Nasce a Roma il 9 maggio 1950. A dieci anni, è investito da una macchina, che gli causa la frattura di una gamba («Da mancino diventai destro», ama ricordare); si riprende ed è tesserato dalla Tevere Roma, che gioca in Quarta Serie. Luciano picchia che è un piacere, mangia delle bistecche da far paura, ma non ingrassa di un etto; lo chiamano Er Secco der Villaggio. «Sono sempre passato per un picchiatore, ma non era così. Certo, le mie entrate le facevo, ma non ho mai fatto male a nessuno e, soprattutto, non sono mai stato espulso per un fallaccio».
Nell’estate 1967, compie il gran balzo che lo porta dalla Serie D alla massima divisione nelle file della Roma con la quale, diciottenne, esordisce in Serie A. «Eravamo di lunedì e mister Pugliese venne da me, dicendomi che la domenica successiva, contro il Torino, mi avrebbe dato il posto da titolare. Mi disse di stare tranquillo e, forse per farmi passare un principio di tremarella, mi predisse che avrei pure segnato un gol. Fra me e me pensai che sarebbe stata una cosa assai improbabile, primo perché non sono mai stato un goleador, secondo perché, nel ruolo di difensore, non è che si abbiano molte occasioni per tirare a rete. Infatti, la mia prima rete la segnai l’anno dopo contro il Pisa».
Dopo un triennio trascorso nella Capitale, nel 1970, in compagnia di Capello e Fausto Landini, raggiunge la Juventus e in bianconero si ferma otto anni. «Ricordo che girava voce che dovessi andare alla Juve, ma dalla società non trapelava niente. Una delle ultime partite di campionato la giocammo proprio a Torino contro i bianconeri. Mentre facevo riscaldamento, si avvicinò Boniperti. Ci salutammo e lui mi fece notare che avevo i capelli troppo lunghi e che li avrei dovuto tagliare. Lì ho capito che sarei andato alla Juve! Mi sono ambientato senza problemi, perché stavo facendo il militare a Roma e, praticamente, ero a Torino solamente pochi giorni. In questo modo, non ho sentito la nostalgia di casa e mi sono abituato alla città piemontese per gradi. Poi sono stati anni fantastici, basti pensare che qui mi sono sposato e qui sono nati i miei figli. Era un calcio diverso, io dovevo seguire il mio avversario in ogni zona del campo. Mi ricordo un episodio curioso: giocavamo al Comunale, era inverno e faceva un freddo cane. Il campo era metà al sole e metà all’ombra. A un certo punto il mio avversario (non ricordo chi era) mi dice. “Senti Luciano, io vado a giocare al sole che qui all’ombra fa freddo. Tu mi segui?” Io gli risposi: “Certo”. “Bene, allora andiamo”, disse lui. E così facemmo».
Difensore di buon temperamento a Torino è per quattro stagioni pedina fondamentale del pacchetto arretrato di una Juventus che sta diventando grandissima, poi con l'arrivo di Gentile le sue apparizioni si fanno episodiche e Spinosi, con grande professionalità, appena ventiquattrenne, vive l'amara esperienza della retrocessione al ruolo di rincalzo, dovuta anche a un gravissimo infortunio. Il 3 novembre del 1974, infatti, sul campo della Sampdoria, intervenendo di testa, Luciano ricade malamente con conseguenze disastrose e forzato periodo di inattività.
Per Luciano inizia un lungo calvario: «Pensavo addirittura di non poter più giocare, ma mi buttai a capofitto nella preparazione e i primi allenamenti furono durissimi; poi, un mattino, il dolore sparì e capii di potercela fare. Più mi allenavo e più speravo, perché il muscolo si riprendeva. Purtroppo, quando mi sono ripreso, non ho più ritrovato il posto, anche se, devo riconoscerlo, Morini ha giocato sempre magnificamente. Con Ciccio ho sempre avuto un ottimo rapporto, nonostante i giornalisti ci volessero far litigare per il posto in squadra».
Spinosi è, sicuramente, un giocatore che ha ricevuto, almeno nella Juventus, molto meno di quanto avrebbe meritato: iniziò la sua carriera come terzino, costituendo con Marchetti una coppia dura e grintosa. Marcatore solido, sempre concentrato, era dotato di un bagaglio tecnico non disprezzabile che gli consentì, anni dopo nella Roma, di giocare esterno in una difesa a zona a quattro: «Me la sono sempre cavata, come terzino, spingendomi spesso in avanti, grazie anche alla mia discreta tecnica. Ma ritengo di essere, soprattutto, uno stopper. Sarà per l'alta statura che mi favorisce negli inserimenti di testa, ma è certo che al centro dell'area sono a mio agio».
Il momento del decollo sembra arrivare nella stagione 1976–77: il Trap lo vuole stopper titolare da affiancare a Gaetano Scirea, ma dopo un paio di partite un altro infortunio lo mette fuori gioco. Entra Morini ed è un trionfo; l'esplosione di Cabrini poi (Cuccureddu e Gentile non si potevano discutere come marcatori) lo relega in panchina e all'epoca era panchina davvero; una sola sostituzione, oltre al portiere e cambi davvero con il contagocce.
«Chiesi a Boniperti di andare via. Non avrei mai lasciato la Juve, ma avevo solo ventotto anni, mi sentivo giovane e avevo voglia di giocare. Restando a Torino avrei disputato pochissime partite e ne avrei sofferto tantissimo. Il presidente non mi voleva mandare via, ma vista la mia insistenza mi cedette alla Roma, come da mio desiderio».
MASSIMO BURZIO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1988
Ci fu un tempo in cui Juve e Roma andavano d'accordo. Non parlo di tempi lontani, ma del principio degli anni Settanta, quando la Roma era Romena (la citazione è testuale ed è tratta dai giornali dell'epoca) e non era ancora balzata ai vertici del calcio nazionale, diventando per un certo periodo, una delle antagoniste che negli ultimi quindici anni la sorte ha posto ciclicamente sulla strada sempre vincente della Juve bonipertiana. Bianconeri e giallorossi, insomma, avevano ottimi rapporti, certamente migliori di quelli, burrascosi, del primo periodo degli anni Ottanta, quando la Juve era l'odiata nemica dei capitolini. Ma tant'è, tutto passa, i campioni se ne vanno dall'una e dall'altra parte e il dialogo poi riprende, corretto e signorile com'è sempre stato da parte juventina. E così, magari, in futuro torneremo a vedere giocatori giallorossi emigrare verso la Juve e viceversa, così com'è già accaduto con Boniek e accadde nel 1970 con Spinosi. Il Core de Roma, infatti, è stato con Capello e Landini uno degli esempi dell'interscambio Juve–Roma e certamente ha lasciato una traccia nella recente storia della Juventus.
Nato nella capitale, per la precisione nel popoloso e vivace Villaggio Breda, il 9 maggio del 1950, Spinosi comincia a giocare al calcio nella Tevere Roma. Prima le giovanili, poi l'esordio in Serie D e quindi a diciassette anni la Roma. Tre stagioni, ottime prove anche nella primavera giallorossa e nel 1970 ecco la Juve. Difensore roccioso ed eclettico, abile sui palloni alti, con una propensione alla marcatura ma anche alla propulsione, Ciano forma allora con il biondo Marchetti una coppia che i cronisti non esitano a definire la riedizione del duo interista Burgnich–Facchetti. Ottime prove, una disciplina di fondo unita a un carattere gioviale, a una facilità innata allo scherzo, fanno ben volere Spinosi sia dai compagni sia dai tifosi. Gran fisico, faccia sorridente fuori dal campo e cattiva in partita, per il bravo Luciano arrivano gli scudetti 1972 e 1973 e le prime maglie azzurre (1971). Sembra un sogno destinato a continuare e nell'estate del 1974 c'è anche la soddisfazione dei Mondiali in Germania. Spinosi parte titolare, ma naufraga con la squadra azzurra che esce al primo turno eliminatorio, rischiando anche contro i modesti giocatori di Haiti. Ed è proprio l'uomo affidato a Spinosi a segnare all'Italia l'unico goal haitiano, è un folletto, tale Sanon, che con uno scatto farà impallidire Luciano lasciandolo indietro di quei pochi (o tanti) metri sufficienti ad andare in rete.
Al ritorno dai Mondiali, persa la maglia azzurra, Spinosi trova una sorpresa: la Juve l'anno precedente si è assicurata Claudio Gentile. Gento parte riserva ma scalpita e, complice anche un grave infortunio alla testa del femore rimediato da Ciano a Genova contro la Sampdoria, presto si appropria della maglia del titolare. Da quei giorni Gentile diviene un inamovibile e Spinosi un panchinaro. Luciano accetta la sorte, si impegna e ogni volta che verrà chiamato dall'allenatore cercherà di trovare spazio e gloria. Si reinventa stopper, libero, diventa, insomma, un jolly. Come tale vincerà ancora gli scudetti 1975, 1977 e 1978 e la Coppa Uefa 1978 (memorabile in quell'occasione una sua partita contro la punta del Manchester Channon e il secondo tempo del ritorno della finalissima a Bilbao).
Dopo la Juve il ritorno a Roma, nel 1978, con due Coppe Italia (1980 e 1981), quindi il Verona, il Milan e infine il Cesena, dove nel 1984, Spina chiude una carriera davvero luminosa. Diciannove le sue presenze azzurre, il debutto è del 1971, con tre gettoni nell'Under e sei nella giovanile.
Che dire in più di Spinosi? Che è stato un uomo capace di farsi apprezzare anche nei momenti più bui, che ha saputo lasciare in tutte le società in cui ha militato un ottimo ricordo. Chi scrive queste righe gli è stato amico ed ha passato splendide giornate con lui, apprezzandone quello spirito istintivo e incisivo che lo ha reso personaggio anche soltanto in occasione di una chiacchierata tra amici.
Oggi Spinosi allena la primavera della Roma, non è cambiato è ancora quel Core de Roma che seppe amare Torino e farsi amare anche dai tifosi della Juve.
Non capita a molti di essere protagonisti nello sport, nel cinema e nella letteratura. Sarà per via del bel fisico, del capello ondulato e del sorriso ammaliante, ma al difensore romano Luciano Spinosi, classe 1950, è successo tutto questo. Avvio precoce nella Tevere Roma, quindi la maglia giallorossa nel 1967 e a venti anni quella della Juventus. Otto stagioni a Torino e poi nel 1978 il ritorno a Roma, prima dell’ultimo giro d’Italia tra Verona, Milan e Cesena. Quindi, chiusa la parentesi di calciatore nel 1985, ecco il trasferimento in panchina. Prima con le giovanili giallorosse, con alcuni successi pesanti e il lancio dell’adolescente Francesco Totti, poi come tecnico in prima in Serie B e C, infine come vice di Eriksson tra Sampdoria e Lazio, società dove è rimasto fino al 2004, contribuendo a vincere moltissimo, al fianco di Zoff, Zaccheroni e Roberto Mancini. Nel mezzo ecco il cinema: a metà anni Ottanta recita in un “Don Camillo” con Terence Hill e compare nel primo “L’allenatore nel pallone” del mitico Oronzo Canà (Lino Banfi). Infine la letteratura, con il romanzo “Azzurro Tenebra” di Giovanni Arpino, ispirato alle vicende della Nazionale al Mondiale tedesco del 1974 che vede tra i protagonisti anche lui, ribattezzato “Spina”. Insomma, gli ingredienti per un ricco amarcord ci sono tutti. Ci troviamo al Tennis Club Eur di Roma. Lui è venuto a piedi, abita poco lontano. Bel sole, il profumo dell’erba appena tagliata e, in lontananza i colpi di racchetta di due tennisti in azione. Stretta di mano, scambio dei gagliardetti, ci sediamo. Ho con me “Azzurro Tenebra”. Lo apro al capitolo terzo, dove vengono presentati gli undici che di lì a poco debutteranno al Mondiale contro Haiti: “Spina sorride ma con gli occhi troppo grandi, un tremito lungo la gamba destra: desidera l’avversario, lo vuole subito, ha bisogno di misurarne il fiato, il puzzo, il peso”».
Era proprio così? «C’è molto di vero, sì. C’era la voglia di giocare. Di polemiche ce ne erano già state tante, fin dal ritiro a Coverciano quando furono assegnati i numeri delle maglie, ed erano poi proseguite in Germania».
Cosa era successo? «Alcuni compagni non accettarono il ruolo di riserva e lo dissero. Primi tra tutti i giocatori della Lazio guidati da Chinaglia, che avevano appena vinto lo scudetto. Spesso mi era capitato di fare il viaggio Roma–Coverciano con Giorgio, Wilson e Re Cecconi. Potevo capirli, ma davanti a loro c’era chi fino a quel momento aveva comunque meritato la maglia da titolare».
E tu avevi la numero due oramai da qualche anno. «Ho esordito nel giugno del 1971. Fui uno dei pochi che il commissario tecnico Valcareggi inserì nel gruppo dei “messicani”: Ho fatto tutta la qualificazione ai Mondiali. Era giusto che, almeno in partenza, fossi tra i primi undici. Così come lo era per gli altri titolari».
Tra cui c’era comunque Chinaglia. «Giorgio era un generoso e un istintivo. Si batteva per i suoi compagni. A me stava simpatico, ma quando parlava di calcio era “piccante”».
Finalmente arriva il giorno di scendere in campo, 15 giugno 1974. «Via le chiacchiere, congelate almeno per novanta minuti le polemiche, ora c’era solo la partita con le sue sfide e i suoi duelli, uno contro uno, quelli che piacciono a me».
Ti aspetta un certo Sanon, veloce ala di colore. «Me ne sono accorto al primo minuto del secondo tempo che era veloce. Siamo nel cerchio di centrocampo, la palla schizza a lui che scappa a cento all’ora verso la nostra porta, supera anche Zoff e segna, interrompendo il suo record d’imbattibilità. Ricordo che Dino mi guardò sconsolato: “Luciano, però potevi stenderlo”: Ed io: “Dino, e chi ce la faceva a prenderlo!”».
Il goal vi sveglia, perché alla fine Haiti viene superato per 3–1. «Tutto vero, ma nel mezzo c’è il gestaccio di Chinaglia a Valcareggi al momento della sostituzione. Un’altra bomba che scoppia. Il clima diventa ancora più irrespirabile con la squadra sempre più divisa in tanti gruppetti».
Tutto questo con due partite da affrontare per superare il primo turno, l’obbiettivo minimo della spedizione. «Con l’Argentina pareggiammo 1–1 grazie a una loro autorete. Il peggio venne con la Polonia. Entriamo in campo e ci diciamo “vinciamo, vinciamo”: Sembrava il giorno giusto, invece perdiamo e non sappiamo neanche il perché. Ci fu molto nervosismo, finimmo quasi per litigare tra di noi».
Tu sai nulla di presunti tentativi di accordo tra Italia e Polonia? Hai avuto qualche percezione in campo? «No. Posso immaginare che qualcosa sia stato tentato. Di voci negli anni seguenti ne sono corse. Di certo non avrebbero cercato Spinosi: avevo ventiquattro anni, ero uno dei più giovani. E difatti nessuno mi contattò».
Morale della favola: ce ne torniamo a casa dopo il primo turno. Un fallimento. «Un gran peccato, perché quella Nazionale avrebbe potuto arrivare molto in alto e invece fu un naufragio senza attenuanti. E pensare che la nostra porta era inviolata da più di un anno e che nel novembre del 1973 avevamo battuto l’Inghilterra a domicilio, Per la prima volta nella storia».
Che ricordi hai della magica serata di Wembley, 14 novembre 1973? «Il pubblico. Lo stadio. Un’emozione incredibile. E poi le maglie bianche della Nazionale inglese. Un po’ di timore, ma giusto il tempo di iniziare a giocare e tutto è sparito. Io ero fatto così. Fischio d’inizio e mi concentravo sulla mia gara e sul mio avversario».
Le cronache parlano di uno Zoff miracoloso e di uno Spinosi da 7,5. «Dino fece delle parate eccezionali, il pallone era anche più leggero di quello che di solito si usava in Italia. Io me la vidi con Clarke, un osso duro. Lo arginai bene, soprattutto sulle palle alte. E poi quando arrivò il goal di Capello a pochi minuti dalla fine, fu un trionfo, anche per i nostri connazionali. Quello che non successe in Germania».
Per te quella con la Polonia fu anche l’ultima partita in azzurro. «Purtroppo sì, anche se dopo il Mondiale ebbi un grave infortunio. Frattura dell’acetabolo, fuori per diversi mesi. Mi è dispiaciuto dare l’addio alla Nazionale dopo aver fatto tutta la trafila dell’epoca: Juniores, l’Under 21 e l’Under 23. Ho sempre vivo il ricordo della prima volta che entrai a Coverciano, la stessa sensazione del bambino che va alle giostre: una fantasia di colori, luci, suoni e campioni in carne e ossa che fino a poco tempo prima avevo visto solo in fotografia».
Da piccolo sognavi di fare il calciatore? «Mi piaceva da matti giocare a pallone. Mio fratello Enrico, di tredici anni più grande, faceva il calciatore, giocò in Serie A con il Cagliari a metà anni Sessanta. Ricordo di essere stato qualche volta da lui nell’albergo dove era in ritiro la squadra. Gigi Riva lo vidi per la prima volta in quelle occasioni».
E tu come è che sei arrivato in Serie A? «La strada non è stata in discesa perché a dieci anni fui investito da una macchina che mi spaccò la tibia e il perone sinistri. Le ossa in frantumi, rimase il muscolo del polpaccio a tenere unita la gamba. Fu una tragedia, c’era il rischio che non tornassi a camminare. Per fortuna tutto è andato per il meglio anche se la gamba sinistra è rimasta più piccola dell’altra. Ah, dimenticavo: prima dell’incidente ero mancino. Poi sono diventato destro».
Quale è stata la tua prima squadra? «Quella del mio quartiere, il Villaggio Breda. Poi Walter Crociani mi tesserò per la Tevere Roma, che faceva la Serie D. Ero messo bene fisicamente, non mollavo mai, forte di testa, ma un po’ lento. Con i piedi me la cavavo, appena avevo il pallone lo appoggiavo al compagno più vicino. Crociani puntò subito su di me, mi fece fare una decina di provini in giro per l’Italia e sul finire della stagione 1966–67 mi fece debuttare in Prima Squadra, per due partite–vetrina. Su di me c’erano diverse squadre. Ci pensò Franco Evangelisti, presidente della Roma a risolvere il problema. Disse a Crociani: “Spinosi è un romano, sarà meglio che rimanga da noi”».
È il 1967 e tu sei un giocatore della Roma. Contento? «Felicissimo. Ero a casa mia, andavo al campo di allenamento con il pullman. Il mister era Oronzo Pugliese. Ero più spesso con la De Martino e sognavo il debutto in A che arrivò il 12 maggio 1968, in Torino–Roma 2–1. Peccato per la sconfitta, ma grande soddisfazione per aver raggiunto il primo traguardo a diciotto anni appena compiuti».
E con la scuola come facevi? «Non ci andavo. Ho recuperato il tempo perso con le serali. Prima a Torino e poi quando sono tornato a Roma: così mi sono diplomato in ragioneria».
Nel 1969 arriva il tuo primo trofeo, la Coppa Italia. «È andato tutto molto veloce anche se il nuovo allenatore, Helenio Herrera, nel primo periodo non è che mi vedesse un granché. Erano circolate anche voci di un mio trasferimento. Poi ho iniziato a giocare, con sempre maggiore sicurezza e personalità, disputando anche le partite del girone finale della Coppa Italia».
E così nell’estate del 1970 ecco la chiamata della Juventus. «Mi resi conto che qualcosa si stava muovendo verso la fine del campionato 1969–70. Alla penultima giornata incontrammo proprio la Juventus. Incrocio Boniperti che mi guarda e mi fa: “Hai i capelli troppo lunghi”».
Ti spaventava lasciare Roma per andare a Torino? «No. Ero giovane, avevo vent’anni, volevo arrivare. La Roma di quel periodo non lottava per lo scudetto. Alla Juve ci sarei andato anche a piedi. Mi aiutò il fatto che con me furono acquistati anche Capello e Landini e che, comunque, avrei continuato a frequentare ancora un po’ la mia città, visto che facevo il militare proprio a Roma».
Con Boniperti poi vi siete rivisti per il contratto. «Non era ancora il presidente, ma la società la dirigeva lui. Grande carisma, l’essere stato calciatore gli serviva per capire le situazioni. Arrivai in sede e lui, sorridendo: “Ciao romano”: Ed io, “Ma veramente avrei anche un nome, sono Luciano”. “Poche storie, firma qui”. Era il primo contratto, siglato in bianco».
Mi risulta che una volta ti ha lasciato in mutande. «(ride). Quando lui trattava il reingaggio, di solito durante il ritiro estivo a Villar Perosa, se l’anno precedente eravamo arrivati secondi, ti metteva di fronte la foto della squadra che aveva vinto lo scudetto. Come a dire: “E avresti anche il coraggio di chiedermi qualcosa in più?”. Quella volta, dopo un nostro successo, mi presentai da lui con maglietta e bermuda con disegni di scudetti e gli autografi dei miei compagni. L’aumento me lo concesse, ma dovetti lasciare a lui gli indumenti».
La serietà prima di tutto. «I capelli lunghi erano la sua ossessione. Poi ti controllava, specie di sera. Aveva dei suoi collaboratori fidati che ti pedinavano e poi riferivano. Di te Boniperti sapeva tutto. E quando succedeva qualcosa, partiva la convocazione nel suo ufficio e fioccavano le multe».
È successo anche a te? «Qualche volta, sono un romano nell’anima, la bocca era difficile tenerla chiusa».
Hai un tuo ricordo particolare del presidente? «Avevamo la passione comune per la caccia, come anche Morini e Capello. Allora capitava che ci invitasse nella sua tenuta. Ma sistematicamente dopo mezzora ci mandava via tutti. Vista la nostra bravura e precisione, temeva una strage».
Torniamo al campo: con quali aspettative arrivi alla Juventus? «Era una squadra nuova e giovane, compreso l’allenatore che era Armando Picchi. Eravamo tanti, c’era molta concorrenza in difesa. Salvadore era il libero e capitano. Morini stopper, il ruolo che ho sempre amato. Poi c’erano Marchetti, Roveta, volendo anche Cuccureddu che era un jolly. La svolta ha un nome: Armando Picchi. Mi disse: “Mi manca il terzino destro. Giocaci te, vedrai che ti piacerà”. Io l’ho ascoltato. Picchi era un gran signore. Anche lui ex calciatore, parlava molto con noi. Ci raccontava della Grande Inter e della sua difesa. A me ha insegnato molto, anche da un punto di vista pratico. La sua morte precoce è stato un dolore immenso per tutti».
Picchi semina e Vycpálek raccoglie già l’anno dopo. «1972, il mio primo scudetto e nell’ultima giornata contro il Lanerossi Vicenza segno anche un goal. Un evento miracoloso per chi, come me, non superava quasi mai la metà campo. Vycpálek era un babbo. Buono, saggio, placido. Veniva dal settore giovanile, aveva giocato con Boniperti».
Quali erano i punti di forza di quella squadra? «Causio e Haller per la tecnica e la fantasia. Capello la regia e Furino il cuore. Salvadore una roccia, insieme a Morini. Anastasi e Bettega erano i goal, anche se Roberto a metà stagione si ammalò. Cuccureddu, jolly prezioso, Marchetti il terzino sinistro che faceva tutta la fascia. E poi c’ero anch’io, marcatore senza fronzoli».
L’anno dopo ancora scudetto e la Coppa dei Campioni sfiorata. «Arrivarono Altafini e Zoff che conoscevo grazie alla Nazionale, un portiere eccezionale. Andavo spesso a pranzo a casa sua, a quel tempo ero ancora scapolo. Il campionato si decise solo all’ultima giornata, nei minuti finali anzi. Io ero infortunato, sarei dovuto rimanere a Roma, ma dopo la vittoria proprio contro i giallorossi all’Olimpico, tornai a Torino con tutta la squadra per festeggiare».
Il 30 maggio 1973, invece, fecero festa quelli dell’Ajax. «Che rabbia vedere Cruijff e compagni alzare la coppa con le nostre maglie! Erano forti, va detto. Dalla panchina era impressionante vedere come si muovevano su due linee: attacco e difesa, intercambiabili tra di loro. Giusto così».
Arriviamo al 1974: lo scudetto alla Lazio, il fallimento al Mondiale e il tuo grave infortunio a novembre. Giusto definirlo il tuo “annus horribilis”? «Purtroppo sì. Soprattutto per la frattura del bacino. Un infortunio grave, è stato lo spartiacque della mia carriera alla Juve e ha certamente inciso sulle scelte di Fulvio Bernardini, nuovo commissario tecnico della Nazionale. Peccato, perché la stagione 1974–75 alla Juve era cominciata particolarmente bene per me. Perché Carlo Parola, il nostro nuovo allenatore, mi propone finalmente di fare lo stopper. Al mio fianco c’è il giovane Gaetano Scirea, libero arrivato dall’Atalanta al posto di Salvadore che ha chiuso la carriera. Giusto poche giornate di campionato e poi, il 3 novembre, contro la Sampdoria, stacco di testa e nel ricadere combino un bel guaio. Dolore indicibile e il timore di non potere tornare a giocare. Ho recuperato, ce l’ho fatta, ma ho perso il treno. Alla Juve mi hanno sorpassato tutti. Già ero un po’ lento prima dell’infortunio, dopo poi (ride). Sono rimasto per fare gruppo. La società mi ha affidato Scirea: abitava con me, nel mio appartamento. Ragazzo d’oro, educato, tranquillo. L’esatto contrario di Tardelli, mio ospite l’anno dopo. Un terremoto, sempre in movimento. Il soprannome Schizzo gliel’ho dato io».
Non sei più titolare, ma nella stagione 1976–77 sei uno dei protagonisti della conquista della Coppa Uefa. «Intanto era arrivato un nuovo allenatore, Giovanni Trapattoni. Giovane, idee nuove, una grande determinazione. Il suo arrivo fece bene a tutti. Non c’era più il classico regista. Spostò Tardelli a centrocampo. Io ero la prima alternativa per la difesa. Misi a disposizione la mia esperienza».
Per questo a inizio stagione ti eri fatto crescere i baffi? «Era la moda del momento. Anche Causio lo fece. Solo che lui li ha tenuti, io li tagliai dopo poco».
Che ricordi conservi di quel fantastico cammino europeo? «Il sapore delle grandi sfide. E poi la voglia di giocare e di vincere. Ho fatto il ritorno a Torino contro il Manchester United sostituendo Morini dopo otto minuti. E poi lo Šachtar Donetsk, il Magdeburgo e il ritorno con I’AEK Atene».
Con giudizi sempre positivi «Ero io, giocavo come sempre sull’anticipo, sul colpo di testa, con decisione e con qualche trucchetto, ma tutto nelle norme. Parlavo molto, questo sì. Anche se erano stranieri».
E così arriva la doppia finale del maggio 1977, sono passati quarant’anni. «4 e 18 maggio. Fu un mese lunghissimo e decisivo. Ci giocavamo coppa e scudetto. Che vincemmo. L’andata con il Bilbao non la feci. Si vinse 1–0. In compenso ero al San Mamés nel ritorno. Che impressione quello stadio. Una bolgia davvero. Ero in panchina, entrai al 60’ al posto di Boninsegna. Ne successero di tutti i colori. Bonimba era nero, in totale disaccordo con il Trap. Lui era uno da battaglia, e in quel momento non sarebbe mai uscito. Io entro e corro verso la nostra area di rigore alla ricerca del mio avversario da marcare. Morini mi vede disorientato e mi fa: “Dai Spina, non ti preoccupare. L’importante è andare a caccia martedì”».
Fu una mezzora ad altissima intensità. «Non ricordo nessuna altra partita così carica di stress. Fecero il 2–1 al 77’: Gli ultimi tredici minuti furono da incubo. Un altro goal loro significava addio alla coppa. Abbiamo retto la loro forza d’urto, spinti anche dai nostri tifosi e dai fotografi italiani a bordo campo. E alla fine è arrivato il primo trionfo europeo».
Una grande soddisfazione «Enorme, ma tempo per festeggiare non ce n’è stato. La domenica successiva si doveva giocare l’ultima di campionato, decisiva per la vittoria. Giusto qualche bicchiere di spumante, prima di un avventuroso viaggio di ritorno su un aereo messo a disposizione dall’avvocato Agnelli».
Che ricordi hai dell’Avvocato? «Un uomo dall’enorme carisma. Amava la Juventus, era curioso, veniva spesso a Villar Perosa. E nel giorno della partita, scendeva negli spogliatoi e si metteva seduto da una parte. In silenzio, bevendo un bicchiere di thè».
Domenica 22 maggio 1977. Battete la Sampdoria ed è scudetto–record: cinquantuno punti su sessanta. «Il lungo duello con il Torino, che si fermò a cinquanta punti è stato uno dei segreti di quel successo. Noi della Juve abbiamo sempre patito il derby. Ho marcato decine di attaccanti, ma l’unico che mi faceva impazzire era Paolo Pulici. Capitava anche di frequentarci durante la settimana. Ma in partita era una furia».
Giusto un altro campionato con la Juve con il tuo quinto scudetto, poi l’addio. «Avevo ventotto anni, da quattro stagioni ero tra le riserve. Oramai facevo il raccattapalle, visto che la radiolina la teneva Alessandrelli, il secondo di Zoff: Chiesi a Boniperti di essere ceduto. Lui avrebbe voluto mandarmi alla Fiorentina, ma accettò di farmi fare ritorno alla Roma».
1978–1982: quattro stagioni in giallorosso. Che bilancio fai? «Più che sufficiente. Intanto arrivarono due Coppe Italia. Ho giocato con grandi campioni come Pruzzo, Bruno Conti e Falçao. Ho fatto meno presenze di quelle sperate, stava anche cambiando il modo di difendere. Mi sono accorto che era arrivato il momento di cambiare aria. Mi chiamò Osvaldo Bagnoli al Verona e feci una grande stagione».
Dopo Verona, c’è il Milan e poi chiusura in B a Cesena nel 1985. «Due stagioni dignitose, io ho sempre e comunque dato il massimo. Solo che non bastava più. Era giusto chiudere anche perché non vedevo l’ora di iniziare la nuova avventura, quella di allenatore».
Hai trovato la tua dimensione come “vice”. «Grazie a Santarini che mi lasciò il posto come secondo di Eriksson, al quale peraltro devo molto».
Anche il trasferimento alla Lazio. «Ma chi fa il professionista sa che questo fa parte del lavoro. Ma non tutti capiscono purtroppo».
È un tuo dispiacere? «No, il rammarico più grande è non avere più l’amicizia con Fabio Capello. Litigammo di brutto dopo un derby, e da lì non ci parliamo più. Vorrei poterci mettere una pietra sopra. Per me Fabio è stato come un fratello, è stato anche il mio testimone di nozze».
Chiudiamo con Totti: i vostri nomi sono spesso associati. «Il che non può farmi che piacere. Venne con me nella Primavera: Non gli mancava niente, giusto qualche muscolo in più. La cosa deliziosa è che dal suono che faceva il pallone, anche a occhi chiusi riconoscevi che a calciare era stato lui».
4 commenti:
ricordo la vignetta del Guerin che ritraeva Boniperti alla guida di un ape e a cassone Capello, Spinosi e Landini con una rete di palloni ..
eheheh
Mi ricordo che era un ottimo difensore, attento,elegante,prestante fisicamente,dotato anche di testa. Ma non disponeva del perfetto tempismo nel contrasto con l'attaccante e,quindi, dell'efficacia del grande difensore (come p.es. Scirea).
Non avendo neppure una grinta,energia, spregiudicatezza straordinarie, asfissianti,avvolgenti per marcare e bloccare l'avversario in ogni modo, qualità in grado di supplire alla predetta carenza di perfetto tempismo in modo da essere ,così,sempre efficace (vedi Gentile), si pone, a mio sommesso avviso, un gradino più sotto dei grandi difensori italiani.
Angelo Balzano
Gran terzino.lo ricordo nella Tevere Roma insieme al mio compagno di scuola Giuseppe Poletti.
Poletti Giuseppe e' stato anche mio compagno di scuola.Era di Cento provincia di Ferrara.
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