La strada scelta di Pio Ferraris, per arrivare al gol, era quella della tecnica e dell’astuzia. Dicono gli esperti che tecnico si diventa e che cannoniere si nasce; è vero per tutti o quasi tutti, perché il longilineo Pio era nato con il doppio dono, quello della tecnica e quello del senso del gol.
Segnava molte delle sue reti da posizioni cosiddette impossibili, proprio perché sentiva il gol in un’impercettibile frazione di tempo e sapeva far coincidere il pensiero con l’azione e l’idea del tiro con la sua esecuzione immediata. Ferraris era tra quei giocatori che seguono gli inviti della palla assai meno di quanto obbediscano alle suggestioni e alle folgorazioni dell’istinto.
La caratteristica più interessante del gioco di Pio Ferraris era il suo continuo imprevisto; possedeva tutti i requisiti che occorrono per comporre la figura dell’atleta originale che da nessuno ha imparato e che a nessuno insegna, perché il gioco, per lui, era un mezzo naturale e incomunicabile di manifestarsi in tutta la pienezza dei suoi pochi difetti e dei suoi tanti pregi. Sicuramente ha contribuito alla maggiore fortuna di Ferraris anche il fatto di poter giocare in una Juventus che si era ormai arricchita di giocatori valenti ed esperti, primi fra tutti Giriodi e Grabbi, per tacere di Bigatto, Barale e Gallo.
Pio Ferraris, oltre a 66 partite nella Juventus con 38 reti, giocò 4 partite in Nazionale e, guarda caso, tutte all’estero, tre ad Anversa e una ad Amsterdam. Esordì nel torneo olimpico contro la Francia, il 29 agosto 1920, e in quella squadra c’erano anche i suoi amici juventini Giacone e Bruna. Nella terza gara, quella disputata il 5 maggio 1921 ad Anversa contro il Belgio, a Ferraris toccò l’onore di siglare la rete della vittoria del 3-2, dopo la favolosa rimonta degli azzurri che a metà del secondo tempo soccombevano per 0-2.
«Si era al termine della partita – racconta Vittorio Pozzo – le squadre erano in parità, quando dalle gradinate partì un insulto, gridato a gran voce contro di noi: “Voilà les macaronis!”. Per Pio Ferraris quella fu come una sferzata: si impadronì della palla a metà campo, partì come un proiettile, evitò ogni ostacolo e andò a piombare nella rete belga, sfera al piede. La partita era vinta».
Pio Ferraris era un giocatore tecnico e uno stilista: sufficientemente mobile, astuto, abile stoccatore, impersonava il tipico centrattacco. Avanzava rapidamente verso l’area avversaria con il corpo oscillante, in modo che non si sapesse mai se in quel momento l’azione finisse o cominciasse; aveva un palleggio morbido, sicuro, eseguito in controtempo, un senso del gol innato e un tiro improvviso e molto potente.
«I centravanti della Juve antica – scrive il grande Camin – avevano tutto meno che la tecnica e segnavano gol sconvolgenti. Sconvolgevano, infatti, le difese con la loro irruenza, a costo di spezzarsi gambe, costole, attaccavano sempre. Pio fu di questi quasi eroi delle pelouses verdissime, che incantarono Gozzano. Gozzano, già palliduccio, accostava la bicicletta al muro e guardava. Pio Ferraris appartiene a un’ottima razza di calciatori (suo fratello fu capitano e centrosostegno della squadra juventina ai bei tempi della Palla d’Oro). Par nato per giocare centro-forward possedendo decisione, rapidità di spostamento, precisione nei passaggi e un pregevole gioco di testa».
VITTORIO POZZO, “LA STAMPA” 6 FEBBRAIO 1957
È morto Pio Ferraris, un altro dei giuocatori che vestirono, onorandola, la maglia della nostra Squadra Nazionale nel periodo che intercorse fra le due conflagrazioni mondiali. Una malattia di cuore di cui soffriva da parecchio tempo – non il classico infarto – lo ha stroncato all’età di cinquantasette anni.
Gli sportivi del giorno d’oggi non possono ricordare la figura di questo azzurro di più di venticinque stagioni fa. Eppure Pio fu uno dei giuocatori più caratteristici del suo tempo, e a maggior ragione, dato il suo carattere e il suo temperamento, lo sarebbe stato del periodo attuale Era il dilettante scritto, il ragazzo che giuocava per entusiasmo e che non concepiva come il danaro potesse immischiarsi nelle cose del giuoco. Apparteneva a una famiglia di banchieri. Fu a lungo il centravanti della Juventus ai tempi di Giacone e di Bruna.
Giuocò quattro volte per la nostra Squadra Nazionale, prendendo parte alle Olimpiadi di Anversa nell’estate del 1920. A grande notorietà giunse nel maggio del 1921, quando ad Anversa segnò il punto della vittoria al minuto finale dell’incontro col Belgio, cadendo svenuto sulla linea della porta a successo ottenuto. Un precursore di Cesarini, sotto questo aspetto, per cui come segnate in Zona Ferraris dovrebbero venire designate le reti degli istanti finali di un incontro.
Chiusa la sua attività di giuocatore non si mise più in vista affatto: dedicò l’intera sua attività alla banca di cui era titolare col fratello e di lui più non si parlò.
Tipico sportivo di una volta, allo sport aveva dato e mai chiesto nulla. Come bel giuocatore come vessillifero di un’idea lo ricordano gli anziani, che alla famiglia e alla Juventus porgono le condoglianze più vive e sincere.
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