Cresce nelle giovanili della Cremonese, facendo il suo esordio in Serie B nelle file dell’Atalanta, che lo acquista nella stagione 1968-69. «Ho iniziato da giovanissimo con la maglia della Viscontea a San Sigismondo. Mi piaceva giocare, ma tutti i giorni andare a scuola in bicicletta da Stagno, andare ad allenarsi e tornare a casa era dura. C’erano tanti ragazzi e alla fine è stato mister Bergonzi il mio talent scout; dopo una sola stagione lui è passato alla Cremonese e mi ha voluto con sé. Sono restato due anni tra giovanili e prima squadra e poi sono passato all’Atalanta. Quello è stato il primo vero affare del presidente Domenico Luzzara; sono andato con lui a Bergamo al ristorante Capello d’Oro. Alla fine, l’affare si è chiuso sulla base di una ventina di milioni».
A Bergamo nasce il suo soprannome: «L’idea venne da Marchetti, che mi appioppò Bocciolo, perché diceva che ero uno che non fioriva mai. A Bergamo ho trovato un ambiente ideale: a parte i compagni, tutti mi hanno aiutato molto, dirigenti e allenatori. Tra l’altro, ho potuto continuare gli studi, sino alla quarta geometri. Nel 1969-70 sono riuscito a farmi notare, prima nel Torneo Giovanile di Sanremo e poi in campionato, dove ho giocato in tutto ventinove partite, come libero, stopper e terzino. Poi, in estate, è venuta la Juve».
In quello stesso anno indossa la maglia azzurra, giocando nella Nazionale Under 21 e nella rappresentativa olimpica, sotto la guida di Azeglio Vicini: «Azeglio mi ha sempre voluto con lui nella Nazionale Olimpica; è stato uno degli allenatori più importanti, con Rota e Picchi. Ho giocato nella Juniores con gente come Marchetti, Paina, Vecchi e Turone; poi nell’Under 21, a Udine, dove battemmo la Romania con un goal di Pulici; ho anche una presenza nella Preolimpica e una nell’Under 21 di Serie B».
Nell’estate del 1970, è acquistato dalla Juventus ma, complice una malattia diagnosticatagli all’inizio del campionato, disputa solo sei partite: «Mi dissero che avevo la leucemia e che avevo poche speranze. Ero appena arrivato alla Juventus ed è stato un brutto colpo per me e per mia moglie. Poi alla fine mi curarono, ho fatto un po’ da cavia su nuovi farmaci. Alla fine la scoperta che era solo mononucleosi, poi il recupero».
L’anno successivo, è prestato al Mantova per riprendere confidenza con l’attività agonistica: «Non è stata una stagione tanto buona, a dire il vero. Per carità, compagni e pubblico simpaticissimi. Lucchi bravo allenatore, ma e stata un’annata tutta storta. Il Mantova, alla fine è tragicamente retrocesso in B, anche se di gente in gamba ne aveva parecchia, dai miei amici Petrini e Panizza a Maddé, Nuti e Carelli. Pazienza: è stata comunque un’esperienza interessante, che mi ha permesso di prendere maggiore confidenza con la Serie A. Con il Mantova, infatti, ho giocato quindici volte da titolare e tre da tredicesimo. Senza contare che, a Mantova, mi sono sposato. Annata per niente persa, dunque. Anche se, alla Juve, è un’altra cosa».
Terminata quella stagione, ritorna a Torino, dove vince lo scudetto 1972-73, totalizzando solamente quattro presenze in Coppa Italia: «Con la Juventus ho tanti bei ricordi, ma anche due grosse delusioni. Abbiamo perso l’ultima edizione della Coppa delle Fiere senza mai perdere una gara; in finale abbiamo pareggiato 2-2 in casa con il Leeds e 1-1 in Inghilterra. Due anni dopo siamo stati sconfitti a Belgrado nella finale di Coppa dei Campioni con l’Ajax 1-0 con goal di Rep; ed anche in Coppa Italia, altra delusione in finale con il Milan in Coppa Italia ai rigori. Ma ho anche avuto la grandissima soddisfazione della vittoria del campionato, nel 1972-73, quando il Milan perse 5-3 a Verona e noi vincemmo con la Roma. Il periodo juventino è stato bellissimo; una volta eravamo in pullman seduti vicini io, Bettega e Savoldi. Bettega faceva lo stupido con una moneta da cento lire, alla fine l’ha ingoiata senza volerlo; morivamo dal ridere, è stato addirittura operato».
È ceduto a titolo definitivo al Cesena, nell’estate del 1973; nel club romagnolo rimane per cinque anni, salvo una parentesi a Monza, nella stagione 1976-77. A causa di un grave infortunio, conclude l’attività agonistica nel Forlì, in Serie C1, per poi proseguire a livello dilettantistico: «Mi sono rotto i legamenti del ginocchio a Cesena; operato e guarito, ma con quarantasette punti di sutura e una corsa non più regolare. Dopo quell’operazione è stato un continuo tra strappi e stiramenti fino a che ho deciso di lasciare. Sono finito, per divertimento, a fare il dilettante nella Victor di Cremona».
Dopo il calcio Zaniboni si è dedicato al commercio, con la moglie Mirosa. Prima con una bella confetteria e poi con una tabaccheria, sempre a Cremona: «Penso che se non avessi fatto carriera nel calcio avrei fatto il geometra. Ho studiato al Vacchelli, sono arrivato fino al quarto anno. Era difficile studiare e allenarsi e, spesso, il preside non mi concedeva il permesso di partecipare alle sedute pomeridiane, durante i periodi scolastici. Il calcio mi ha dato tanto, ma la vita è lunga e non si può smettere di lavorare così giovane».
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