Tornato a giocare si trasformava lentamente in un rifinitore (Lazio 1951-52), con cadenze eleganti, molto riflessive, un adattamento alle svolte tattiche suggerite nel Torino da Annibale Frossi (1953-54), spesso di strenua intelligenza pratica.
Nella Juve di Sandro Puppo il sognatore (1955-57), avrebbe dovuto far da balia ai Puppanti del vivaio, realizzò due goal, era una Juventus abbandonata da Gianni Agnelli in un mare di guai, appena colpita nel grande cuore di Giampiero Combi, diretta da un trio di esperti: dottor Nino Cravetto, dottor Marcello Giustiniani, avvocato Enrico Craveri, i quali, in realtà, più che esperienza del ruolo avevano nobiltà juventina.
Fallivano le impostazioni tecnico-teoriche di Sandro Puppo, anche lo svedesino Kurt Hamrin non si ambientava, in quel torneo 1956-57 i Viola, Corradi, Garzena, Emoli, Nay, Oppezzo, Hamrin, Conti, Antoniotti, Colombo, Stivanello, con altri come Aggradi, Donino, Romano, Stacchini, Caroli, Bartolini, Dell’Omodarme, Voltolina, riuscirono a toccare il fondo dell’umiliazione per la raffinata direzione, con il piazzamento finale a trentatré punti, cioè in zona retrocessione (la Triestina retrocedeva con ventinove punti).
Bisognava riprendere quota. L’avvocato Gianni decideva per il fratello Umberto. Dal Galles arrivava quel gigante di Charles e dall’Argentina un cabezón di nome Sivori.
BRUNO ROGHI, DA “IL CALCIO E IL CICLISMO ILLUSTRATO” DEL 22 NOVEMBRE 1956
Si sente dire di Lelio Antoniotti che è il solo giocatore attuale che rappresenti una buona imitazione di Peppino Meazza. Se per un verso questo raffronto è positivo tornando a vantaggio di Antoniotti, per un altro verso il raffronto è limitativo, per non dire negativo, perché sottrae ad Antoniotti una parte della sua originalità d’artista del gioco in quanto imitatore di un atleta ritenuto dagli esperti inimitabile, appunto il «balilla».
L’errore è di impostazione. L’originalità non consiste, a nostro parere, nel «non imitare» ma nel «non farsi imitare». Veniamo al caso nostro. Se è vero che Antoniotti è nella corrente stilistica che ha avuto in Meazza il massimo e insuperato esponente, è altrettanto vero che ben pochi sono i giocatori dei tempi nostri che sappiano modellare il gioco alla maniera del centravanti del novarese Sparta, già personaggio dei palcoscenici verdi all’età di diciott’anni allorché la sorte lo provvide degli unghioli del «tigrotto» bustese, lui che di felino aveva soltanto l’elasticità e la snellezza.
Il suo curricolo di carriera elenca una serie cospicua di squadre alle quali ha dato il suo nome e i suoi servigi: Pro Patria. Lazio, Torino, Juventus. C’è da credere che Antoniotti abbia nel sangue l’inclinazione al nomadismo. Per quanto lo conosco, ciò non rientra nel suo temperamento. Lo provano i cinque anni da lui trascorsi nella maglia cerchiata della Pro Patria.
La verità è forse diversa. Forse i passaggi di Antoniotti da una squadra all’altra, specie negli ultimi anni, si spiegano con la necessità di determinati allenatori di dotare i reparti di quell’accento dì gioco che un tipo alla Antoniotti possiede pressoché in esclusiva: il gioco intelligente.
La natura si è fermata al m. 1,68 quando l’ha stirato in altezza. La natura non ha impiegato più di 60 chilogrammi quando l’ha messo sulla bilancia. Ha plasmato in lui un «leggero» dei rettangoli del calcio. Ne ha poi ravvivato le membra e l’estro con quello «spirito della leggerezza» che è la spiccata prerogativa del suo stile di calciatore, e diciamo pure il suo punto di debolezza, almeno all’occhio e alla scarpa dei suoi meno complimentosi avversari.
Il giocatore leggero, ma fornito di tutti i numeri della tecnica raffinata, è un giocatore segnato a dito dagli atleti di rottura che montano la guardia alle zone proibite del campo. Per cavarsela, egli è costretto a giocare d’astuzia, là dove la forza non giova. Tutta la carriera di Antoniotti è idealmente condensata in una specie di manuale dell’astuzia: l’astuzia indispensabile per mantenere elevato lo standard del rendimento sui campi moderni dove, agente provocatore il catenaccio (o qualcosa di simile, è sempre più ridotto e periglioso il margine concesso alle manovre degli attaccanti leggeri.
Visto sotto altro profilo, il gioco di Antoniotti è tutto ciò che resta e resiste, nel segno del «metodo», all’ondata vittoriosa delle nuove tattiche e delle nuove esperienze calcistiche. Si può parlar di lui come dell’ultimo dei Moicani in tema di fedeltà alle vecchie formule. Ciò non significa che Antoniotti sia giocatore negato al «sistema» e perciò isolato, disorientato ed estraneo alle imperiose concezioni del calcio moderno. Il suo inserimento nel gioco a sistema è perspicuo, ma indiretto. Antoniotti accetta il gioco moderno, e, tuttavia, non appena l’occasione propizia gli fa l’occhiolino, agilmente ne esce fuori per abbandonarsi all’invito seducente della palla antica, della palla, per tornare all’inizio del nostro profilo, che ebbe in Meazza il suo interprete geniale.
Il ritorno di Antoniotti alle cifre e alle sequenze del gioco a metodo è palese nella sua arte della serpentina, nella sua attitudine a inventare l’azione inaspettata, nei suoi guizzi che sfiorano l’erba del prato, nel suo stesso modo di filtrare attraverso i reticolati delle munite difese avversarie.
Un altro elemento che concorre a fissare la personalità di Lelio – un nome goldoniano, guarda un po’, che suggerisce l’idea della galanteria e della finezza, non senza un alito di svaporatezza – può essere riscontrato nel rapporto tra la sua età e la sua notorietà.
Antoniotti è meno vecchio di quanto sia famoso. È d’un paio d’anni sotto la trentina, e nello stesso tempo è un «classico» del repertorio sportivo. La diffusione del suo nome nei testi del gioco è cominciata presto, prestissimo, e ciò non può essere spiegato se non alla luce nitida della sua bravura e della stessa immediatezza onde il suo nome è divenuto il simbolo di un particolare gergo del gioco. Fin da quando, non ancora ventenne, si imbrogliava e si sbrogliava dalle misure del pugnace gioco bustese – così poco rispondente alle sue attitudini naturali – Antoniotti era visto e ammirato alla guisa di un Mowgli, il famoso fanciullino di Kipling che era capitato nel branco dei lupi, nel profondo della giungla, e ne era divenuto, a un tempo, l’idolo e il capo. Calatelo ora nella tana dei tigrotti, e vedrete che il paragone, alla sua maniera spensierata, calza.
Ma anche là, in casa bustese, il suo gioco non si è corrotto al morso della partita di combattimento. Anche nel calcio si diventa ciò che si è, pertanto la maturazione atletica di Lelio, nel senso rigorosamente tecnico delle sue prestazioni, ha potuto svilupparsi nei cinque anni della sua appartenenza alla Pro Patria, nonostante il diverso linguaggio che lui e la sua squadra parlavano. Infine non si deve escludere a priori che proprio nella squadra lombarda, sempre alle prese con gli spettri della retrocessione, Antoniotti abbia acquistato quella punta di mordente che oggi gli permette di battersi, senza battersela, contro avversari di lui più massicci e spericolati.
La fedina calcistica di Antoniotti è pulita. Il suo gioco ha nella correttezza e nella cavalleria i suoi specchi. Ciò lo onora in tempo, come i nostri, di fedine sporche.
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