martedì 21 aprile 2020

Ercole RABITTI


All’alba degli anni settanta – racconta Vladimiro Caminiti – è riuscito ad arrivare alla prima squadra un maestro di calcio come monsù Rabitti. Fu un momento di fortuna, magari, oltre che specialissimo nella storia della Juventus, alla caduta del presidente oratore Catella all’inizio del regno del geometra Boniperti come dirigente unico responsabile, ecco l’allenatore delle squadre minori, il piccolo sanguigno, dalle orecchiette caprine, dagli occhi azzurri smerigliati, Ercole Rabitti riceve la squadra all’uscita dalla scena dell’hidalgo appassionato Luis Carniglia e la guida per mesi con mano tecnica audace e sicura, con idee modernissime e preparazione atletica di squillante novità, meritandosi la considerazione pur di professional navigati come Helmut Haller.
Gran momento oltre che per monsù, per il suo allievo prediletto Furino. Finalmente appagati e compensati, anche economicamente, i sacrifici di un maestro vero di calcio, nell’avviare, nell’educare, nel migliorare il calciatore in erba formandolo nel carattere oltre che nel fisico. Furino ha preso da lui, ha imparato i segreti del suo calcio.
La parentesi di Rabitti allenatore della Juventus si esaurì con uno stratagemma della società. Improvvisamente, Rabitti accusò dolorini intercostali e l’opinione anche dei sanitari fu che un periodo di riposo gli facesse assai bene. Tanto più che su suggerimento di Italo Allodi, arrivava come allenatore per la stagione ‘70-71 Armando Picchi. Ma si intuiva già che la parentesi bianconera Boniperti-Allodi non era destinata a vita lunga. Allodi, personaggio alquanto spettacolare e di eccentrica vivacità mentale, non riusciva a legare con Boniperti soprattutto sul piano delle valutazioni tecniche.
Rabitti giocatore aveva cominciato da ala destra e centravanti, diventando poi una mezzala. Aveva buone doti tecniche ma scarsa autonomia. Iniziò a giocare nell’Entella società giovanile torinese. Lavorava alla Fiat come disegnatore reparto autovetture e autocarri di Mirafiori sezione impiegati e ricorda quegli anni come una corsa sola a prendere tram sbocconcellando panini e saltando pasti. La passione era tanta e riuscì a colpire Berto Caligaris, il quale lo accompagnò dal gran dirigente Mazzonis cui disse testualmente: «“Questo ragazzino per me ha le doti a fior di pelle. Prendiamolo, non si può sbagliare”. E Mazzonis disse: “Cosa fa?” “Lavora alla Fiat” rispose Caligaris. E a me, Mazzonis chiese: “Quanto guadagni alla Fiat?” “450 lire al mese” ho risposto. “Alla Juve te ne daremo 600” rispose lui. “Non sono riuscito a dire di sì tanto ero contento...”».
Di sé come allenatore della Juventus in quella esperienza cruciale del torneo 69-70 parla con rancore e quasi rabbia. Rancore e rabbia anche nei propri confronti, la considera la grande occasione non sfruttata della vita professionale. «Diciassette risultati utili consecutivi, con otto vittorie di seguito. Purtroppo bo preso in mano la squadra in un momento di trasformazione della società. Mi si dice che bo mancato di capacità psicologica. Certo oggi non ripeterei certi atteggiamenti».
In realtà, Rabitti non riuscì a intendersi con Boniperti e non riuscì ad apprezzare Allodi. Fierissimo della sua parte tecnica di duca e stratega smarrì la calma operativa e non gli bastò avere lavorato sovranamente bene sul piano tecnico e della preparazione tecnica e atletica. Dovette dire addio alla sua Juventus e accasarsi al Torino come allenatore delle squadre minori. Il fatto di avere sempre lavorato con i ragazzi, modellandoli, plasmandoli, creandoli dal niente, lo fece apprezzare soltanto in campo e nei rapporti con i giocatori. Non compatendo i divi professional e pretendendo dai dorati pelandroni lo stesso impegno dei suoi ragazzi ebbe più di qualche pericoloso battibecco sedato a fatica dal presidente.
Prigioniero del suo concetto di allenatore unico responsabile della parte tecnica non ammetteva né interessamenti di Boniperti alla stretta vicenda tecnica, né ingerenze di estranei. Una strana lacuna psicologica gli impediva serenità nei rapporti con gran parte della stampa e la radiotelevisione; né poteva pretendere di isolare la squadra attorno a se stesso monsù del calcio giocato con tecnica e sentimento.

ALBERTO REFRIGERI, “HURRÀ JUVENTUS” NOVEMBRE 1969
Ercole Rabitti è un juventino purosangue: nato a Torino il 24 agosto 1921, è entrato fin da ragazzo, quindici anni, a far parte della famiglia bianconera; dopo avere fatto la trafila nelle squadre giovanili, debuttò in prima squadra nel ruolo di centravanti, nel campionato 1940-41: avversaria la Sampdoria, che allora si chiamava Sampierdarenese: risultato 3 a 0, con un gol del «nostro». Dopo aver giocato sei partite come titolare, fu poi dato in prestito al Casale, quindi al Cuneo in serie B, allo Spezia, al Viareggio sempre nella serie cadetta. Nel 1948 fu ceduto al Como, dove, vincendo il campionato inferiore, tornò in serie A: tre anni nella squadra lariana e poi altrettanti al Fanfulla: ancora due campionati al Cecina e all’Anconitana, ed infine, nel 1959, epilogo della carriera come giocatore nell’Asti.
La Juventus, che aveva stipulato con il Pordenone una convenzione per il prelievo di giovani calciatori, lo inviò nella città veneta come istruttore. L’anno dopo Rabitti è a Torino, dove gli viene affidato tutto il settore giovanile della Società, carica che manterrà per sei anni consecutivi, con un intermezzo (fine ‘64) nella prima squadra dopo la partenza di Monzeglio (due partite nella Coppa Città di Torino, con Dukla, Torino e Stella Rossa e una di Coppa Italia).
Dopo avere svolto fino a pochi mesi fa il compito di osservatore, ai primi di agosto è di nuovo chiamato a dirigere i giovani bianconeri; e ora lo ritroviamo nuovamente come allenatore in prima.
Conosciamo da parecchi anni Rabitti: è un trainer preparato, serio, che sa profondamente di calcio; intransigente nel lavoro e nella disciplina, riesce a spremere il meglio da ogni elemento e ha la grande dote di saper dare la carica, negli allenamenti e prima delle partite. I giocatori, sia i giovanissimi emersi sotto la sua guida (i vari Zigoni, Roveta. Rinero, Furino, Tancredi, Piloni, Pandolfi), sia i cosiddetti «grandi», gli vogliono bene e lo ascoltano perché non si dà arie, lavora con loro e più di loro, li sostiene nei momenti di crisi recuperandoli al meglio, e traendo sempre il massimo da ognuno.
Rabitti non crede troppo nella tattica della panchina: «Secondo me non ha un’importanza determinante come qualcuno vorrebbe far credere: la partita si prepara giorno per giorno durante la settimana, e la domenica sul campo vediamo rispecchiate le risultanze di questo lavoro; naturalmente bisogna che il tecnico in panchina sia preparato all’imponderabile, vedi infortunio con relativa entrata del tredicesimo, vedi mossa dell’avversario da combattere, vedi suggerimenti ai ragazzi sull’esatta posizione da assumere o sul marcamento; ma ripeto, sono soltanto sfumature: tutto è già stato studiato e predisposto prima, alla lavagna e sul campo».
«D’altra parte», prosegue l’allenatore, «dalla panchina, con tutto il vociare che ti ritrovi intorno, anche se ti metti a gridare è difficile che ti capiscano; e quand’anche, se magari rinfacci a caldo a un giocatore l’errore appena commesso, finisci che lo deprimi ancora di più, per cui in definitiva la cosa è controproducente; diciamo piuttosto che mi torna utile un cosiddetto giocatore “faro”, che ho designato in Del Sol: questo, durante l’incontro, deve ogni tanto guardare verso di me in panchina, e ricevere qualche piccola istruzione, qualche ritocco alle marcature, da comunicare poi ai compagni; i quali naturalmente sono a conoscenza dei compiti di portavoce di questo elemento; mi viene così più facile controllare la situazione in campo, ma sempre, ripeto, per cose marginali».
Chiediamo a Rabitti se per lui ha maggior valore la tecnica artistica dell’ingegnere, oppure la volontà dell’operaio. «Prima di tutto il giocatore, ingegnere o operaio che sia, deve essere un atleta, nel pieno senso della parola; voglio dire che al giorno d’oggi anche un “grande” che magari col pallone riesce a fare ciò che vuole, se non è al massimo della forma atletica non tocca palla o quasi. È logico che in una squadra vi sia chi pensa di più e chi meno, chi fa lavorare di più il cervello e chi di più le gambe; l’importante è amalgamare questi due diversi elementi, e cercare di fonderli in un solo, unico blocco; parlo sia della domenica sul campo, che durante la settimana negli allenamenti, come pure nella vita privata: tutti amici insomma, pronti a darsi una mano reciproca a favore della squadra come complesso; quello insomma che avete visto contro l’Inter».
È ottimista Rabitti? «Senza rubbio, e a ragion veduta, senza sbruffonerie: ho dei ragazzi che non sono inferiori a nessuno, so di lavorare con un materiale pregiato, che ha solo bisogno di essere mantenuto al massimo livello di condizione per rendere al massimo: i ragazzi sanno che io non chiedo loro cose impossibili, ma solo quello che ritengo possano dare; già dai primi contatti hanno dimostrato di capirmi, e così non ci sono state inutili perdite di tempo; siamo tutti dei professionisti pagati dalla Società, e con alle spalle milioni di tifosi che ci appoggiano e attendono da noi il meglio; abbiamo un solo traguardo e dobbiamo arrivarci insieme: da questa collaborazione reciproca sono certo avremo tutti grosse soddisfazioni».

2 commenti:

Unknown ha detto...

Impossibile dimenticare l'orgoglio di quel terzo posto in rimonta del 1970 costruendo per di più il percorso magnifico degli anni 70.Grazie Ercole juventino purosangue

Stefano ha detto...

Divenni un accanito tifoso della Juve proprio in quell'anno, grazie a quella montagna di vittorie ed alla rimonta in classifica, dal terz'ultimo posto al terzo. Con il senno di poi, sono quasi contento che non venne vinto lo scudetto, dal momento che avrebbe voluto dire privare il Cagliari, Gigi Riva e tutta l'isola sarda della vittoria più grande.