mercoledì 16 ottobre 2024

Federico MUNERATI


Nel suo calcio, le ali giocavano entrambe avanti e il loro compito principale era quello di effettuare traversoni per i piedi o per la testa del centrattacco. Se il cross arrivava da sinistra, l’ala destra si proiettava incontro al pallone per incornarlo in rete e viceversa. Munerati sapeva fare in modo ottimale entrambe le cose, perché era un giocatore velocissimo e opportunista, con eccezionali doti di palleggiatore che gli permisero di vestire la maglia bianconera 254 volte e di realizzare ben 114 gol.

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A quei tempi non c’erano i numeri sulle maglie dei calciatori, quasi un segno della pari dignità dei ruoli, dello spirito collettivo del gioco. Poi sarebbero venuti, ad accendere la fantasia dei ragazzi nelle partite di strada, il «numero 9», speso immaginario e comunque preteso dal proprietario del pallone, ambitissima insegna del goleador o, in sottordine, il «5», regista del centro campo. In seguito anche l’«11» avrebbe avuto i suoi momenti di gloria, grazie alle bordate di Gigi Riva, prima che diventasse incontrastato sovrano il «10» che da Valentino Mazzola a Gianni Rivera, da Puskas a Schiaffino, da Sivori a Maradona, da Pelé a Platini si è via via affermato come insegna del più bravo, la cifra del genio, al punto che il pomposo Diego Armando lo pretende per contratto anche nelle partite per beneficenza.
Nessuno ha mai reclamato (anzi) per avere il «7», uno dei più negletti della mitologia calcistica, che pure conta tra i suoi profeti gente come Garrincha, Matthews, Hamrin. Julinho o, per restare alla Juventus, Muccinelli e Causio. Da ragazzi era il ruolo dove veniva relegato il meno dotato, perché all’ala nuocesse di meno. Quando non esistevano le riserve in panchina è stato anche il posto degli azzoppati, Al più un ruolo tattico, da pedina mascherata, spesso un ripiego se non un esilio: vi giocò, con vistosi mugugni, Boniperti; lo ebbe, alla fine della carriera, Bettega.
Chi, da ala destra, visse più a lungo d’arte (calcistica) e d’amore (juventino) è un tipo che si perde nella notte delle leggende, quando il «numero 7» era invisibile su quelle maglie così naif della Juventus fine anni ‘20. Aveva una faccia da bello del cinema e una capigliatura – come dire? – gramsciana o, per avvicinarsi a paragoni più frivoli, alla Roberto D’Agostino. E un nome già da solo minaccioso, come un deterrente per le difese avversarie... Provate a immaginarlo scandito dall’altoparlante di uno stadio con le sue quattro sillabe: Munerati.
Ha lasciato pochi aneddoti, storie curiose, ma in compenso una somma di gol che nessun altro juventino, giocando nel suo stesso ruolo, è riuscito a eguagliare. È addirittura il capo-cannoniere assoluto della Juventus nei campionati che precedettero il girone unico. Dopo Combi, fu il primo ad arrivare nella formazione che sarebbe diventata quella del mitico quinquennio. Cominciò avendo come compagni uno studente di ingegneria (Grabbi), un eterno dilettante (Bigatto), un aspirante divo di Cinecittà (Pastore). Finì con Cesarini, Ferrari, Orsi. Quattro scudetti e se dovessimo giudicare sulla cruda base delle cifre potremmo consacrarlo come la più grande ala destra nella storia della Juve, pur con tutte le riserve del caso su questi divertiti verdetti.
Si chiamava Federico, nome beneaugurante per approdare a Torino, dove arrivò giovanissimo, appena ventunenne. Aveva giocato nello Spezia (la squadra della sua città natale), che allora, negli anni ‘20, faceva addirittura la serie A. Poi nel Novara. Un anno da riserva, il secondo da titolare (il primo gol, all’Inter), il terzo da capo-cannoniere della squadra, il quarto da campione d’Italia. A Torino erano rispettosamente incuriositi da quella sua vistosa capigliatura in epoche in cui andava di moda imitare Rodolfo Valentino con etti di brillantina: scoprirono che non solo quel ragazzo era abile nel palleggio ma straordinario nel gioco di testa. Allora era una qualità rara.
Oggi, supponiamo, le gazzette lo chiamerebbero «ricciolo gol». Ai suoi giorni, con cronisti sportivi che si ispiravano a Guida da Verona, era «dribbleur riccio!»: qualche ammiratore lo giudicava inferiore solo a Cevenini III, il grande Zizì...
«Era decisivo» è il secco parere di Ninì Varglien, suo compagno di scudetti anni ‘30. Gli avevano chiesto, quasi per gioco, di fare un paragone con la Juventus degli anni ‘80 e di assegnare voti in un’immaginaria pagella. Varglien attribuì un 10 a Orsi, 9 a Combi, 8 a Munerati. Giovanni Ferrari, che scriveva sui giornali sportivi, lo descriveva così: «Un vero senso dell’opportunismo: dove c’era un pallone da gol, lì capitava lui. Molti i suoi gol decisivi, Di testa, poi, era un acrobata. Aveva un gioco lineare, non molto veloce, con bel cross al centro».
I cross, allora, erano un’arma insidiosa del gioco, forse più di oggi e Munerati era abilissimo nel calibrarli (come nel concluderli in gol quando a farli era il compagno dell’altra sponda). Proprio a un pallone calciato dalla bandierina dell’angolo è legato il suo più bel ricordo in maglia azzurra (tra il 1926 e il 1927 quattro partite in nazionale): il pallone finì sulla testa di Della Valle, bastava spingere e fu gol, nella rete del grande Zamora. Quel giorno, a Bologna, la Spagna venne battuta per 2 a 0.
Giocò in maglia bianconera per più di 10 anni, dal 1923 al 1933. Gli agiografi di cose juventine non lo ricordano per quanto meriterebbe, ma bisogna ammettere che non era facile catturare l’attenzione in una squadra dove già s’imponeva gente come Combi, Rosetta, Caligaris e poi Monti, Cesarini, Orsi. In compenso, dicevamo, Munerati ha lasciato vistose tracce della sua presenza sui tabellini dei marcatori. Spessissimo dopo un gol concedeva il bis; in un paio di occasioni ne segnò tre, una volta fu contro la Fiorentina, strapazzata per 11 a 0 (era d’ottobre, tempo di vendemmia, nel 1928); una domenica, ai vecchi rivali della Pro Vercelli, ne fece addirittura 4.
In quella stessa stagione fu protagonista, si racconta, di un episodio che è entrato nell’aneddotica un po’ enfatica del calcio che fu. Dunque, un sabato ormai estivo del 1930, i giocatori della Juventus erano a Genova per la partita domenicale. Passeggiavano in una via del centro, dirigenti in testa, tipo comitiva collegiale. Tutti insieme, disciplinatamente. Meno Munerati, sparito all’improvviso, si dice, dietro le belle gambe di una ragazza. Un’assenza piuttosto breve e probabilmente innocente. La sera, tuttavia, in albergo Munerati si sentì convocare dal vicepresidente, il leggendario barone Mazzonis (con quel nome così temibile), e seppe che, per punizione, l’indomani sarebbe rimasto fuori squadra. Forse era lo «stile Juve» che nasceva.
Proprio a Genova, tre anni dopo, disputo la sua ultima partita in bianconero: aveva ormai largamente superato la trentina, era guardato come un anziano e un piccoletto venuto dal Brasile, Pietro Sernagiotto, gli stava rubando il posto. L’avrebbe vestita ancora, quella maglia, ma in circostanze che sembravano solo vagamente patetiche e si rivelarono tragiche: un dolce pomeriggio di ottobre del 1940 Munerati scese in campo con i compagni di una volta per una partita di «vecchie glorie». Fu quel giorno che Berto Caligaris sì accasciò sul prato per non rialzarsi mai più.
A quel tempo il grande «Caliga» allenava la Juventus. A sostituirlo fu chiamato proprio Munerati. Doveva essere l’incarico di una settimana: andò avanti per due anni. Si concluse con una vittoria, in Coppa Italia.

VLADIMIRO CAMINITI
Munerati, di nome Federico, uno altone, con una bella faccia ariosa, che si aiutava a essere bello con una capigliatura frenetica, tutti quei capelli neri a riccioli. Lo chiamarono Ricciolo. Giocò in una Juventus che cresceva ogni giorno a vista d’occhio. Come dire, gli anni che crearono la leggenda, il mito della fidanzata d’Italia com’è stato scritto. Lui un ragazzone stellante, dagli occhi nerissimi, come giocatore ala destra (vecchio stile), corsa sull’out e cross ficcante, ma anche una certa capacità nell’accentrarsi e, su tutto, un senso del goal medianico. Sì, un gran bel giocatore, che durò oltre 11 anni, ed ebbe sempre gran cuore juventino.
L’Italia dal ‘22 al ‘33 conobbe le rivoluzionarie cose che sappiamo; dalla così detta Marcia su Roma in poi, Benito Mussolini capo del governo, e subito duce del fascismo. Il fascismo. Anche i calciatori non possono esimersi. Il saluto fascista per le squadre di calcio diventa obbligatorio. La libertà si è spenta. In compenso, la Juve diventa lo squadrone che stabilisce un primato di vittorie e di organizzazione, inventando lo stile Juventus o, meglio, fissandolo nel marmo delle vittorie epiche, che si inaugurano con l’anziano Munerati ala destra. Munerati è uno dei sopravvissuti dello scudetto del 1926.
Munerati ha affascinato con la sua figura eccentrica anche il piccolo Gianni Agnelli. Era fantastico, per i ragazzini, vedere apparire i calciatori che guadagnavano tante lire dando dei calcioni a una sfera di cuoio; doveva risultare assai divertente in mezzo alle quotidiane lagne degli studi seri e obbligatori. Munerati aveva certe spensieratezze; una volta, a Genova, tarda primavera del 1930, perse la comitiva dei compagni e dirigenti a passeggio per via XX Settembre, dietro le gambe di una bella ragazza. Perché meravigliarsi? «Sono belli gli occhi neri, sono belli gli occhi blu, ma le gambe ma le gambe…» canterà presto un ritornello.
Mazzonis non la pensò ugualmente, e il baldo attaccante finì in tribuna, il giorno dopo, l’accogliente tribuna in legno del già glorioso stadio Marassi col suo bel prato verde a schiena di asino. Munerati, quattro sillabe che facevano paura ai portieri.
Campionato 1925-26, stagione quasi epica, segna 10 volte in ventidue partite; i suoi goal di testa sono stupendamente semplici, grandi testatone; i suoi goal di piede sono dell’opportunismo più sfacciato. Ogni traiettoria che pare persa lui la conquista. Pare lento, ma è tutta apparenza. Ha velocità progressiva. Ha forza di tiro. Ha sicuro talento. Gli nuoce, per la popolarità, giocare in una Juve dove agiscono personaggi già famosi, Combi, Rosetta, Hirzer, Allemandi, Viola, Pastore, Vojak, insomma l’ala destra non gode del carisma di quel biondo ungherese che esalta il gioco con finezze radiose, e non ha la fama del ragioniere vercellese che non colpisce mai il pallone con la fronte ma conquista ogni traiettoria con la semplicità della classe più pura. Non è né Hirzer né Rosetta, a parte che, negli anni ‘20, i ruoli del calcio che piacciono di più sono quelli di centravanti e di portiere. Centravanti della squadra è un aspirante attore, bellissimo a tempo perso: Pastore.
Muore Jeno Karoly, l’allenatore verdiano (un fissato dell’opera lirica, sa a memoria tutto Verdi e ne fischietta arie e motivi), dopo la seconda partita della finale con il Bologna. Uno 0-0 che lo fa incavolare tantissimo, va a casa stanchissimo e muore. Il cuore è malato.
Il Bologna è già lo squadrone che tremare il mondo fa, e inoltre si avvale della protezione di Arpinati, eminenza grigia del fascismo. Ma la Juventus vince ugualmente, 2-1 la terza partita, si salva con goal di Pastore e Vojak. L’Alba di Roma subirà una carrettata di goal: 12-1. È il secondo scudetto e tra le lacrime i bianconeri lo festeggiano degnamente con i dirigenti Mazzonis, Cravero, Bebè Gola, tra amici vecchi e nuovi e il presidentissimo Edoardo Agnelli. Qui comincia la gloria. Il 29 maggio 1927, Munerati gioca in Nazionale a Bologna contro la Spagna del magico Zamora. Vincono gli azzurri 2-0 e il secondo goal, l’autorete di Prats, nasce da un corner battuto da Ricciolone, che va a rimbalzare tra Della Valle e Prats, il quale fatalmente batte il suo portiere.
Campionato 1930-31, dunque, secondo a girone unico: nella Juventus gioca anche Orsi. Mussolini ha almeno unito patriotticamente (c’è anche la Triestina) l’Italia del fascio. Campionato a 18, con squadroni assoluti come Juventus, Roma, Bologna, Genova, Ambrosiana. Il Torino e la Lazio fanno la parte loro, con giocatori straordinari come Baloncieri, Libonatti, Sclavi e quel Pastore che è stato felice juventino, ma felicemente si è trasferito a Roma attratto irresistibilmente da Cinecittà.
È il primo scudetto della serie che conta, di Munerati. Ne vincerà altri due, prima di dover lasciare passo e strada a un piccolotto sudamericano: Sernagiotto. Munerati chiude con la Juve proprio mentre in via Filadelfia si inaugura il nuovo stadio comunale, intitolato naturalmente a Mussolini. Oramai è superato, con i suoi 32 anni, per la squadra che ha il «divino» Orsi all’ala, il centravanti che sfolgora con goal bellissimi: Borel II.


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