sabato 17 agosto 2024

Thierry HENRY


Thierry Henry è entrato nella Juve contromano – scrive Maurizio Crosetti sul “Guerin Sportivo” del 10-16 febbraio 1999 – in uno sfavillante pomeriggio di gennaio. La sua Porsche nera ha varcato il cancello del vecchio stadio Comunale e invece di svoltare a sinistra, versante Juventus, ha tirato diritto, direzione Centro di medicina dello sport. Breve imbarazzo, retromarcia, sgommata e forse la strada non la sbaglia più. Non è stato poi molto diverso il suo ingresso nel mondo bianconero, squadra e società, in questo inverno bollente e gelido. Difficile per chiunque non infilarsi al contrario, o non avere la sensazione di averlo fatto. Mancano i cartelli, le indicazioni, i vigili che smistano il traffico, mancano i semafori e sembra tutto un colossale stop. Ma Thierry Henry non ha nessuna intenzione di rispettarlo.
L’hanno paracadutato sulla Juventus dopo il pareggio di Venezia, con tre righe di comunicato e una velocissima presentazione. In diretta da Montecarlo, ha sofferto qualche disagio prima di capire dove fosse e perché. Lippi l’ha presa alla larga, nel senso che ha piazzato il ventunenne campione del mondo sulla fascia sinistra, quasi a pestare la riga di gesso. E lui ha cominciato a dribblare, a fare sponda, con qualche titubanza sotto porta: spesso lontana, e sfocata. «Ma i gol li ho sempre segnati. Non tantissimi, ma regolari».
Come i sei dell’ultima Champions League, Juve compresa, oppure i tre al mondiale, con l’Italia tra le vittime (è stato suo uno dei rigori che ci ha rispediti a casa). Ma a Torino, in questi primi mesi almeno, nessuno gli chiederà di puntare i portieri. Per quel compito, in teoria, c’è Esnaider. Invece Henry deve creare gioco, regalando alla Juve quel tocco di genio che il ginocchio di Del Piero ha brutalmente azzerato. Nel Monaco, la sua squadra da bambino, c’è riuscito: scudetto nel ‘97 e semifinale di Champions League l’anno successivo. Molte cose gliele ha insegnate Lilian Thuram, una specie di fratello iniziatore ai sacri misteri dell’area: «In allenamento mi dava botte terrificanti, poi mi spiegava con calma dove avevo sbagliato. E così che si impara».
Veste di nero, ha un’auto nerissima e tedesca (finché resiste, poi qui viaggiano stranamente tutti in Fiat) ma il resto del personaggio è a colori, sogni compresi. Peccato che il primo avversario da battere sia l’ombra, il grigio di qualche vecchia storia. Come quando firmò due contratti, uno con il Monaco e un altro con il Real Madrid, così la Fifa gli recapitò una multa di un miliardo e duecento milioni. «Ero solo un ragazzo mal consigliato, per questo non ho più il procuratore».
Due, ne aveva, che si chiamano Larios e Roger: quelli che hanno denunciato a Uefa e Fifa il trasferimento dal Monaco alla Juve per violazione contrattuale. L’altra ombra è il pessimo rapporto con Jean Tigana, antico compagno di Platini ed ex allenatore del Monaco. Ex non a caso: «Dicono che l’avrei mandato via io, ma sono fesserie, non mi ritengo così importante».
In teoria, la terremotata Juventus degli ultimi mesi non sembra il luogo più adatto per rivedere la luce, ma il destino a volte sceglie percorsi capricciosi. Anche Edgar Davids pareva una mela marcia, invece a Torino è diventato un campione quasi modello, irrinunciabile. Come l’olandese, pure questo francese di origine caraibica deve risolvere qualche problema di crescita. «Se ho deciso di venire alla Juventus è perché è arrivato il momento di diventare grandi. Qui ci sono due maestri come Zidane e Deschamps, mi aiuteranno».
Veramente in Francia l’hanno presa malissimo. Persino la nobile “Equipe” non ha risparmiato le mazzate, trasformando Henry da enfant prodige a enfant gâté, da ragazzo prodigio a ragazzo viziato. “E intanto ha perso la nazionale” ha scritto la stampa transalpina, come se la Juventus fosse una nemesi o una punizione, e non piuttosto quella scuola di vittorie utilissima alla stessa nazionale. «Ricordo quando affrontai i bianconeri in Coppa, l’anno scorso. Ebbi l’impressione di scontrarmi con un muro impossibile da abbattere».
Oddio, quel muro sembra oggi un po’ sbrecciato ma Henry è sicuro che basteranno un paio di mattoni per rimetterlo in sesto: «La stagione è lunga, il nostro obiettivo è la Champions League, in campionato possiamo tornare su posizioni più degne di noi».
Peccato che lui, in Europa, non possa giocare. Lo vieta il regolamento. «Vorrà dire che la Coppa la vincerò l’anno prossimo».
Cioè con Ancelotti, che ha benedetto l’arrivo di Thierry Henry immaginando come e dove usarlo, più o meno dove l’ha sistemato Lippi, sulla riga bianca a sinistra. A destra ci sarà un’altra giovane ala, Zambrotta, a conferma che la nuova Juventus giocherà largo.
Moggi e Giraudo l’hanno pagato una ventina di miliardi, circa la metà di quanto aveva offerto l’Arsenal. Circostanza che ha insospettito (o ingelosito?) i due ex procuratori di Henry. Sembra comunque che il presidente del Monaco, il miliardario Campora, abbia scelto i torinesi per ricomporre una vecchia lite (alla Juve aveva promesso Petit e Thuram, poi venduti altrove) e ritrovare un potente alleato. Adesso tocca a questo talento enorme e grezzo, testa calda nei giudizi altrui ma non nei propri: «Mai stato in discoteca, mai amato il mare, mai fatto le ore piccole, mai sofferto di nostalgia. Io sono un parigino, uno concreto».
A Torino si è portato la fidanzata Sabrina, una macchina veloce e un paio di gatti. Non ha chiesto molto, l’importante è un grande televisore per vedere il basket, la sua vera passione. Il resto sono parole, quasi sempre degli altri. Quelli che lo hanno bollato dicendo «farà la fine di Ba, non è adatto al calcio italiano, il suo gioco è troppo fumoso» (ancora i due procuratori, che hanno cambiato idea sul ragazzo davvero alla svelta). Thierry Henry ascolta, saltando in dribbling lo scetticismo e l’ironia. Come ogni fantasista puro, lui è uno che conosce mille strade. E quando ne imbocca una contromano, giura che non succederà una seconda volta.

È uno dei più grandi rimpianti della gloriosa storia juventina; liquidato (dopo solamente mezza stagione) anche a causa di un clamoroso equivoco tattico. Infatti, era impiegato, spesso e volentieri, come esterno sinistro del centrocampo a cinque, in pratica da terzino, nonostante al Monaco si fosse messo in luce come un attaccante dotato di ottimi mezzi fisici, capace di svariare su tutta la zona d’attacco. Tecnico, rapido e dotato di grande senso del gol, nella squadra del Principato rende quasi inutile la presenza di una seconda punta al suo fianco, per la completezza del suo repertorio.
Luciano Moggi, accusato di essere il colpevole di questo clamoroso errore, si difende: «Ricordo che Henry faticava a inserirsi per problemi legati alla giovane età, alla durezza del campionato italiano, alle difficoltà di mettersi in mostra in una grande squadra (peraltro in crisi): forse era troppo per lui in quel momento. Le qualità tecniche non si potevano discutere, ma il giocatore aveva bisogno di spazio palla al piede e il suo gioco non si adattava a quello della squadra che giocava sempre in pressing sull’avversario. Faticava a rendersi utile alla squadra e si esponeva a critiche, che neppure meritava: quell’anno disputò sedici partite delle quali nove non portate a termine (ed io non ero certo l’allenatore). Visto e considerato che un po’ di esperienza l’aveva già maturata, pensai di darlo in prestito un anno in una squadra meno esigente nei suoi confronti, che potesse dargli l’opportunità di crescere e adattarsi al nostro campionato con più tranquillità. Individuai l’Udinese come soluzione opportuna, raccogliendo la disponibilità entusiasta dei Pozzo. Henry se la prese a male e, ancora oggi, non riesco a capire il perché. Questa storia si concluse con la partenza di Henry: fui costretto a cederlo e, nonostante la stagione non certo esaltante, riuscii a ottenere dall’Arsenal trentadue miliardi di lire. Comprato per diciotto e rivenduto poco dopo a trentadue. Una plusvalenza non da poco che non ha nemmeno sminuito il valore della squadra: infatti, nelle stagioni successive (quelle in cui Henry ha dato il meglio) la Juventus ha ripreso a vincere con regolarità. Più dell’Arsenal. E alla Juventus arrivò un certo Trézéguet».
La replica di Titì: «Quando arrivai alla Juventus c’erano tanti problemi. La squadra non stava andando bene. Giocavamo col 3-5-2, un modulo in cui non riuscivo a trovare la posizione in campo. Ho faticato all’inizio, poi però ho cominciato a segnare. Comunque sia, lasciai la Juventus per altri motivi. Loro volevano acquistare Marcio Amoroso, l’Udinese voleva me come contropartita. Mi rifiutai, perché questo significava mancanza di fiducia nei miei confronti. Ho chiesto di andare, loro sono stati d’accordo. Ancelotti non voleva cedermi, né lasciarmi andare in prestito. I dirigenti, invece, la pensavano in un’altra maniera. I giocatori sono stati grandi, mi hanno chiamato tutti, quando sono partito. Ancelotti pure. Non mi divertivo per niente, avevo l’impressione di aver perso la voglia di giocare. Sono andato via anche per questo».
Ancelotti, qualche anno dopo, reciterà il mea culpa: «Su Henry ho preso una cantonata: lo consideravo un giocatore di fascia, non mi sono accorto che era invece un fortissimo centravanti».

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