Le nuvole si agitano inquiete in cielo come inseguissero un pallone o dovessero marcare stretto l’avversario – scrive Guido Andruetto su “Hurrà Juventus” dal maggio 2008 – bianche e nere fanno un certo effetto sopra le nostre teste, mentre ci stringiamo la mano prima di incamminarci verso il posto scelto per l’intervista. La cornice dell’incontro con Zdenek Grygera è la dorata hall del Principi di Piemonte, un salotto lucente dentro il quale il difensore ceco dice di ritrovare l’eleganza e la raffinatezza di una città e di una squadra che lo hanno letteralmente sedotto. Comincia così, dal racconto di questo innamoramento abbagliante, il nostro colloquio: «Indossare la maglia bianconera per me è un traguardo così importante, e per certi versi inatteso, che mi risulta stranamente difficile spiegare la sensazione di grazia e di realizzazione che sto provando in questa fase della mia vita».
La Juventus di Grygera prima di diventare realtà era sogno, desiderio coltivato con compostezza fin dalla più giovane età ma anche obiettivo forse inconsciamente perseguito con una determinazione rara. È stata questa la strada che lo ha condotto a Torino sino a sfiorare l’anima della «Signora», gesto d’amore che si è espresso in tutta la sua bellezza in campo, il 9 marzo, con un tiro sparato contro la porta del Genoa da venti metri, o giù di li, che gli è valso la sua prima rete nel ruolo di terzino destro della gloriosa Juventus: «Anche questa è stata un’emozione fortissima – dice Grygera mischiando simpaticamente inglese e italiano in un nuovo slang – dopo aver messo la palla in rete ho percepito la forza e la fierezza della tifoseria bianconera che si riversavano su di me come all’improvviso, come un’onda che ti travolge, così anche da parte dei miei nuovi compagni di squadra. Eppure non mi sembrava di avere fatto il miracolo, in fondo si trattava pur sempre di un gol come tanti altri e non certo di una rete risolutiva almeno per il campionato. Invece tutti hanno esultato per il mio intervento, mi hanno abbracciato e festeggiato come fossi un piccolo eroe: è stato in effetti un momento molto intenso e di grande coinvolgimento».
Non è falsa modestia, la sua. Dietro questo atteggiamento che, curiosamente, rimanda allo stile sabaudo, dove quasi ci si impone nell’economia come nella politica o nello sport, di stare con i piedi per terra, di non esagerare, di mantenere un profilo basso – si nasconde la semplicità di un ragazzo, oggi quasi ventottenne, nato (anche calcisticamente) nella cittadina ceca di Pollepy u Holesova, dove suo padre, il signor Svatopluk che di mestiere faceva il bancario, nei momenti liberi allenava una squadra di bambini. Quella in cui Zdenek entrerà a soli 5 anni per iniziare una carriera che lo porterà molto lontano. La figura del padre infatti ricorre spesso, ancora oggi, nei sogni e nei discorsi del Grygera campione, approdato alla squadra sotto la direzione di Ranieri dopo le esperienze entusiasmanti portate a termine nello Zlin, nell’Ajax e, importante presenza, nella nazionale di calcio della Repubblica Ceca: «Mio padre mi ha insegnato a essere sempre attento e mai impulsivo quando devo pesare i miei successi o anche i miei fallimenti. È una cosa che ho imparato nel confronto costante cui ci obbliga la famiglia, un percorso di maturazione difficile ma che ripeterei fin dal principio. Ricordo ad esempio quando mio padre riusciva a trovare dei punti deboli, delle inadeguatezze, anche in quelle performance che gli amici o i cronisti anche più critici definivano come le mie migliori. Lui era sempre un passo indietro, quando c’era da gustarsi il successo, era sempre più tiepido degli altri quando doveva esprimere la sua contentezza per un mio risultato giudicato ottimale. E stava un passo avanti quando mi sentivo inadatto, quando avevo bisogno di qualcuno che mi incoraggiasse dopo un errore, di qualcuno che mi indicasse la via giusta per evitarne altri, di sbagli. Un grande esempio, ecco cosa è stato per me mio padre».
E un tesoro umanamente prezioso, è quello che gli ha lasciato in eredità: «Mi vengono in mente certi momenti quando ero giovanissimo e quando diverse persone nel mio paese mi dicevano che presto sarei riuscito a giocare nella Juventus. Io gli rispondevo che era pura follia, che sembravano matti anche solo a pensare certe cose. Invece adesso sono qui, ad assaporare la gioia di una meta conquistata e che non immaginavo di raggiungere così rapidamente».
Una gioia vera alla quale si somma l’emozione di trovarsi gomito a gomito con alcuni degli idoli del calcio italiano a lui più cari: «Ho sempre seguito con rispetto e ammirazione il talento di un grande come Alessandro Del Piero, con il quale adesso condivido addirittura gli stessi obiettivi e la stessa maglia, ma anche altri big del calcio italiano, come Ciro Ferrara, Gianluca Pessotto, Roberto Baggio, Fabio Cannavaro oppure Paolo Maldini, mi hanno spesso ispirato offrendomi un modello di calcio giocato anche con la testa e con il cuore».
L’Italia è fortunatamente anche questo, testa e cuore, per chi da fuori ne ammira il carattere fantasioso e generoso. «Un paese dove si vive di pane e calcio, non si dice così? – chiede Grygera con sguardo complice ma pure innocente – il vostro attaccamento al calcio, parlo degli italiani, è stupefacente. Da quando sono a Torino, che è la mia “finestra” sull’Italia, ho capito che la gente qui ha una grandissima dimestichezza con il calcio, una conoscenza profonda anche della tecnica e per questo credo dispensi giudizi e critiche con molta sicurezza. Qui si usa il “noi” parlando della propria squadra del cuore. “Abbiamo giocato male”, oppure “abbiamo fatto un’ottima partita”, oppure “dobbiamo essere più determinati”, sono modi di esprimersi, forme di partecipazione al gioco, che non esistono per esempio in Olanda, dove c’è più distacco».
E meno cuore? «Non lo so, di sicuro c’è un grado di coinvolgimento inferiore. L’argomento calcio non è come qui il primo che si affronta di lunedì al bar davanti a un caffè».
A proposito, il tempo libero, il relax, che spazio occupano nella nuova vita sotto la Mole di Zdenek Grygera? «Amo molto girare per la città con la mia famiglia, fare shopping, frequentare gli incantevoli caffè e ristoranti che impreziosiscono il centro storico, così elegante. Ho vissuto per qualche tempo nel parco della Mandria vicino a Torino, un posto di una meraviglia infinita, ma il fascino del centro ha più presa su di me. Con la compagnia di mia moglie Lucia e del nostro piccolo David credo di avere trovato qui in centro un’oasi di relax, che naturalmente cerchiamo di goderci in ogni momento libero quando possibile. In linea di massima però non sono un tipo da locali notturni o da dopocena, diciamo che prediligo soprattutto la buona cucina e i grandi vini di questa regione, il Barolo per esempio è eccellente e lo apprezzo particolarmente».
È un’esplosione di felicità, Grygera, di qualunque cosa parli. «È vero, sono molto felice. Essere parte della Juventus mi sta regalando tutta questa gioia, ma cerco di non trascinarla in altri sentimenti, voglio continuare a vivere e a giocare con tranquillità».
Una condizione di spirito nel segno dell’equilibrio che è il segreto della sua scalata nell’Olimpo del calcio. Eppure il peso della maglia bianconera ha sempre il potere di stordire, disorientare, di esaltare chi la indossi da titolare, accade anche i meno inclini ai facili entusiasmi. Non è successo a lui: «Vivo tutto con leggerezza, che non vuol dire irresponsabilità, e quando vado in campo mi impongo di avere la mente sgombra, di essere rilassato e di non farmi ingabbiare dalle paure che è naturale provare quando ci si rapporta a una squadra con la S maiuscola e con una grande tradizione di vittorie alle spalle. Mi dico che la Juventus sognata è quella in cui gioco oggi, e per questo devo portare la serenità del mio carattere anche in questa nuova avventura: io e la squadra non siamo mai cambiati».
E del suo futuro nella Juve, che idee si è fatto? «Lo immagino roseo, mi pare che i segnali in campo e fuori finora siano stati tutti positivi e incoraggianti. C’è molto da fare e da lavorare ma siamo coesi ed io credo di poter dare il mio contributo, sebbene sia piccolo e parziale, al risultato finale. Noi, non è un segreto, puntiamo alla vetta del campionato, ma soprattutto pensiamo a giocare bene. Per questo ho poi capito che l’esaltazione secondo me esagerata per il mio gol contro il Genoa aveva una sua ragione. Mi sono detto: è vero che non abbiamo vinto il campionato, però alla gente e ai miei compagni di squadra ha fatto enormemente piacere vincere in quel modo quella partita. È questo il motore che dà spinta al calcio e che ci carica di emozioni. E gli italiani sanno comunicare bene il concetto, anche in questo sono dei maestri assoluti».
Arriva a parametro zero e con molta diffidenza da parte dei tifosi juventini. Casacca numero 21, esordisce nel settembre 2007, all’Olimpico di Roma, contro la squadra giallorossa. La prima parte della stagione è a luci e ombre: Zdenek si dimostra un buon giocatore, ma privo di quella personalità che necessità per fare il salto di qualità. È tranquillo («dormirebbe sempre – afferma Nedved – fatica persino ad arrabbiarsi, quando invece servirebbe»), diligente, ma si limita al compitino e niente di più. Comunque sia, grazie anche ai frequenti infortuni di Zebina, è spesso schierato da titolare. La svolta della stagione, avviene a Genova, il 9 marzo, contro i rossoblu; il ceco è schierato come terzino sinistro e, con un grandissimo gol e un assist a Trezeguet, è eletto migliore in campo.
Da quella partita in poi, Zdenek acquista sicurezza e anche i tifosi bianconeri si accorgono di lui, incoraggiandolo a ogni giocata. Grazie al costante appoggio dei tifosi, gioca a buon livello anche la seconda stagione con la maglia juventina, riuscendo a realizzare anche 2 reti: la seconda marcatura stagionale è quella importantissima, che vale il pareggio nella sfida casalinga contro l’Inter. Nei minuti di recupero, infatti, Grygera è lasciato completamente solo, su azione di calcio d’angolo battuto da Giovinco. La sua incornata è precisa e non lascia scampo a Julio Cesar, rendendo pazzi di gioia tutti i tifosi bianconeri che temevano ormai di uscire sconfitti dalla sfida con i nerazzurri.
Le due stagioni seguenti sono senza lode e senza infamia. Grygera ritorna a essere un calciatore che non riesce a dare quel qualcosa di più per meritarsi il posto in squadra. L’arrivo di Motta nell’estate del 2010, lo relega spesso in panchina. E il 30 agosto del 2011 rescinde il contratto che lo lega alla Juventus e firma con gli inglesi del Fulham. In totale colleziona 144 presenze e 3 reti.
«Quel gol me lo ricordo benissimo, le sfide con i nerazzurri erano sempre importanti e sentite. È stata una bellissima soddisfazione che mi porto sempre dentro. Di quel periodo sono contento, con l’unico dispiacere di non aver vinto lo scudetto. C’erano tanti campioni, da Buffon a Nedved, Del Piero, Trezeguet. Con Nedved mi sento praticamente tutte le settimane. Seguo sempre la Juve e una-due volte l’anno la vedo».
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