cardiff), decisamente in ribasso i successivi, con vistosa crisi quest’anno: i “150 palloni da toccare a partita”, pomposamente auspicati da Sarri, non si sono materializzati, e quelli toccati lo sono quasi sempre stati a cortissima gittata; forse un rapporto non sbocciato col tecnico, forse un’insofferenza al ruolo di mero smistatore di corrispondenza, certamente la frustrazione per essere stato estromesso dal ruolo di tiratore principe da un Ronaldo ingordo quanto (da fermo) inefficace, sta di fatto che il Pjanic di questa stagione non ha mai inciso, talvolta ha irritato, quasi sempre ha dato l’impressione che il suo ciclo fosse concluso.
Inspiegabilmente, allenatori con decenni di esperienza non hanno raccolto lo struggente appello di alcuni tecnici da tablet che, contro ogni evidenza umana, invocavano per Mire una trasformazione in mezzala alla Lampard: vedremo se al Barcellona (non proprio una destinazione da fine carriera, per un giocatore secondo certe tesi “rovinato” dal solito noto) sarà colto questo inesplorato spunto o se anche i catalani andranno appresso, con burocratico grigiore, alla realtà.
Pjanic ci lascia una plusvalenza sostanziosa, il ricordo di alcune giocate sublimi, e però la sensazione, sommessa ma tenace, di una rosa non del tutto colta, di un talento non del tutto consacrato, di un “quasi”, che sarebbe potuto diventare il top del ruolo con un po’ di personalità in più. E, diciamolo, con dei colleghi di reparto un po’ migliori: ma questa non è certo colpa sua.
Speriamo non stacchi definitivamente la spina in questo strano scorcio di stagione ancora da giocare, e per il dopo gli auguriamo “quasi” ogni bene: eccetto, si capisce, quello che auguriamo, ahinoi invano da tanti anni, a noi stessi.

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