lunedì 15 gennaio 2024

Domenico MAGGIORA



Ci sono numerosi modi di scoprire, talenti pedatori giovinetti – scrive Gianni Giacone su “Hurrà Juventus” del febbraio 1974 – un tempo i «cercatori» si sguinzagliavano per i campetti di periferia o per i prati della provincia, armati di pazienza e taccuino, e adocchiato il ragazzino ad hoc lo segnalavano al club per cui lavoravano. Oppure lo cartellivano immediatamente, tra una pedata e l’altra. Oggi è invece più diffuso il reclutamento dei giovanissimi, e con i NAG gran parte del colorito e romanticheggiante mondo dei talent’s scouts e dei mediatori vari ha cessato di esistere.
La scoperta di talenti, tuttavia, anche se rarefatta e occasionale anziché fatta su ordinazione e sistematicamente, avviene ancora. Può persino accadere che il soggetto in questione, anziché nel campetto di periferia, si riveli al tecnico e al supporter nella ben più ufficiale cornice dello Stadio Comunale: è il caso (lungo, lunghissimo preambolo per arrivarci) di Domenico Maggiora, praticamente nato e cresciuto nel NAG bianconero, epperò rivelatosi improvvisamente come ragazzo di talento e di avvenire in occasione della Finale del Campionato Primavera 1971-72 tra Juventus e Roma, in un caldo pomeriggio di giugno con sole battente e mercurio impazzito nelle colonnine dei termometri.
Torniamo a quella partita, che assegna alla Juve lo scudetto «minore» proprio all’indomani della vittoria del «quattordicesimo» assoluto, perché la ricordiamo perfettamente nei contorni che la segnarono, e perché effettivamente Maggiora Domenico, numero dieci di maglia, mai visto giocare prima, ci impressionò alquanto. La Juve vinse due a zero, c’era Alessandrelli portiere paratutto, e Chiarenza stoccatore temuto, e Balestro «libero» alla Bill e dunque bravo due volte. Ma c’era soprattutto Maggiora, presente in ogni angolo del campo e più che mai nelle azioni dei due gol, entrambi realizzati da lui, con gran sfoggio di capocciate dalle traiettorie secche e perentorie. Il secondo, in particolare, fu una grossa cosa, con volo sul pallone a mezza altezza e palla imprendibile per Quintini portiere giallorosso. Considerata l’età del protagonista dell’impresa, diciassette anni a quel tempo, era almeno prematuro dare giudizi definiti e dettagliati: e difatti nessuno ne diede, limitandosi i più a imprimersi il nome di Maggiora nella memoria, non si sa mai...
Di lì all’esordio in Prima Squadra, avvenuto nel maggio scorso, in occasione della gara di Coppa Italia con la Reggiana, di tempo ne passa quanto basta per far sì che il Nostro accumuli presenze nella Nazionale «juniores» e si segnali a Vycpalek per una eventuale candidatura a rincalzo di valore, se non di esperienza. Juve-Reggiana, molti lo ricorderanno certamente, finisce in parità, uno a uno, è la vigilia dell’ultima giornata di Campionato, quella che darà ai bianconeri il quindicesimo scudetto: segna, massì, Maggiora, con stangata dal limite che manda in visibilio la folla di amici accorsi a vedere Domenico al grande appuntamento del debutto.
Il resto è storia di oggi: Maggiora, da quest’anno, fa parte della «rosa» di prima squadra, e prima o poi un posto dovrebbe trovarlo. «Non c’è fretta, sarebbe assurdo se a diciannove anni ne avessi – dice – vorrei restare in bianconero per un anno o due ancora così, di rincalzo, nel “giro” dei titolari. E poi si vedrà se sarò migliorato da meritare il “salto” o se dovrò farmi le ossa altrove».
– Raccontaci quando hai cominciato a pensare al pallone. «Piuttosto tardi, direi; verso i quattordici anni, giocando in una squadretta di un Oratorio Salesiano. La Juve è venuta subito dopo».
– Quale ruolo ritieni più adatto alle tue possibilità? Centrocampista? Mezzapunta? «Penso di andare bene come mediano-mezz’ala, anche se ho già giocato con posizioni e compiti disparati. Vycpalek, con la Reggiana, mi diede il quattro e mi fece fare il mediano di spinta: la cosa non mi dispiace. Infatti, non mi sembra di avere le doti della mezza punta, visto che mi manca un po’ la velocità di base e che anche lo scatto lascia un po’ a desiderare. Però, sotto porta, con la “Primavera” sono riuscito spesso a farmi valere, di piede e soprattutto con i colpi di testa».
– Come ti sei trovato, nel passare dalla «Primavera» all’ambiente della Prima Squadra? «Il passo è stato fin troppo lungo, per me. A diciannove anni, non posso certo dire di avere alle spalle una grande esperienza: una dozzina di partite con la Nazionale “juniores”, che non è poco ma nemmeno poi molto. Tuttavia, dopo le preoccupazioni dei primi giorni, devo dire che ora sono pienamente soddisfatto: tutti i compagni mi hanno aiutato e mi aiutano, e a stare con loro ho tutto da guadagnare, visto che da loro posso imparare moltissimo. Capello, per esempio, ha cercato e cerca di migliorarmi, dandomi dei suggerimenti preziosi. Non mi resta che prendere un po’ di qui e un po’ di là: un giovane non potrebbe desiderare di meglio che avere vicino simili campioni, per imparare in fretta i segreti del mestiere».
– Pensi di dovere qualcosa a qualcuno in particolare, per la tua rapida «ascesa» alla Prima Squadra? «Devo qualcosa praticamente a tutti gli allenatori che mi hanno seguito, e in modo tutto particolare al signor Bizzotto, che mi ha spronato a fare le cose che mi riuscivano meno bene, a migliorare i miei difetti, che insomma mi ha dato un carattere che prima non avevo».
– C’è un modello nella tua attività di calciatore? «Sì, e si chiama Johan Cruyff: è il mio idolo da sempre, ho persino litigato per colpa sua, vedendo alla TV la finale di Coppa dei Campioni dell’anno scorso, tra la Juve e l’Ajax. Non è che tifassi per lui, ma quasi».
– Qual’è la tua opinione sulle Frontiere chiuse per i calciatori stranieri? «Il veto di importazione significa innanzitutto rialzo dei prezzi dei nostri giocatori, e poi, secondo me, minori possibilità per noi giovani di confrontarsi, di imparare dai campioni di altri paesi e altre scuole. Comunque, ho troppa poca esperienza per avere un’opinione precisa».
– Abbiamo accennato prima ai pregi e difetti di Maggiora: vogliamo essere più precisi? «Pregi, è difficile. Vediamo, il colpo di testa; a qualunque altezza arrivi il pallone, è la mia specialità. Difetti: manco di continuità, non ho l’abitudine di giocare la palla a distanza, faccio “gioco corto” insomma. Inutile dire che faccio e farò di tutto per migliorarmi...».
E chiudiamo qui. Il tempo lavora per Domenico Maggiora, classe 1955, e dunque in età tra le più verdi. L’interessato non ha fretta: non ne abbia neppure il tifoso. Prima o poi, di lui sentiremo parlare più spesso. Se son rose...

Nella stagione 1973-74, nonostante l’ottimismo del giocatore, Maggiora disputerà solamente il secondo tempo della partita di Coppa Italia contro il Palermo, in sostituzione di Musiello. Match giocato il 12 dicembre e terminato con la secca sconfitta bianconera per 0-2. Poi un lungo girovagare: Varese, quindi per sei stagioni a Roma e, infine, Sampdoria, Cagliari e Catania.
Ritorna alla Juventus nella veste di allenatore delle giovanili. «Il mio cuore è sempre rimasto a Torino – confessa – la Juve coincide praticamente con tutta la mia vita dai quattordici anni in avanti: è stata una scuola, una guida, una famiglia. Se sono diventato calciatore prima e allenatore poi, lo devo soprattutto ai colori bianconeri, il massimo in Italia per competenza e organizzazione: qui, dove gli obiettivi sono di regola estremamente stimolanti, si arriva sempre prima degli altri e si semplificano tutti i problemi. Detta così, sembra la solita frase di circostanza. Invece bisogna viverci dentro, per rendersene pienamente conto: di mio, cerco di trasmettere ai ragazzi quanto mi è stato insegnato in tutti questi anni. Grazie a mio zio, che da piccolo mi portava in curva, mi considero innanzitutto un tifoso che ha realizzato il sogno di giocare in bianconero a livello giovanile. Quindi era naturale che, durante i due anni di prestito a Varese, cullassi il desiderio di tornarci: però, una volta che le cose hanno preso una piega diversa, ho fatto come nulla fosse. Così, quando dovevo affrontare la Juve, per me cambiava poco: da giocatore non ho mai avuto bisogno di stimoli particolari per dare il massimo. Comunque mi faceva piacere vincere, perché era ed è sempre la squadra da battere, la grande rivale che raramente hai la fortuna di mettere sotto. E quando non me la ritrovavo di fronte, una volta rientrato nello spogliatoio la prima cosa che facevo era quella di domandare che risultato avesse fatto».

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