Ala destra, di quelle tradizionali – scrive Franco Costa su “Hurrà Juventus” dell'aprile 1971 –, piccolo e sgusciante come un pesce. Il suo dribbling e la sua corsa ricordano Muccinelli del quale, l’avrete intuito, ha anche la statura. Nel calcio i paragoni sono sempre imbarazzanti, anche perché chiamando in causa gli assi del passato, puntualmente si rischia di illudere ragazzi ancora in formazione fisica e mentale, ai quali invece gioverebbe maggiormente crescere in umiltà, senza tanto chiasso attorno. Ma c’è mentalità e mentalità. Già a diciotto anni si intuisce se il ragazzo è predisposto a montarsi la testa. Non ci sembra il caso di Montorsi il cui carattere riflette quello di Zaniboni, umile e coscienzioso insomma.
L’ho visto nelle semifinali del Torneo di Viareggio, per la prima volta impegnato in un’occasione molto attesa. Le circostanze della partita contro la Fiorentina l’hanno portato spesso ad arretrare, anche fino ai limiti della propria area e in questo compito Montorsi ha confermato di essere oltre ad uno stilista e a uno scattista anche un giocatore di temperamento, sempre pronto a sacrificarsi per la sua squadra in un compito poco appariscente ma utile. I titolari della Juventus, intanto, a ogni trasferta chiedono che Montorsi faccia parte della comitiva perché porta buono, con lui al seguito i bianconeri non hanno mai perso.
Sembra dunque predestinato al successo non soltanto dalla bravura che comunque, considerata l’età, è ancora da coltivare, ma anche nella simpatia. E quando un ragazzo porta impresso sul viso quel sorriso schietto come succede a Montorsi difficilmente la fortuna gli volta le spalle. Sempreché lui sappia amministrarla, naturalmente, questa fortuna.
ANDREA ALOI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 3-8 APRILE 2002
«Era l’inizio della preparazione. Il 30 agosto del 1974 ho preso il coraggio a due mani e ho comunicato la mia decisione ai dirigenti del Padova: “Smetto di giocare per motivi personali”. Mi fecero firmare un documento per chiarire la cosa e non avere fastidi in seguito. La mia vita di calciatore è finita quel giorno. Avevo ventitré anni».
Motivi personali. Un mucchietto di sillabe buone per l’ultimo adempimento burocratico dell’ala destra Roberto Montorsi, incantatore di palloni e sensibile speranziella di Juve e Mantova, che se l’erano coltivato in A. Parole per dire tutto e niente mentre una porta si chiude piano, i passi si allontanano e appare la scritta “fine”. «Già, il famoso “perché”. È questo: ho inteso profondamente che la vera felicità è amare il mio prossimo come me stesso. Il calcio professionistico non mi lasciava questa possibilità: dovevo ficcare il gomito nello stomaco del terzino, essere in competizione, impegnarmi un’intera settimana fisicamente e psicologicamente per far perdere gli altri. Cosa potevo spiegare a quelli del Padova? Sentivo dentro che non avrebbero capito, i miei amici-tifosi del paese sono stupiti ancora adesso».
Racconta preciso, convinto. La voce di un ragazzo. Un secolo dopo Roberto vive dove l’hanno riportato quei passi discreti, a Castellucchio, il suo paese a dieci chilometri da Mantova. Ha interrotto gli studi in medicina a nove esami dal traguardo, non si è sposato. E l’altro perché, in questo uomo semplice e onesto, ha il nome di una ragazza amata – e mai dimenticata – che non l’ha voluto. La chiameremo G., il punto dolente o forse l’ennesimo pretesto per restare fermi davanti al fiume che scorre: “Avrei preferenza di no”, come il mite scrivano Bartleby di Melville. Ha cinquant’anni. Sta in casa con la mamma, Angiola. Mario, il papà, è morto un anno fa. Fa volontariato, vede gli amici, il calcio non lo segue e le ultime uscite da praticante risalgono alla “Squadra della felicità”. Tanto tempo fa: «Avevamo scelto quel nome mica a caso. Ero tornato al paese, si organizzavano dei tornei notturni per divertimento. Ero fortissimo. Lo spiegavo a don Vito, il parroco, che finalmente potevo concepire la competizione come uno spasso, lo stesso di quando si è bambini. Un’eccezione giocosa al rifiuto della competizione. Per gioco sì, per lavoro no, perché mi condizionava la vita».
I conti con Dio, con l’umana incarnazione in Gesù sono ultimativi se si vuole testimoniare il Vangelo. Talvolta lasciano intendere debiti difficili da saldare con se stessi. Chiedono rispetto sempre. Ascoltate Roberto, non è questo il posto per giudicare. «Al momento, il passaggio al Padova in C non mi era spiaciuto, almeno avevo mantenuto il livello, dato un freno alla caduta verticale: dalla Serie A con la Juve e il Mantova ero sceso in B col Monza e poi in C col Sorrento nel ‘73-74. Col Monza avevo giocato quattro partite, Allodi, il direttore sportivo della Juve, mi aveva dato in comproprietà ed era venuto fuori un campionato fallimentare. Sa com’è, a Mantova avevo giocato sei partite, mi si era visto poco e le quotazioni erano cadute, per cui squadre di Serie A non ne avevano trovate. Il Monza in B poteva essere la soluzione, ma fu un disastro. In fondo in fondo avevo gli occhi sui libri, studiavo anche il sabato sera e la domenica non rendevo».
Sorrento e la C, in prestito per ritentare. «Il dottor Giuliano, stretto collaboratore di Boniperti mi aveva fatto questa promessa: “Vai a Sorrento, segni dieci gol e ti riprendiamo”. Ero innamorato di una ragazza di Castellucchio, (lei, G., ndr) e non mi andava tanto di allontanarmi, però decisi di impegnarmi: va bene, cerco di dedicarmi solo al calcio, se quest’anno non va finisco in quarta serie. Nel girone d’andata feci sei gol, sempre da ala destra, ma stavolta cercavo di concludere, di non limitarmi a dare bei passaggi al centravanti, che era Claudio Del Fabro, mio grande amico. Mi montai la testa: ora ne infilo altri sei e rientro a Torino. Invece segnai solo un altro gol al Siracusa. Che bella Sorrento, mi ricordo il golfo di Napoli, la ferrovia Circumvesuviana che prendevo per andare a Napoli all’Università. A fine campionato la Juve mi diede in comproprietà al Padova e lì ho avuto la crisi religiosa».
Roberto è nato in una famiglia né ricca né povera. Il nonno – arrivato a Castellucchio da Maranello nel ‘41 – e il papa erano casari, producevano formaggio grana. Per un bambino della classe l951 il pallone era la giornata piena di partite, dall’oratorio al campo sportivo. Era il sogno di diventare calciatore riguardando con devozione quella foto: Lido di Jesolo, il piccolo Montorsi in posa accanto a Sivori. «Il mio idolo e, destino, sono riuscito a entrare proprio nella Juve. Ero chierichetto, logico che giocassi nella squadra del prete, la Juvenilia. Bisogna ricordare che erano gli anni della Guerra fredda: noi avevamo un campo, i comunisti dell’Us Castellucchio un altro e ognuno faceva il suo campionato distinto. Ala destra, sempre. Gran tocco di palla, scatto e velocità. A sedici anni, senza allenamento specifico, correvo i cento in 11 e 4. Nel dribbling ero bravo ma segnavo poco perché avevo paura di sbagliare, ero più da passaggi. Al tempo delle medie, a Mantova, un amico mi portò alla Fulgor, poi passai nel S. Andrea, la squadra della cattedrale, e mi notarono quelli del Mantova. I genitori erano contenti, andavo bene a scuola, e continuai fino alla Primavera, allenata da Giagnoni. Il campionato ‘68-69, in B, lo iniziò Mannocci, a gennaio subentrò Giagnoni e salvò la squadra dalla C. Mi conosceva, voleva farmi giocare e aspettò che la situazione fosse tranquilla per farmi esordire, a due giornate dalla fine. Avevo diciassette anni».
Come andò? «Male. L’anno dopo ero titolare nella De Martino e Giagnoni mi buttò nella mischia a dicembre, contro il Foggia primo in classifica. Io, piccolino com’ero, segnai di testa passati dieci minuti e da allora rimasi in prima squadra».
Sedici presenze, di nuovo in gol, ottime partite in casa. Buone credenziali per Sentimenti IV, osservatore bianconero, che lo richiede ufficialmente. «Io non sapevo niente, solo a fine campionato mi chiamò Giagnoni: “Roberto, fai il bravo, accetta quello che ti offrono senza fare storie”. Allodi mi chiese quanto prendevo al Mantova. Ed io: “Cinquantamila lire”. Sa, ero un debuttante, andavo ancora al liceo classico, la preside veniva a vedere le mie partite e il lunedì mi riprendeva: “Montorsi, tira di più”. Allodi mi fece la proposta: “Ti va bene mezzo milione al mese?”. Accidenti, sì. Erano soldi. Per dare l’idea, la benzina costava 145 lire al litro. Diedi l’esame di maturità e il 27 luglio del ‘70 ero a Tonno, agli ordini di Armando Picchi, che mi voleva bene. Ho sofferto quando è morto. C’era il fior fiore del calcio italiano, Bettega, Causio, Spinosi, Anastasi, Furino, Capello. Quelli che l’anno seguente avrebbero cominciato a vincere e non avrebbero più smesso».
Con le stelle, molte promesse, da Montorsi ai fratelli d’arte Gianluigi Savoldi e Fausto Landini. Età media 23 anni. «Gli anziani erano Haller e Salvadore. E fu Picchi che cominciò a chiamarmi “il dottorino” e dopo lo fecero tutti. Nello stesso giorno andai a iscrivermi all’Università con Furino, io a Medicina, Beppe a Economia e Commercio. Ma lui pensava di più al calcio, aveva una incredibile forza di volontà, pensi che gli allenamenti partivano alle dieci di mattina e Beppe alle otto e mezza era al campo. In finale di Coppa delle Fiere, pareggiammo l’andata 2 a 2 a Torino col Leeds, al ritorno prima della partita entrò Boniperti nello spogliatoio e disse: “Ragazzi, stasera dovete giocare col cuore di Furino”».
Montorsi dalle tribune di Elland Road assiste all’1 a 1 che non basta alla Juve. La sua stagione bianconera è decollata e atterrata in un giorno d’aprile, contro il Vicenza al Menti. Partita intera, ma una. «Non giocai granché bene. Il povero Picchi era già in ospedale, la squadra l’aveva presa Vycpalek. Ero talmente abituato all’idea che non avrei mai giocato titolare che non mi preoccupavo di tenermi sotto mano le scarpe bullonate, pure quella volta mi ero portato dietro soltanto quelle da allenamento, coi tacchetti di gomma. Salvadore mi diede una delle sue scarpe di riserva, l’altra non ricordo più. Si capisce anche da questo episodio che non ero molto concentrato sul calcio».
Allodi constata il fallimento e comunica a Roberto una destinazione gradita: “Ti ridiamo in prestito al Mantova, è salito in A, c’è Giagnoni”. «Ero contento di ritrovarlo. Mi dava la carica, con me era psicologo: siccome ero timido, non alzava mai la voce. Un secondo padre. Invece andò al Torino e trovai Lucchi».
Campionato ‘71-72. La Juve vince lo scudetto, il Mantova retrocede. Montorsi gioca sei partite, appena una intera, a fine stagione contro l’Inter, il resto sono gradini in discesa. «I miei amici juventini sono stupiti tuttora: ma Roberto, hai abbandonato la Juve, tutti i ragazzi d’Italia avrebbero voluto essere al tuo posto. A me non importa. Cè stata una fase della vita in cui mi ero abituato al successo, alle donne, ai soldi. Poi mi sono convertito al cristianesimo e ho raggiunto la conoscenza perfetta della verità, che è amare il prossimo come me stesso, sapendo che Gesù e Dio, accettando il rifiuto, un Dio sconfitto sul piano terreno, mentre prima mi illudevo di poter portare il paradiso in terra».
Nel racconto di Roberto, il disamore per gli studi s’innesca nell’innamoramento per G. Una passione totale. La sua giovinezza, una volta ripresa la strada di Castellucchio, si arena su un “no” che lo porta per mano sull’altra riva: «Lei non mi voleva, io soffrivo e imparavo Fisiologia a memoria, senza capirla. La sera che non ha voluto ballare con me, in discoteca, ho preso la decisione: mai più sarei andato incontro ai dolori e alle delusioni. La filosofia indiana dice che dove c’è illusione non c’è Dio».
Di qua o di là. Roberto adesso gioca in difesa, lontano dal mondo in corsa che contiene la maggior parte di noi. Non giudicatelo. Ma ascoltate il finale della storia: «Il prossimo agosto sono ventotto anni che ho smesso. Anni passati bene o male a seconda di come ero spiritualmente dentro. Faccio volontariato all’Istituto Geriatrico e al Patronato Acli di Mantova che si occupa di previdenza, assicurazioni, infortuni sul lavoro. No, un lavoro remunerativo non ce l’ho, però non credo di avere difficoltà in futuro. Ho consumi limitati, non ho moglie né figli, ho rinunciato alla macchina nel ‘77 e l’ho regalata a mia sorella Maria Rita. Vado a piedi, in bicicletta o in treno. Sono sempre innamorato di G., è l’unica cosa che non passa. Al bar Sociale di Mantova qualche tempo fa ho incontrato Giagnoni. Mi ha chiesto come andava e gliel’ho detto: “Eh mister, va male, sono innamorato di una sposata”. Mi ha risposto: “Roberto, sei fortunato, a te batte ancora il cuore”».
Nessun commento:
Posta un commento