martedì 27 agosto 2013

AVETE UCCISO MIO MARITO

NICOLA CALZARETTA, “GS” GENNAIO 2010:
La vedova Beatrice combatte da anni una battaglia per la verità. «Dicono sempre che il calcio non c’entra, ma non è così. Bruno iniziò ad ammalarsi per via dei raggi Röntgen. E poi il Micoren, il Cortex, le flebo. Aveva tre buchini viola sul braccio come un tatuaggio. Vorrei che Mazzone mi guardasse negli occhi».

Una donna innamorata. Che, ancora giovane, ha perso l’uomo della vita, il padre dei suoi figli. E che in nome di quell’amore è alla ricerca della verità. Gabriella Bernardini combatte ormai da troppi anni perché siano chiarite le cause della morte del marito. Bruno Beatrice, classe 1948, cresciuto nell’Inter, una carriera che lo ha visto protagonista ad Arezzo, Firenze, Cesena e Taranto, prima delle ultime stagioni in Toscana nelle serie minori. Un mediano tosto ed affidabile, fisico compatto e generosità a chili. Gli anni della Fiorentina, dal 1973 al 1976, i migliori. Quelli che lo avevano portato alle soglie della Nazionale. Un protagonista delle domeniche viola. Una presenza che non poteva venire meno, neanche quando il fisico reclamava pause doverose. Medicine, farmaci e radiazioni in quantità. Al dopo, nella migliore delle ipotesi, nessuno pensava. Ma il conto sarebbe arrivato in fretta, con tutto il carico di angosce, tragedie ed inquietudini. Per una morte che si è presentata troppo presto, a neanche quarant’anni. La lotta per avere un perché è dura e lunga. Lei, Gabriella non ha mai abbassato la guardia. Coraggio, testardaggine ed amore.
Lo ripete seduta sui divanetti dell’hotel I Portici, nel cuore di Arezzo. Gestito con i figli Claudia e Alessandro. «Lo abbiamo aperto alcuni anni fa. Abbiamo unito due appartamenti che Bruno aveva acquistato coi guadagni da calciatore. L’idea dell’albergo ci piaceva, così siamo riusciti a trasformarli per ricavarne otto camere».
Sul bancone ci sono molte foto di ospiti illustri. In una, però, c’è Bruno che si allena con la Nazionale. «Era una specie di ritiro collegiale, credo a Coverciano. Metà anni settanta. Bruno era alla Fiorentina. A dirle il vero io di calcio ci ho sempre capito poco. Le volte in cui andavo allo stadio, a me bastava sapere che numero aveva Bruno e guardavo lui».
In casa non parlavate di calcio? «Quasi mai. Voleva forse preservarmi da certe situazioni che lui viveva quotidianamente. Così, quando la domenica sera rincasava, il pallone rimaneva fuori. E si facevano progetti per il futuro».
Figli, attività commerciali? «Proprio così. Lui guardava più in là rispetto a tanti compagni. Pensava al dopo, a cosa avremmo potuto fare una volta cessata la carriera. Gli piacevano la campagna e gli animali. Al punto che a giugno del 1976 aveva deciso di smettere con il pallone per dedicarsi alla terra. Di quella giornata ricordo tutto perfettamente».
Cosa era successo? «Io ero qui, ad Arezzo. Verso mezzogiorno mi chiama dal ritiro della Fiorentina a Santa Margherita Ligure. Avrebbero dovuto giocare con la Sampdoria in Coppa Italia. Era furioso. Non lo avevo mai sentito così arrabbiato. Mi dice di andare da lui, che sarebbe venuto via dal ritiro. E che avrebbe smesso con il calcio. Sapevo che non sarebbe mai accaduto, perché Bruno ne era stregato. Comunque, partii subito, passai da Firenze a prendere Aldo, un nostro amico di famiglia e filai via verso la Liguria».
Suo marito le disse il motivo dell’arrabbiatura? «Mi disse tutto quando arrivai. Lo trovai fuori dall’albergo. Era nero: lo avevano ceduto al Cesena, senza metterlo al corrente».
Come lo aveva saputo? «Bruno era a pranzo con la squadra. Ettore Pasini, amico e giornalista, chiamò l’albergo e si fece passare mio marito. Fu lui a confidarglielo. Allora Bruno tornò nella sala da pranzo e chiese spiegazioni a Carlo Mazzone. Lo scontro fu violento, davanti alla squadra. Si sentiva ferito nell’orgoglio e forse agì troppo d’impulso. Volarono parole grosse, offese. So che vennero anche alle mani. Alla fine Mazzone gli urlò in faccia queste parole: “Beatrice, tu con me sputerai sangue”. Una frase tremenda, anche se venuta fuori durante una lite. Se poi ripenso a come è finito Bruno».
Ma perché suo marito era così infuriato? In fondo il Cesena l’anno prima si era qualificato per la Coppa Uefa. «Non c’erano motivazioni tecniche. Fosse stato per lui non avrebbe mai lasciato Firenze. Era innamorato della città. Aveva avviato anche alcune attività commerciali. Una, con la partecipazione di Melloni, all’epoca dirigente viola, era in fase di lancio. Ma su tutto c’era il comportamento ambiguo della società e dell’allenatore. Per lui fu una pugnalata».
Ci spieghi meglio. «Nel giro di qualche settimana era passato da giocatore indispensabile a pedina di scambio. Avevano fatto di tutto per farlo giocare, per tenerlo in campo, anche quando le condizioni fisiche non erano ottimali. Lui si era sempre sacrificato, sottoponendosi a cure e trattamenti quotidiani, prescritti dai medici. Capisce adesso?»
Si riferisce alla terapia con i raggi Röntgen? «Purtroppo proprio a quelli. Nella primavera del 1976 mio marito è stato bombardato dalle radiazioni. Aveva la pubalgia. Non riusciva a giocare con continuità. Ci eravamo rivolti ad alcuni medici, andammo anche a Roma dal professor Lamberto Perugia, uno degli ortopedici più famosi d’Italia».
Che cosa suggerì il professor Perugia? «Disse che con una incisione lo avrebbe rimesso in piedi in quindici giorni. Ma aggiunse subito che non gli avrebbe mai praticato quell’intervento, perché era troppo giovane ed aveva una carriera davanti. Per la pubalgia gli prescrisse “riposo, impacchi caldi ed umidi, elettroterapia e cauta massoterapia”. La lettera la conservo ancora. C’è scritto anche che Bruno avrebbe potuto riprendere progressivamente l’attività atletica “solo dopo la completa scomparsa dei sintomi”».
In sostanza ci voleva tempo. «La Fiorentina non poteva aspettare. I consigli del Professor Perugia furono buttati nel cestino. Bruno fu mandato a Villa Camerata, un ospedale di Firenze il cui primario era Inson Rosati, all’epoca consigliere della società. I raggi Röntgen li fece lì. Ma adesso le macchine non ci sono più. Anzi qualcuno ha avuto il coraggio di dire che non ci sono mai state».
Quanto è durato il ciclo delle applicazioni? «Tre mesi, da marzo a giugno 1976. Tutti i giorni. C’erano delle cose strane che succedevano. Ricordo ad esempio le notti dopo le partite. Bruno faceva fatica a dormire, tremava nel letto, i muscoli erano ancora in tensione. Ma lui mi diceva che era normale, che dopo la gara succedeva».
Altre stranezze? «A volte mi telefonava e stava con me anche tre quarti d’ora a parlare. “Sto facendo delle flebo, stai tranquilla”. Cosa ci fosse dentro non lo so. Si fidavano ciecamente dei medici. Lui in particolare si fidava molto di Rosati, tanto che ci portò anche mio padre che si era ammalato di cancro».
Una fiducia mal riposta? «Con il senno di poi, sì. Se guardo a cosa è successo a tanti della Fiorentina di quel periodo mi vengono i brividi. Il Micoren, il Cortex, le flebo. Bruno aveva tre buchini viola sul braccio. Come un tatuaggio. Gli sono rimasti addosso fino all’ultimo giorno».
Durante la terapia, suo marito come stava? «Apparentemente bene. Nel senso che il dolore spariva e lui era in grado di giocare. E questo era l’obiettivo della società e di Mazzone. Credo che alla Fiorentina lo considerassero ormai un cavallo zoppo, da riempire di raggi per finire la stagione e buttare via».
Ma poi al Cesena c’è andato ed ha giocato. «Sì, ma era veramente arrabbiato e ferito nell’orgoglio. Convincerlo a non smettere fu dura. Ci pensarono alcuni compagni della Fiorentina, che lo invitarono ad una cena ed un dirigente che staccò un assegno per Bruno perché accettasse il trasferimento. Alla fine disse di sì. Ma non era più lui. Lo vedevo demotivato, scoraggiato. Il calcio ai suoi occhi aveva perso tutta la poesia. Tra l’altro mi accorsi anche di un’altra cosa».
Cioè? «Si era allargato. Specie all’altezza delle spalle. La cosa mi fu fatta notare da una persona».
Ne parlavate tra di voi di queste cose? «Sinceramente no. Tenga presente che quei momenti erano comunque periodi belli. Bruno giocava e guadagnava bene, ci eravamo sposati da poco e stavamo pensando a mettere su famiglia. Nel frattempo erano nati Claudia ed Alessandro. Insomma tutto nell’ordine, fino al 23 agosto 1985».
Cosa successe quel giorno? «Giornata caldissima. Torrida anche la notte, con punte di 38 gradi. Bruno non riusciva a dormire. Allora si sistemò sul terrazzo e si addormentò. Durante la notte si scatenò un temporale e la temperatura scese parecchio. Ricordo che la mattina, appena sveglia, mi accorsi che non era nel letto. Lo vidi comparire dopo qualche minuto in camera. Era grigio in volto, faceva impressione. “Cos’hai?” “Ho dormito fuori, ma non mi sento bene”. Gli faceva malissimo il braccio destro. Strano. Andai a comprare un antidolorifico. Pensai alla notte passata fuori. Però non ero tranquilla».
Perché? «Perché Bruno non è mai stato uno che si è lamentato per il dolore. Una volta una tacchettata di un avversario gli aprì il polpaccio. Lo ricucirono con una ventina di punti e tornò in campo. Un paio di giorni dopo la gamba gli si gonfiò come un melone. All’ospedale gli tolsero i punti e gliene misero altrettanti, senza anestesie e senza lamenti. Questo era Bruno».
Ed il dolore al braccio passò? «No. Nel giro di pochi giorni i dolori colpirono anche l’altro braccio e poi le gambe. Tremava, sul viso erano comparsi dei puntini rossi. Provò anche con il fornetto scaldavivande. Lo accendeva, metteva il braccio dentro. Le bruciature provocate dal calore non le sentiva nemmeno, ma il dolore non passava. Allora andammo da alcuni ortopedici. Uno di questi, il dottor Cerulli, disse che era radicolite, prescrivendo alcuni farmaci tra cui l’Orudis, un anti reumatico. Erano punture, imparai a fargliele io stessa».
Ci furono miglioramenti? «Nessuno. Anzi il quadro peggiorava. Bruno aveva sempre la febbre alta, pativa il freddo, non aveva forze. Il corpo si riempiva di lividi. Mi venne a mente di sottoporre Bruno ad una Tac, mi dissi che ne avrei parlato con il medico. Poi un giorno successe una cosa assurda, ho fatto fatica a credervi».
Ce la può raccontare? «Mia madre aveva insistito perché andassi a far visita alla tomba di mio fratello, morto a venticinque anni in situazioni mai chiarite mentre pilotava un F14. Il cimitero è piccolino, ero sola. Ho sentito per tre volte una voce maschile che mi diceva: “Vai dal tuo dottore”. Io non sono credente, ma quella voce l’ho sentita».
E cosa ha fatto? «Ho preso la macchina e sono tornata di volata ad Arezzo. Ho suonato alla porta del dottore, poi mi sono detta: è sabato, chi vuoi che ci sia. Ed invece il medico era lì. “Mi deve prescrivere una Tac per Bruno”. Così fece».
E poi? «Abbiamo avuto un appuntamento con il dottor Mennonna (il chirurgo che operò Antognoni alla testa nel 1981). Controllò analisi e radiografie. A un certo mi avvicinai e gli chiesi: “Professore, Bruno è grave?”. E lui: “Non è grave, è gravissimo”».
Da quel giorno è iniziata la battaglia vera e propria. «Un paio di giorni dopo arrivò la sentenza: Bruno aveva la leucemia. Ricordo sempre che chiesi a Mennonna se era meglio del cancro. Una domanda senza senso, quasi per esorcizzare la tragedia che si stava vivendo. Anche perché la sua era una delle forme peggiori, visto che era leucemia linfoblastica acuta».
Ne parlò con suo marito? «Gli dicevo che era colpa mia, che avevo sbagliato a fargli le iniezioni. Gli dettero tra mesi di vita, riuscì a sopravvivere per due anni. Due anni di sofferenze e dolori lancinanti. Ed è questo che non perdono a chi ha provocato la morte di mio marito. Chiuso in una camera asettica, senza poter toccare i suoi bambini».
Ci furono dei momenti di leggerezza in quel calvario? «Pochissimi. Una sera, era il mio compleanno, ebbi l’autorizzazione per portarlo a casa per festeggiare con i bambini. Per tre mesi, nell’estate del 1987, ci siamo trasferiti a Cesena, perché Bruno voleva vedere il mare, ma sempre vicini ad un centro ematologico per le trasfusioni».
Il 16 dicembre 1987 Bruno muore. «Ricordo che presi una sua fotografia con la maglia della Fiorentina e ne feci dei manifesti per annunciarlo. Lo vestimmo con la tuta dell’Arezzo, comprai un drappo viola che misi attorno alla bara. Ai piedi aveva delle Adidas ancora piene di sabbia perché erano le ultime scarpe che aveva calzato quando eravamo a Cesena. E così lo abbiamo salutato».
I suoi bambini? «Claudia smatteggiò, Alessandro durante la messa mi disse: “Mamma, ma tutta questa gente che ci fa? Il babbo è il nostro”. Il dopo per loro è stato duro. L’elaborazione del lutto è stata faticosa. Perdere un babbo da piccoli è una ferita che non si rimargina».
E lei? «Mi sono trovata senza l’uomo della mia vita, con due bambini da crescere e 2 milioni in banca. Testa bassa e pedalare. E questa corsa l’ho vinta. Stiamo bene, io ne ho passate di cotte e di crude, tra un trapianto di fegato ed un intervento al cuore. Ma di fondo c’è sempre quella domanda che esige una risposta».
Di cosa è morto Bruno Beatrice? «Già. La risposta in realtà ce l’ho. La voglio, però, da quelli che sono i responsabili della morte di mio marito».
Per questo si è rivolta ai tribunali sporgendo denuncia contro ignoti per omicidio colposo? «L’ho fatto nel 1997, prima delle denunce di Zeman e di chiunque altro. Che mio marito sia morto di calcio l’ho sempre sospettato. Ma la certezza che quelle radiazioni e le flebo gli avessero minato il fisico l’ho avuta nel 1997, per puro caso».
Cioè? «Avevo appena ricevuto in eredità da una parente dei libri. Nel riordinarli, mi è letteralmente caduto su un piede uno che si intitolava “Cavie umane. La sperimentazione sull’uomo”, edito da Feltrinelli nel 1971 e pubblicato in Germania nel 1967. Un testo da brividi, soprattutto perché provava la tesi degli effetti dannosi dei raggi X, ed i Röntgen sono tra i più potenti, sul midollo osseo. Bruno li fece per novanta giorni, nella zona dove passa l’arteria femorale. Cinque anni dopo la prima pubblicazione del libro. Qualcuno ha agito in malafede».
Dopo la denuncia, il mondo del calcio come si è comportato? «Mi hanno trattata come una pazza. Mi hanno isolata. A parte Nello Saltutti, anche lui morto precocemente di infarto, solo Moreno Roggi si è dimostrato amico di Bruno e nostro. L’unico che abbia avuto dei pensieri: ci dava i biglietti per andare allo stadio, perché io i miei figli li ho portati a Firenze perché volevo che vedessero dove il loro babbo giocava».
Il resto del mondo? «Non ricordo di visite dei compagni di Bruno in ospedale. Tutto intorno, la solita litania: il calcio non c’entra nulla con queste morti. Lo ha detto anche Lippi riferendosi alle parole di Borgonovo. Non è così, io lo so. E lo sanno altri. Pensi che anche l’Associazione Vittime del Doping, che è nata per nostra volontà nel 2006, è di fatto ferma».
Però le sue denunce hanno colto nel segno, visto che nel 2005 la vicenda processuale è stata riaperta. «La procura ha accusato gli indagati di omicidio preterintenzionale. Il P.M. Bocciolini si è mostrato convinto del nesso tra le terapie subite da Bruno e la morte. I Nas hanno svolto indagini meticolose ed interrogato i personaggi coinvolti nella storia, nonostante siamo scomparse misteriosamente le cartelle cliniche ed i macchinari di Villa Camerata. Purtroppo tutto è stato vanificato dall’intervenuta prescrizione del reato. Un altro colpo da vigliacchi».
Che succederà adesso? «Proseguiamo la battaglia. Ora il terreno è quello civile per la richiesta di risarcimento. Non mi interessano i soldi, io voglio che venga accertata e dichiarata la verità. Guardi: non so come fanno queste persone, che hanno sulla coscienza la morte di mio marito, a stare serene».
Lei cosa vorrebbe dire a Carlo Mazzone? «Vorrei che il signor Mazzone mi chiamasse. Visto che ha sempre detto di essere innocente e di non avere responsabilità, perché non lo fa? Vorrei che avesse il coraggio di incontrarmi. Potrei anche stare in silenzio ad ascoltare, non so. Vorrei che mi raccontasse la sua verità. Guardandomi dritta negli occhi».



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