Gli aeroporti – scrive Alberto Fasano su “Hurrà Juventus” del marzo 1975 – sono quasi sempre luoghi di incontri piacevoli e imprevisti. In quello di Copenaghen, all’improvviso, mi sono trovato faccia a faccia con quel simpaticone di Karl Hansen, il danese che nella stagione 1950-1951 era stato acquistato dalla Juventus per conferire maggior nerbo a una linea attaccante già tanto ricca di stile e di classe.
Martino, l’argentino, era rimasto soltanto un anno: era arrivato, aveva dato formidabili saggi delle sue virtù calcistiche, poi era tornato in Sud America con la sua biondissima ed esigentissima moglie.
I due giocatori danesi che già si trovavano alla Juve – John Hansen e Karl Age Præst – suggerirono ai dirigenti di non lasciarsi scappare l’occasione di trasferire in bianconero il loro compagno Karl Hansen, già ben noto ai tecnici italiani per la partita giocata contro gli azzurri alle Olimpiadi di Londra, nell’agosto del 1958. Karl Hansen, d’altra parte, si trovava già in Italia: giocava nell’Atalanta e fu facile farlo arrivare alla Juventus, in virtù dei rapporti di tradizionale amicizia che da sempre hanno legato la società bergamasca a quella torinese.
I calciatori danesi erano venuti in Italia mascherati da fantasmi: con un lenzuolo candido da dilettanti purissimi che li avvolgeva dalla testa ai piedi, e con due buchi per gli occhi, allo scopo di capire in quale mondo fossero capitati. I nostri ospiti avevano fatto in fretta a fiutare il vento di milioni che turbinava sulle cose e sui personaggi della palla rotonda di casa nostra, cosicché non tardarono ad ambientarsi e ad adeguarsi agli usi e costumi calcistici che vigoreggiavano nel nostro impareggiabile paese. Tuttavia, lo riconosciamo apertamente, non c’è stato ospite nordico delle nostre società (agli Hansen e Præst bisogna aggiungere i Nordahl, Gren e Liedholm, e Sørensen, ecc.) che non abbia fatto della sua esemplare coscienza professionale la contropartita dei suoi guadagni cospicui. E l’amico Karl Hansen non è sfuggito alla regola. Chi lo ha conosciuto non può fare a meno di lodarne, a distanza di venticinque anni, l’attività e la serietà.
Aveva giocato in Danimarca nelle file dell’Akademik Bold Club: il suo ruolo era quello di centromediano metodista, ma seppe presto trasformarsi prima in stopper sistemista e poi in mezzala a tutto campo. Con la sua squadra dell’Akademik vinse quattro titoli nazionali e quattro Coppe di Danimarca; fece parte 23 volte della Rappresentativa danese. Dopo la strepitosa esibizione di Londra, il Milan aveva deciso di acquistarlo, ma la società rossonera aveva già tesserato tre stranieri e dovette cederlo all’Atalanta. Di qui, come si è detto, fu trasferito alla Juve per la cifra record di 80 milioni.
Karl Hansen era nato nel luglio del 1921 a Copenaghen. Quando indossò la maglia bianconera della Juve, aveva dunque trent’anni; ne aveva compiuto 31 quando cucì sulla maglia il nono scudetto vinto dalla squadra allenata da Bertolini, Combi e Sárosi.
Il formidabile atleta danese era uno di quei giocatori – pochi e preziosi – che hanno costretto la natura a servirsi della quercia e non dell’argilla per plasmarne la figura: la solidità atletica, infatti, era la nota spiccante della sua taglia di giocatore-chiave per la squadra che ne avesse bisogno per coordinare i congegni, irrobustire il telaio, possedeva una lancia e uno scudo da utilizzare via via, a seconda delle esigenze e degli sviluppi della partita. Il buon metallo con il quale era stato costruito, reagiva vigorosamente all’acido corrosivo delle primavere ma Hansen aveva anche classe genuina, perché teneva nelle gambe e nel cervello il segreto e il modulo del gioco molteplice, ora schierandosi all’attacco, ora retrocedendo verso la cerniera della squadra, e non consumandosi mai né in un ruolo né nell’altro; e questo, secondo noi, è stato il coefficiente della sua durata ad alto livello.
È sempre difficile precisare la somma di benessere tecnico che un solo giocatore può apportare al complesso di una squadra, ma è tuttavia difficile negare che, ad esempio, la Sampdoria e il Catania (le squadre che utilizzarono questo grande giocatore dopo la Juventus) non abbiano tratto grandissimo beneficio dalle prestazioni di Karl Hansen.
Aveva un nitido senso architettonico del gioco e della partita. Nel corso delle sue gare più robuste e redditizie, si aveva addirittura la sensazione che avesse stampate sulle membrane del cervello le linee geometriche che la palla compone e scompone nell’aria e sul terreno. Raramente il suo gioco aveva la sigla individuale dell’artista che opera per conto suo, mentre il resto dello spettacolo gli è distante e indifferente. Hansen è sempre stato un lavoratore per conto della collettività: di qui la sua razionale condotta tattica, la rapidità delle sue concezioni di manovra, la fecondità della sua collaborazione. Meno solista che direttore d’orchestra, Karl Hansen aveva sempre in testa il quadro pulito dell’esecuzione generale: sovente la vittoria della Juventus ha avuto, se non il suo gol, l’accento della sua personalità.
Ma di gol, nella Juventus, Karl Hansen ne segnò parecchi, ben 37. Nella stagione 1950-51, fu il capocannoniere bianconero, con la bellezza di 23 reti segnate (contro le 22 di Boniperti, 20 di John Hansen, 16 di Præst e 10 di Muccinelli). Nei cinquanta minuti durante i quali abbiamo conversato al bar dell’aeroporto di Copenaghen, sono tornati alla ribalta episodi curiosi. L’amico Karl – che ha 54 anni compiuti – ha ricordi nitidissimi degli anni trascorsi a Torino giocando per la Juve.
«C’era un arbitro – rammenta Karl – che aveva un fatto personale con me. Era il triestino Pieri: aveva l’abitudine di non vedere o annullare i miei gol. Ricordo di uno stranissimo gol segnato su calcio di rigore a Legnano, la seconda partita di campionato della stagione 1951-52. Il mio bolide, con il portiere Gandolfi fermo sulla linea di porta, colpì lo spigolo interno del palo destro, la palla passò dietro alla schiena del portiere, naturalmente al di là della linea del gol, poi rimbalzò contro l’altro palo e Gandolfi, girandosi, se la trovò tra le braccia. Era un gol sacrosanto ma Pieri non lo convalidò. Il caso più clamoroso, però, avvenne nel maggio della stagione precedente, quando a Torino battemmo il Genoa per 4 a 1. Aveva segnato per primo il mio connazionale Præst, aveva pareggiato Dante per il Genoa e sul risultato di 1 a 1 era terminato il primo tempo. Nella ripresa la Juve attaccò a fondo e, dopo pochi minuti, sferrai un tiro da fuori area con inaudita potenza. La palla si infilò nel sette, alla destra del portiere Bonetti: ma la rete era un po’ logora e il pallone, tanto potente, l’aveva sfondata. Tutti avevano visto che la palla era entrata in rete, solo l’arbitro non lo aveva notato. Ma la cosa che mi fece diventare paonazzo per la rabbia fu il fatto che il signor Pieri si rifiutò di constatare la rottura della rete e fece praticamente continuare la partita in condizioni di palese irregolarità, piuttosto che darmi la soddisfazione del gol; soddisfazione, tuttavia, che mi presi alcuni minuti dopo deviando da pochi passi un delizioso passaggio di Boniperti. A proposito, come sta il mio amico Giampiero?».
Lo informiamo dell’ottimo stato di salute fisica del presidente. Hansen aggiunge immediatamente: «Boniperti è un uomo fortunato. Ma io dico che merita pienamente le grosse soddisfazioni che ha raccolto nella vita, prima come calciatore, poi come dirigente e ora come presidente. Farà una scorpacciata di scudetti…».
Si parla poi di Parola, che Karl Hansen ebbe come compagno di squadra per tre campionati e poi avversario quando lui, Hansen, venne trasferito alla Sampdoria. «Ricordo che a Torino, in maglia blucerchiata, disputai una grossa partita contro i miei ex amici bianconeri. Il primo tempo era terminato a reti inviolate, malgrado gli sforzi di John e Karl Age per segnare un gol. Con me, nelle file della Samp, c’erano altri ex bianconeri. Mari certamente, e poi la mezzala Coscia, mi pare. In quella partita Parola giocava come laterale, perché lo stopper era Rinone Ferrario, A pochi minuti dalla fine la Juve riuscì a segnare il gol della vittoria. E sai chi lo realizzò? Lui, naturalmente, Boniperti!… E la Juventus vinse anche a Marassi, nella partita di ritorno, con un gol dell’argentino Ricagni, un tipo buffo ma ricco di classe».
Karl Hansen dice di leggere, almeno due o tre volte la settimana, qualche giornale italiano. Segue le vicende del nostro calcio, specialmente di quello della Juventus. «Non riesco a capire – confessa il danese – la difficoltà che moltissime squadre incontrano nell’andare in gol. Leggo di troppi risultati per zero a zero. Ai miei tempi era molto diverso, c’erano meno tattiche, si amava il gioco, la manovra era perfettamente offensiva. Nella stagione 1950-51, quando il Milan vinse lo scudetto, i rossoneri segnarono complessivamente 107 reti, altrettante l’Inter che si classificò al secondo posto, 103 noi della Juve, terzi al traguardo. L’anno successivo, quello del mio scudetto, scaraventammo 98 palloni nelle reti avversarie. Vincemmo il derby per 6 a 0: due gol di Boniperti, due di John Hansen, uno di Vivolo e l’ultimo lo segnai io, Era una Juventus scapigliata e allegra, come quella di oggi, immagino. Tutti giocavano in qualsiasi ruolo. A Torino contro l’Atalanta, nel giugno del ‘51, la Juve schierò una prima linea inedita, composta in prevalenza da mediani e terzini. C’erano Muccinelli, Parola, Boniperti, Bizzotto e Bertuccelli. Ebbene: segnarono tutti e cinque un gol ciascuno, il sesto lo mise a segno il mediano Mari…».
L’aereo di Karl Hansen, diretto a Londra, sta per decollare. «Ricordi – mi dice congedandosi – che cosa facevo in gioventù? Ho giocato due campionati in una sola stagione e questo per tre anni consecutivi. Al sabato ero di scena in Inghilterra, la sera prendevo l’aereo e la domenica andavo in campo a Copenaghen. Altri tempi, d’accordo, ma il mio fisico ha sempre risposto bene. Salutami tutti gli amici, specialmente il presidente Boniperti e l’allenatore Parola. Mandatemi il giornale dove sarà stampata la notizia del prossimo scudetto!…».
VLADIMIRO CAMINITI
La prima volta che Boniperti mi parlò di Karl Hansen, ne fissò le capacità, lui che in poche parole sa sintetizzare un mondo (Boniperti è un immenso cranio calcistico) con queste parole: «Karl avrebbe potuto giocare tre partite in un giorno». Non so se risulta a verità, ma temo di sì. Indubbiamente, Karl Aage Hansen come giocatore era uno stakanovista. È stato uno dei centrocampisti più grandiosi e creativi della storia. Il lettore non pensi che noi esageriamo. Non si esagera mai quando si parla di questi strabilianti pedatori arrivati da lontano, da terre per lo più fredde, nelle nostre calde e amene contrade. Poderoso centrocampista anche incontrista, cursore che non si dava requie, noi ci eravamo imbattuti in lui, parlo di noi italiani, il 5 agosto 1948, all’Olimpiade inglese, nella sfida di Highbury: Danimarca cinque, Italia tre.
Formazioni. Danimarca: Nielsen; Jensen e V.Overgaard; Pilmark, Ørnvold e Jensen; Pløger, K.A.Hansen, Præst, John Hansen e Seebach. Italia: Casari; Giovannini e Stellin; Maestrelli, Neri e Mari; Cavigioli, Turconi, Pernigo, Cassani e Caprile. Quattro gol di John Hansen e una grandissima regia di Karl Hansen spiegano dinanzi alla storia quella solennissima batosta della nostra Nazionale olimpica. E, da lì in poi, danesi a gogò, occupano, presidiano, rappresentano, l’Atalanta e la Juventus se ne arricchiscono. Karl Hansen, partito, anzi ripartito, Rinaldo Martino per l’Argentina, passa alla Juventus.
L’Atalanta di Daniele Turani non aveva frapposto indugi, riuscendo a portarlo a Bergamo nell’estate del 1949 che in mezzo ad un mare di tristezze, vivevamo l’angoscia della fine del Grande Torino, annunciava nuovi prodigi. Karl Hansen fu grandioso. L’avvocato Gianni, amatore di calcio dal fiuto inimitabile, aveva visto bene. In assemblea degli azionisti, aveva annunciato che avrebbe sostituito l’ineffabile e infelice Rinaldo Martino con il più grande interno d’Europa! E aveva mantenuto la promessa! Quando mai l’Avvocato, diciamolo pure, ha sbagliato una desinenza calcistica?
Karl Hansen, che aveva fatto salto con l’asta in gioventù, che correva senza palla andando a occupare le posizioni strategiche del gioco, e che arrivava sempre primo sui palloni da far convergere verso la testa prensile e pure magica di John Hansen, il Gazzellone, aveva altruismo innato, era mezzala, ma di più, uomo squadra, come da noi pochi se ne sono visti, anche se il suo apporto alla Juventus in tre anni sarebbe stato tormentato: 86 partite e 37 gol, per via di dolori intermezzi fisici.
La Juventus lo avrebbe poi ceduto alla Sampdoria e da Genova andava a giocare a Catania all’altezza di un magistero per quella società, davvero indimenticabile e impareggiabile. Karl Hansen, dice bene Boniperti, avrebbe potuto giocare tre partite in un giorno. I suoi polpacci si industriavano a lavorare il campo su e giù, ininterrottamente.
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