sabato 21 agosto 2021

Gianni AGNELLI

 

«La Juve è per me l’amore di una vita intera, motivo di gioia e orgoglio, ma anche di delusione e frustrazione, comunque emozioni forti, come può dare una vera e infinita storia d’amore. La Juventus è la compagna della mia vita, soprattutto un’emozione. Accade quando vedo entrare quelle maglie in campo. Mi emoziono persino quando leggo sul giornale la lettera J in qualche titolo. Subito penso alla Juve».

GIANNI ARMAND-PILON, DA “LA STAMPA” DEL 24 GENNAIO 2003
Giovanni Agnelli è morto, a 81 anni, nella sua villa sulla collina di Torino. Si è spento in una mattina gelida di fine gennaio, poche ore dopo avere ricevuto l’estrema unzione dal cardinale Severino Poletto. Il presidente onorario della Fiat, nipote del fondatore dell’azienda che ha fatto dell’Italia un Paese industriale, aveva accanto la moglie Marella, la figlia Margherita e il nipote John Elkann. La notizia si è diffusa in città pochi minuti prima che iniziasse la riunione dell’accomandita di famiglia. Il primo ad arrivare è stato il presidente della Fiat, Paolo Fresco, seguito da Egon Von Furstenberg, Pio Teodorani Fabbri, Maria Sole Agnelli, John Elkann, Andrea Agnelli e Tiziana Nasi. Susanna Agnelli, visibilmente affranta, non ha rilasciato dichiarazioni. «Vi ringrazio», ha invece detto ai cronisti coprendosi il volto con una borsetta. Margherita Agnelli, figlia del senatore a vita, arrivando per ultima e lasciando per prima l’assemblea.
Otto mesi fa – maggio 2002 – era stato lo stesso Agnelli ad annunciare che andava negli Stati Uniti a curare un male alla prostata che lo tormentava da tempo. Una scelta, quella di rendere pubblica la malattia, che andava contro i suoi desideri e il suo stesso stile. Ma una scelta necessaria, quasi obbligata, «per mettere a tacere voci e speculazioni di borsa sulla Fiat» come aveva spiegato in un’intervista. «Non posso accettare che un mio problema personale si ripercuota sugli azionisti, sull’azienda e su tutto ciò che si muove attorno a noi». L’azienda era tutta la sua vita, difenderla dagli attacchi il suo primo pensiero. E quindi; «Ho deciso di agire con la massima trasparenza».
Era partito per un primo ciclo di cure a New York a ridosso dell’assemblea Fiat, e Dio solo sa quanto gli era costato dover rinunciare a quell’appuntamento. Per la prima volta dopo 60 anni, i lavori dell’assemblea convocata per il 14 maggio 2002 si sono aperti senza l’Avvocato fisicamente presente, a illustrare le cifre dell’azienda. Agnelli aveva seguito lo stesso il susseguirsi degli interventi, collegato a Torino dalla sua abitazione affacciata su Park Avenue. Via telefono, gli era arrivata l’eco metallica del lungo applauso che si era levato dopo le parole del presidente Paolo Fresco, che in apertura gli augurava di guarire presto, e in fretta di tornare a Torino, per riprendere in mano la guida dell’azienda di famiglia.
Era rientrato un mese dopo – 4 giugno – in anticipo sulle previsioni. La notizia della fine del ciclo di terapia era stata data da un portavoce del Gruppo a Stupinigi, dove quel giorno si presentavano due nuovi modelli di casa Lancia, la Phedra e la Thesis. E la conferma di quanto il mercato guardasse con attenzione alle condizioni di salute del presidente onorario Fiat era arrivato praticamente in tempo reale dalla borsa di Milano, dove il titolo Fiat aveva subito recuperato un punto.
Dopo l’estate trascorsa tra Villa Frescot e la residenza di Villar Perosa, il 20 settembre Giovanni Agnelli era intervenuto all’inaugurazione della Pinacoteca che porta il suo nome e quella della moglie Marella, all’interno dello «scrigno» progettato dall’architetto Renzo Piano sul tetto della vecchia fabbrica Fiat, al Lingotto. Qui, tra i capolavori del Canaletto e di Picasso (un dono lasciato alla città perché «mi sentivo in colpa, voglio proprio usare questa parola, verso Torino, verso la mia città, che mi ha dato tanto»), l’incontro con il presidente della Repubblica Ciampi, la moglie Franca, il presidente del Senato Pera, il ministro per i Beni culturali Urbani e l’amico Kissinger. Venti minuti passati a parlare di economia, pittura e calcio, nessun giornalista ammesso, nessuna telecamera, solo un fotografo per la foto ufficiale pubblicata il giorno dopo su tutti i giornali. L’ultima immagine di Giovanni Agnelli mostra un uomo tirato ma non sofferente, elegante in abito grigio, camicia bianca e cravatta scura, su uno sfondo di piante sempreverdi.
Sembrava che la malattia fosse, se non vinta, almeno sotto controllo. E invece, due mesi dopo – siamo allo scorso novembre – ecco la notizia di un secondo viaggio a New York per un nuovo ciclo di cure. Poi il ritorno a casa, al lavoro per l’azienda di famiglia nonostante un’autonomia sempre più ridotta.
Ieri, la resa davanti al male. Alle 20, la famiglia ha chiamato il cardinale Poletto pregandolo di salire a dare l’estrema unzione all’Avvocato. Ieri mattina alle 8,30 la notizia, diffusa con un comunicato dalla famiglia: «Giovanni Agnelli è spirato, nella sua casa torinese. La camera ardente sarà allestita al Lingotto e i funerali si svolgeranno a Villar Perosa in forma strettamente privata».

IGOR MAN, DA “LA STAMPA” DEL 25 GENNAIO 2003
E così sia, Giovanni (Gianni) Agnelli, detto l’Avvocato. Sopravvive allo strazio fisico il sorriso antico del vecchio marinaio, la curva amara delle labbra s’è fatta paziente, distesa. Dio con una mano dà, con l’altra leva: e accade che la morte asciughi la sofferenza, prima che possa umiliare troppo l’uomo. Dice il Salmo: «Tenero e pietoso è il Signore / lento all’ira e grande nella benignità (...). Come il padre è tenero coi suoi figli / così il Signore è tenero verso coloro che credono in Lui». Questo che cito, il Salmo 103-3, era molto caro a Edoardo Agnelli, il figlio-bambino dell’Avvocato e di Donna Marella, la Principessa Caracciolo, moglie infinitamente paziente di Gianni Agnelli, madre dolorosa. A chi scrive riesce difficile, in questo momento, mettere ordine nel tumulto dei sentimenti.
Era, fu, un Potente ma non dimenticò mai i doveri del gentiluomo. Consapevole d’essere uno degli «Imperatori del Mondo Industriale», non trascurò la lezione di suo Nonno-Fiat: «Gianni, l’educazione è tutto. Non dimenticare mai le buone maniere». La sua gentilezza era, dunque, una divisa che indossava notte e giorno?, gli chiesi una volta. Rispose che se l’era domandato spesso anche lui concludendo che, buone maniere o no, il segreto stava nel sapersi dominare, nel temperare l’arroganza. «So d’esserlo, arrogante, e me ne dolgo sicché capita che magari invece d’un cicchetto sembra ch’io elogi chi ha fatto una cappellata. E in questo caso chi è intelligente capisce e incassa mentre il cretino (l’Avvocato arrotava tremendamente la R quando diceva cre-ti-no) se ne va tutto contento, tranne a realizzare dopo il disastro». Pensa di avere molti nemici?, gli domandai una delle ultime volte che l’ho visto al Lingotto, diciamo prima della Malattia. «Certamente», rispose, subito aggiungendo con un sorriso divertito: «Ma qualche amico ce l’ho e me lo tengo caro». Henry Kissinger è stato un amico, forse il primo amico dell’Avvocato e certamente lo era quell’ignoto marinaio al centro d’un accadimento che racconterò perché dà la misura di chi fosse, e come fosse, il Personaggio.
L’Avvocato era un uomo impaziente, facile ad annoiarsi. Aveva un solo aggettivo, lui che parlava veloce e incisivo, elegante. «Divertente». Tutto quello che andava bene: una partita di calcio, un articolo, un libro, un’operazione finanziaria – se meritava, appunto, il suo interessamento, era «divertente». Ma quest’unico aggettivo – «divertente» – non è che ricorresse sempre nel suo discorso. Era molto esigente, l’Avvocato e questo si può capire, e spesso divertente quando non affascinante (allorché parlava della sua esperienza di soldato nell’ultima guerra) ma non avrei mai immaginato che potesse risultare «noioso». Sua figlia Margherita, sì la pittrice che riesce a «dipingere in russo» Il Piccolo Principe, mi disse un giorno che «Papà come genitore è piuttosto noioso, sicché quando siamo insieme, a famiglie riunite, cerchiamo di portare il discorso sul giornale, su di lei, sulle sue avventure che tanto interessano papà». E cosa dice di me? «Divertente», rispose con un sorriso terribilmente simile a quello di suo padre. «Papà dice che lei è divertente». Coi figli, dunque, era «noioso». E tuttavia li amava. Oh come li amava: di Margherita ammirava non tanto il «talento d’artista» («dovrebbe solo organizzare meglio il suo lavoro, forse», diceva) quanto il carattere, la fantasia. «È come una matrioska all’incontrarlo», mi disse di lei quando fece una mostra – presentata da monsignor Ravasi a Milano. Sarebbe a dare? «Alla fine, leva leva, rimane la bambola più grande. Appunto, una matrioska in ordine inverso». Stimava dunque sua figlia Margherita, l’Avvocato. Ma con Edoardo, con suo figlio Edoardo quali erano, furono, i rapporti? «Nec tecum nec sine te vivere possum»: potrebbe essere questa la risposta giusta a un interrogativo crudele. Li univa, padre e figlio, una affettuosa incompatibilità di carattere, se così può dirsi. L’Avvocato mi chiese un giorno, or è tant’anni, di ricevere suo figlio: «Ha molti interessi, forse troppo, lo attira l’Oriente in senso lato, quelle religioni ama studiarle ma temo faccia un po’ di confusione, le dispiace incontrarlo?». Venne a casa mia, ci vedemmo ancora una volta in via XXIV Maggio, e di nuovo in occasione d’una diretta televisiva su Khomeini eccetera. Ricordo in particolare un incontro a Roma, nel vasto living di casa Agnelli, dominato dal nudo castamente sensuale di Modigliani. L’allora giovanissimo Edoardo era con il suo amico Almagià. Non aveva letto il Corano se non a spizzichi e bocconi sicché gli consigliai una bella edizione francese e, ovviamente, l’opera del Busani.
Edoardo aveva una intelligenza rapace ma spesso dava l’impressione di straniarsi dalla realtà per costruire mentalmente una sorta di «utopia personale rivoluzionaria», come ebbe a dire un amico comune, Enrico Becchi, il giovine ma già grande costruttore torinese morto pilotando un vecchio Catalina trasformato in aereo-anfibio. Al funerale di Enrico, Edoardo era accanto a sua madre Marella. All’uscita, qualcuno mi strinse il braccio. Era Edoardo: «Lo sapeva che Enrico le voleva molto bene? Anch’io gliene volevo», disse asciugandosi gli occhi, «e ho pregato per lui, insieme con mia mamma. Mi scusi ma debbo correre da lei, da mia madre, è proprio addolorata». Dal modo con cui Edoardo disse: «debbo correre da lei», sentii che portava a sua madre un amore sconfinato, di quelli che si provano pei genitori soltanto quando si è bambini.
Col padre era più difficile. «Non vanno d’accordo», dicevano. Banalmente, poiché non «andar d’accordo» è un conto, amarsi un altro. E i due, Gianni e Edoardo, si amavano. Si scontravano in un clima affatto piemontese ma guai a chi incautamente criticava il padre cercando di arruffianarsi il figlio: questi lo zittiva con furore. Di Edoardo con l’Avvocato abbiamo parlato una volta sola: io ho «spiegato» al padre quanto suo figlio, a conti fatti, gli somigliasse: era, forse, Edoardo, l’altra metà di Gianni Agnelli, quello che diceva cose che il Monarca-Fiat non poteva né doveva dire – così com’è nel destino dei leaders. E qui debbo dire che l’Avvocato ha cominciato a morire (giorno dopo giorno, lentissimamente ma inesorabilmente) il mattino in cui Edoardo tirò lo zip, ghigliottinando la sua giovine vita agra. Educato a dominare ogni pena, sia fisica che spirituale, l’Avvocato riuscì a non far pesare il suo stravolgimento interiore a chi gli stava intorno per lavoro, per usuale frequentazione. Pochi giorni erano passati dalla tragedia quando, insieme a Donna Marella, non volle mancare al premio Pannunzio, assegnato fra l’altro a un giornalista ch’egli apprezzava e non poco: Paolo Mieli. Lui, l’Avvocato, sembrava esser diventato di giada, lei. Donna Marella, era già quella «addolorata» che oggi somma il distacco dal suo compagno che lei sola sa «chi» veramente fosse, alla mutilazione subita con la morte di Edoardo. Ora, Donna Marella, stringe le mani ai visitatori, amici e conoscenti, e sul suo viso tatuato dalla pena il ricordo sovrappone i lineamenti modiglianeschi d’una fanciulla gaia, ricca di interessi artistici. Lei, giovanissima principessa Caracciolo, il cui padre, presidente dell’Aci, accompagnavo spesso dall’ufficio di via Marsala (vi andavo a prendere l’aperitivo sotto l’occhio attento di Enzo de Bernart) alla Lungarina dove, appunto, abitavano i Caracciolo. Come sorrideva bene Donna Marella, allora. Un giorno la marchesa Sant’Angelo mi disse che li aveva fatti incontrare: l’Avvocato e la Principessa «due giovani da romanzo», disse: «Sarà il matrimonio del secolo».
Non so se lo sia stato, ed ha poca importanza oramai: so che niente e nessuno è riuscito a togliere la regalità a Donna Marella. Così come so che a soffrire terribilmente sarà Susanna Agnelli, la sorella. Un giorno ch’eravamo nel living a prendere l’aperitivo, ed era appena passato come un cordiale uragano Mario d’Urso, vidi d’un tratto l’Avvocato tendere l’orecchio e, poi, con un sorriso estatico sussurrare: «È lei». Lei era Suni, la sorella cara, la confidente, la Persona con cui aveva vissuto momenti terribili, dolorosi, sempre temperati dall’ironia, dal bon mot. Si abbracciarono come se si vedessero dopo tanto tempo, Suni e l’Avvocato si volevano bene sul serio, basta del resto leggere quel libro per molti versi straordinario ch’è Vestivamo alla marinara. Si volevano bene assolutamente, e tuttavia quando sua sorella fu Ministro degli Esteri (atipico ministro ma audace e capace) Gianni spesso polemizzò con lei.
Quante se ne sono dette sui rapporti fra Gianni e Umberto, fra l’Avvocato e il Dottore. Io non oso dar giudizi non fosse altro perché non ero un «intimo di Casa Agnelli», ci mancherebbe. Ma in questo momento difficile – sul piano dei sentimenti, sul piano della realtà industriale – posso dar testimonianza del rapporto forte tra i due fratelli. Una volta che avevo un appuntamento con il Dottore, vidi, prima d’incontrarlo in Corso Matteotti, l’Avvocato: al Lingotto. Accompagnandomi all’ascensore (camminava spedito allora, ancorché caracollando) disse, come se parlasse a se stesso: «Non è facile, me ne rendo conto, essere mio fratello. Col mio caratteraccio non capisco, a volte, come faccia a sopportarmi, Umberto. Noi gli dobbiamo molto come... ditta, come famiglia. La morte giovane di Giovannino non ha piegato la sua determinazione. Il suo genio finanziario è un grosso valore aggiunto», concluse. Naturalmente mi guardai bene dal riferire questo rapido discorso a Umberto Agnelli, ma ora è diverso; ora l’Avvocato non c’è più e ogni remora cade di fronte alla verità. E la verità parla di un uomo genialmente contraddittorio, che di certo intuì il precipitare del Destino ma volle esorcizzare l’intuizione con l’indifferenza, con la preghiera (clandestina).
Proprio l’ultima volta che l’ho visto, non so come il discorso cadde su Cesare Romiti. «Cosa vuole che le dica – disse l’Avvocato –, più passa il tempo, più mi convinco che a quell’uomo in definitiva io voglio bene. Ha fatto tanto per noi, per Fiat, per il lavoro. Quando lo vede, glielo dica». Non gliel’ho mai detto ma adesso tutto va detto: è il modo migliore, penso, per chi lo amò, di onorare il Principe. Che aveva una etica dell’amicizia tutta particolare.
Avevamo stabilito che non mi chiamasse, se non in casi urgenti, prima delle 8 del mattino né io avrei potuto telefonargli dopo le 10 della sera. Ma un mattino (ero a Sabaudia) mi telefonò alle 5 allarmando mia moglie (con la quale poi si scusò con molto spirito), facendomi prendere un mezzo accidente: «Dovremo spostare di un po’ l’appuntamento. Dovevamo vederci alle 9 in via XXFV Maggio, le dispiace rinviare diciamo alle undici?». Roger, ricevuto – risposi, come sempre.
Alle undici ero dunque a casa sua, parlammo nel piccolo salotto zeppo di giornali stranieri e italiani, sorseggiando io la solita acqua minerale, l’Avvocato l’abituale tè lunghissimo, bollente. Indossava un paio di jeans molto vissuti e una camicia di lino vecchia di taglio eppur sontuosa. Al momento del congedo mi disse tra l’irritato e il sorpreso: «Non vuol sapere perché ho spostato l’appuntamento?». Avvocato, se non me lo dice lei, per me va bene lo stesso: immagino siano fatti suoi, risposi. «Vede – disse – è morto un mio vecchio amico marinaio; un caro amico. È morto in Corsica, sono andato a salutarlo».
Un vecchio marinaio?, dissi: come quello della famosa ballata di Coleridge? (SamuelTaylor Coleridge: poeta, filosofo, 1772-1834). E qui l’Avvocato, con mia sorpresa, prese a recitare i versi della Ballata del Vecchio Marinaio. In inglese, in quell’inglese senza accento che tanto affascinava i suoi amici anglosassoni, Kissinger per primo. «Higher and higher every day / Till over the mast at noon (...) At length did cross an Albatros: / torough the fog it came; / as if it had been a Christian soul / we hailed il in God’s name». (Ogni giorno più in alto, sempre più in alto, al di sopra dell’albero maestro, a mezzodì – In fine dalla nebbia sbucò un albatros – e noi lo salutammo, anima cristiana, nel nome del Signore).
Uno scrive l’Avvocato, e tutti capiscono. Non c’è bisogno di specificare che il dottor Agnelli Giovanni, presidente onorario della Fiat, sia «lui», l’Avvocato: lo sanno anche nel Burundi. Enzo Biagi, tanti anni fa, dedicandogli un libro intero, lo ha chiamato Il Signor Fiat. E son tanti gli scritti, perlopiù di autori stranieri, a lui dedicati: nel senso che ambiscono a raccontare il Personaggio e la Fabbrica. La Fiat, giustappunto, intimamente legati – uomo e azienda, a filo doppio alla Storia, non soltanto italiana. Nella buona e nella cattiva sorte.
Si sa che l’Avvocato, pur essendo uno degli uomini più ricchi del mondo, non ha mai toccato il denaro. Una mattina, tanti e tanti anni fa, Agnelli decise di andare a Villa Giulia perché alla Galleria di Arte Moderna Palma Bucarelli esponeva anche il famoso Modigliani contestato nella sua autenticità da Virgilio Guzzi, critico rigoroso. L’Avvocato coinvolse Alberto Ronchey, ch’egli da sempre giudica un grande giornalista swiftiano, che a sua volta reclutò il sottoscritto. Varcato l’ingresso della Galleria, un’impiegata chiese all’Avvocato se volesse il catalogo. «Certo che sì, grazie», disse lui. Sono 15 mila lire, aggiunse quella e l’Avvocato sfiorando il suo doppiopetto galles: «Non ho con me denaro – disse –, Ronchey le dispiace fare per me?». Borbottando: si figuri, Alberto sganciò.
Un po’ tutti conoscono la sua competente passione in fatto di antiquariato, ebbene, sempre un bel po’ di anni fa, a Hong Kong, andò a trovare uno dei più rinomati antiquari (un cinese) della terra. Acquistò in cambio di un bel mucchietto di dollari un cavallino di legno di buona dinastia, ma quando venne il momento di firmare l’assegno, chiese uno sconto. Il cinese e l’accompagnatore (l’allora console generale Bolla) trasecolarono: «Io, lei lo sa, non pratico mai sconti», obiettò il cinese. «Allora non se ne fa nulla», scandì l’Avvocato, irritatissimo. Finì che ebbe lo sconto: cinquecento dollari, un’inezia, ma era tutta una questione di principio del signor Agnelli, non dell’Avvocato, uno degli «imperatori del mondo», quella di farsi fare lo sconto, da buon piemontese.
Lo so, codesta è aneddotica: per certi versi «illuminante»; ma sempre aneddotica. Io che ho avuto la fortuna di frequentarlo dal 1963 e che sono pressoché suo coetaneo, ho avuto modo di ascoltarlo quando si abbandonava ai ricordi. Perché raccontando di questo o di quello, egli finiva col raccontarsi, non accorgendosi – seppure vigile e controllatissimo –, di squarciare un po’ l’aura di mistero che l’avvolgeva. Mistero intimo, non biografico, sia chiaro, custodito da un sorriso da antico marinaio: un sorriso appena accennato che sfuma malinconico in una piega quasi dolorosa delle labbra, agli angoli della bocca. Sappiamo del suo coraggioso comportamento in combattimento, è noto il suo «no» all’imboscamento sia pure stragiustificato durante la guerra; sua sorella Suni in quel libro unico che è Vestivamo alla marinara, ci ha fatto toccare con mano la sua eccezionale capacità di dominare il dolore più atroce, ironizzandoci sopra, addirittura. Ebbene, la sua cognizione del dolore (non solo fisico) faceva sì ch’egli partecipasse della sofferenza altrui recandosi a visitare un suo vecchio marinaio in difficoltà, ovvero un operaio ferito o semplicemente un amico: che può essere Rockefeller ovvero un suo anonimo dipendente.
Aveva il culto dell’amicizia, l’Avvocato, sicché l’addolorava il «tradimento». E questo può valere per un calciatore come per una sua eccezionalmente, signorilmente brava assistente personale. Un piemontese come lui, quella versione postmoderna di Principe Rinascimentale ch’egli fu, aveva dell’amicizia un culto curiosamente siciliano. (Per un siciliano spesso l’amico è più del fratello. Col fratello puoi vivere alla peggio insieme, con l’amico ti coniughi).
Mi piaceva ascoltarlo, tanto che infinite volte ci siamo ripromessi di mettere sul tavolo un registratore ad andar sul filo della memoria. Era importante per me sentirlo parlare di New York («colei che non si deve amare», come diceva Ugo Stille), la New York del Cinquanta, del Sessanta in particolare. Scoprii che avevamo incontrato le stesse persone, poiché un giornalista è come la salamandra, va dappertutto: da casa Vanderbilt allo studio di Pollock, dall’Algonquin al Village. Però lui li ha conosciuti dentro, il reporter li ha solo sfiorati, i big. Ma qualche amico comune c’è stato, ad esempio Raimondo Lanza che aveva acquistato un centravanti per il Palermo solo perché lo incantava l’eleganza del suo dribbling stretto. E ciò spiega il rapporto di simpatia amicale che legava l’Avvocato al grande Platini. A proposito; lui che era sempre piuttosto aggiornato in fatto di letteratura straniera, e di saggistica economico-finanziaria, non nascondeva, al pari del Vecchio Cronista, di leggere il Guerin Sportivo.
Mi piaceva ascoltarlo anche perché imparavo. Per esempio che il cinismo ch’egli ostentava truccandolo da battuta, non aboliva il sentimento profondo dell’etica cristiana. Mi raccontò, un giorno, che capì definitivamente quanto sporca sia la guerra vedendo, sul fronte russo, soldati tedeschi con lo zaino pieno di munizioni andare su di una passerella per rifornire un reparto isolato, cadendo come le mosche sotto il fuoco sovietico. Espresse il suo sgomento e si sentì rispondere dall’ufficiale tedesco di collegamento: «Ma no, quelli sono prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa tedesca». Era stato ufficiale in Africa e in Russia e, pur avendo sofferto, aveva molti bei ricordi della vita militare. Tra gli altri, come amava ripetere, uno, tra il malinconico e il gentile, degli ufficiali rumeni di cavalleria che, a Bucarest, portavano un ramo di jasmin sul kepi.

ROBERTO BECCANTINI, DA “LA STAMPA” DEL 25 GENNAIO 2003
Fu Edoardo, il padre, a presentargli la Juventus, un pomeriggio del settembre 1925. Aveva poco più di quattro anni. Ne sarebbe nato un romanzo, un’emozione lunga una vita, la sua vita, con digressioni forti e non meno suggestive: la Ferrari, la vela, lo sci. «Vinca la Juve o vinca il migliore? Sono fortunato, spesso le due cose coincidono». Penso che sia questa – soprattutto questa – la frase che più di ogni altra riassume lo spirito di Giovanni Agnelli. La volontà di eccellere, il piacere di riuscirci spesso, il privilegio di partire da una posizione di forza: ereditata e continuamente allenata, sì, ma non urlata. Lo sport gli deve una passione ruspante, una curiosità quasi mai banale, uno stile che esula dal patrimonio e dal potere. Se bastava il nome degli Agnelli ad aprire le porte, l’Avvocato, di sicuro, non si è mai dimenticato le chiavi: e non ha mai sbattuto l’uscio.
Non esiste al mondo una società caratterizzata da una famiglia come la Juventus. Il fratello Umberto ha sempre incarnato la figura del «primo ministro», l’Avvocato ha raccolto via via su di sé le funzioni e le aspettative del «sovrano»: operativo, quando toccava a lui dirigere; distaccato ma vigile, quando era stabilito che toccasse ad altri. Fosse stato un giocatore, penso che avrebbe scelto il «dieci», il numero più fantasioso ed esteticamente più sgargiante, la maglia di Omar Sivori e Michel Platini, i suoi pupilli. Il calcio che «giocava», al telefono o dalla tribuna, era il calcio che aveva respirato in gioventù, molto dribbling e poco lavagna: lampo, non tuono. Era curioso, sapeva ascoltare. Detestava gli specialisti, «così noiosi...», aveva un gusto innato per l’ironia, che spalmava sui taccuini di noi cronisti, golosi e ossequiosi. L’ha detto l’Avvocato: titolo a nove colonne, e la soddisfazione di aver superato un esame.
Prima dell’elicottero di Berlusconi, c’è stato il suo. Quello che, a Villar Perosa, ciondolava sul campo e sanciva (allora) il battesimo della stagione, i titolari della Juve contro i giovani della Primavera. Era diventato un rito, una cerimonia: la sfilata della squadra a casa Agnelli, la processione dei tifosi, gli autografi, la partita e poi l’intervista. Questa non meno attesa, e ambita, di quella. E poi le telefonate. Rigorosamente non dopo le sette di mattina. Un giorno di Juve calante mi disse: «Veda. Bei tempi, quando buttavo giù dal letto Boniperti all’alba. Il guaio è che adesso devo svegliarlo alle quattro del pomeriggio». Si divertiva. Dello sport, detestava soltanto l’aspetto politico, le beghe di palazzo, le volgarità cortigiane. Di politica ne aveva fin sopra ai capelli, il pallone era il suo giardino; la Juve, la sua compagna di vita. Le ha amate tutte, anche le più scalcinate, anche quella che definì «socialdemocratica», la Juve di Heriberto Herrera, un coro senza tenori. Ce n’è stata una, nel 1983, che portò addirittura alla Casa Bianca, e George Bush il vecchio, all’epoca vice di Ronald Reagan, si abbandonò in suo onore a un improbabile palleggio. L’ha offerta in visione agli amici, guardare ma non toccare: a Henry Kissinger parlò di Zbigniew Boniek come del «bello di notte». Ci volevano le serate di coppa, per vellicarne il cuore e i garretti.
L’orologio sopra il polsino e la cravatta sopra il pullover furono colti per la prima volta allo stadio. Non che ci tenesse, ma tutto, dell’Avvocato, faceva notizia. Le sue frecciate, per esempio, e le sue battute. Roberto Baggio è passato da «Raffaello» a «coniglio bagnato». Alessandro «Pinturicchio» Del Piero potrà sempre raccontare di essere stato insignito di un gerundio: «Aspettando Godot». Zidane, «più divertente che utile». Zidane gli era stato consigliato da Platini. Platini, in compenso, era arrivato nel 1982, suggerito personalmente da Agnelli. Michel: glamour francese in salsa italiana. Gli piacevano così. O viziosi come Sivori o eleganti come Platini. I mediani li tollerava al massimo nella Confindustria, non nella sua squadra. Lo snobismo dell’Avvocato ha sempre nascosto competenza e umiltà: la competenza maturata affacciandosi negli spogliatoi, l’umiltà di stare a sentire anche l’ultimo degli scribi. Durante gli Europei del 1996, si avventurò fino a Wembley per Inghilterra-Spagna. Mi telefonò, mi partecipò le sue sensazioni, si divertiva, contento, parafrasando Andy Warhol, di essersi ritagliato «un’ora e mezzo di non popolarità».
Le polemiche non competono ai monarchi, competono ai suoi dignitari. L’Avvocato le ha sempre sorvolate. La Juve è diventata, nel tempo, la società più amata e più odiata, lo stile Juve si è diffuso attorno alla sua persona e alla sua personalità, rispetto, distacco e un amore spruzzato di aristocratico understatement. Lo ricordo choccato all’Heysel, a mattanza appena consumata, abbattuto ad Atene, la sera in cui l’Amburgo sfilò alla Juve una Coppa che sembrava già vinta: e sferzante, sempre, più con i suoi che con gli avversari. E non erano i bersagli ad arrabbiarsi: erano gli esclusi. Trovava «emozionante» il modo in cui difendeva Julio Cesar, e, quando irruppe Silvio Berlusconi, era convinto che lui e Sacchi avrebbero rovinato il Milan. Si sbagliava, si scusò. Berlusconi «ha trasformato il calcio da sport di città a spettacolo televisivo. Il suo Milan lo paragonerei agli Harlem Globetrotters». La Juve di Boniperti gli corse dietro, ma aveva ali di cera e si sciolse come Icaro al sole. «Se solo avessi potuto – confessò Agnelli a Candido Cannavo – avrei preso quel Milan e lo avrei trasferito, in blocco, a Torino». Salvo aggiungere, per tirare su il morale di Boniperti: «Loro, però, hanno vinto due campionati di serie B e tu non ci sei ancora riuscito».
Non gli piaceva perdere, ma sapeva perdere. Uno dei pochi. Era fiero della sua torinesità, cui la Juve assicurava una finestra sul mondo. Detestava il Delle Alpi, il meno inglese degli stadi italiani. Da quando nella conduzione diretta della società era subentrato il fratello, si era riappropriato del rango e dei panni di primo tifoso, navigatore e non più pilota, attento alle curve della suscettibilità. Il calcio e lo sport in genere si erano messi ad andare a velocità folli, soltanto la Juve riusciva a garantirgli un aggancio con il passato: non in quanto tale, ma come periodo più adatto ai suoi ritmi, la mitica Juve del Quinquennio, la Juve di John Hansen e Praest, quella di Boniperti-Charles-Sivori. Dal 24 luglio 1923 fa parte integrante della famiglia. Agnelli ne è stato presidente dal 22 luglio 1947 al 18 settembre 1954. Altri tempi. E che dirigenti, i dirigenti di allora. Fra i suoi amici c’era il principe Raimondo Lanza di Trabìa, presidente del Palermo. Trattava gli affari dalla vasca da bagno. Aveva seguito in vestaglia e pantofole il suo amico e allora ministro degli Esteri Galeazzo Ciano in missione ufficiale a Budapest. Con un tipo così, non ci si poteva proprio annoiare. Si sentivano spesso, lui e l’Avvocato.
La Ferrari è venuta dopo. Molto dopo. La Fiat vi si avvicinò sulle ceneri, calde e tempestose, di un mancato accordo con la Ford. Il matrimonio risale al 18 giugno 1969. La Juve aveva già vinto tredici scudetti. Nel trattare con Enzo Ferrari, Agnelli rimase colpito da quel senso di solitudine che era così palpabile e grandioso da incutere soggezione: o comunque, da costituire una barriera. Entrambi uomini di fabbrica, ma l’uno, la sua, l’aveva costruita dal nulla; l’altro, viceversa, l’aveva ereditata dal nonno: non che l’Ingegnere lo facesse pesare, però l’Avvocato ne avvertiva il misterioso fluido allusivo. Se la Juventus era un affetto, la Rossa è stata un effetto. «Un impegno nazionale. Perché la Ferrari è una realtà molto importante nel mondo. Io l’ho vista sempre sotto questo profilo». Ventun anni senza titolo, senza niente. «Ma adesso che è maggiorenne, vedrete...». Anche qui, fra i motori, molto telefono ed esposizioni mirate. Patti chiari, però: «Confesso che conquistare uno scudetto è tuttora la cosa che mi emoziona maggiormente». A differenza di Platini, Michael Schumacher non è stato pagato un tozzo di pane. Il caviale costa. Per Agnelli, vincere era molto, non tutto. E così quando il tedesco, a Jerez, cercò di buttar fuori Villeneuve nell’ultimo, decisivo, Gran Premio del 1997, operazione fra l’altro fallita, prese il telefono e chiamò Montezemolo: Luca, bisogna assumersi le responsabilità di questo episodio tremendo, sportivamente è una tragedia, per Schumacher, per la Ferrari...
Ecco: è stata proprio questa coscienza del limite, questo «dovere» di fair play riparatorio, ad averne nobilitato la diversità. Più dell’intuizione di affidare il rilancio della Juve sessantottina a Boniperti. Più della scelta di inviare Montezemolo a Maranello per la ricostruzione. Più delle regate al timone del suo «Stealth». Anche i tifosi più faziosi percepivano in lui, non solo o non tanto il potere del casato che di solito trasmette arroganza e alimenta invidie, ma l’arte di sdrammatizzare e di capire le ragioni dell’avversario. Non credo che recitasse una parte per equilibrare gli eccessi dei «sudditi»: era così di educazione, attratto da quel modello anglosassone che, nei cimenti agonistici, ha sempre privilegiato il rispetto delle regole alla giungla degli istinti. Nel 1948, gli avevano segnalato un massiccio attaccante svedese, Gunnar Nordahl. Mancava solo la firma. Nello stesso tempo, però, John Hansen aveva consigliato un danese, Johannes Ploeger, in procinto di arruolarsi al Milan. Con una manovra spericolata, i dirigenti juventini lo indussero a cambiare idea. E così Ploeger, salito sul treno «milanista», scese alla Stazione Centrale di Milano «juventino». Per il Milan, una beffa atroce. Atroce come l’imbarazzo di Agnelli, quando lo venne a sapere. La Juve si tenne Ploeger e, a titolo di risarcimento, girò al Milan Nordahl. Che, al contrario del danese, avrebbe messo a fuoco e fiamme il nostro campionato. Per quanti sforzi faccia, non riesco a collocare un episodio del genere nello sgangherato pollaio del calcio attuale.
Italiano, certo, ma non così miope da negare alla Juve e alla Ferrari il fior fiore dell’ingegno internazionale. Se ai suoi livelli era facile permettersi di tutto, non altrettanto semplice era lasciare tracce di una superiorità capace di farsi accettare anche dai più accaniti rivali. L’ultimo gesto che ha compiuto per la sua Torino è stato l’Olimpiade invernale del 2006, ufficialmente assegnata a Seul nel giugno del 1999. L’olimpismo attraversava un periodo di gravi turbolenze, squassato com’era da gravi e molteplici scandali. Il presidente del Cio, Juan Antonio Samaranch, lo pregò di garantire, con il suo nome e il suo prestigio, il passaggio dalla decadenza alla rinascita. Entrò, con Kissinger, Boutros Ghali e altri personaggi di primissimo piano, in un comitato di riforma olimpica. C’erano Torino e i Giochi di mezzo, «ma avrei accettato l’invito anche se Torino non si fosse candidata», disse. Un atto d’amore: verso lo sport e la sua città. Impossibile stabilire un ordine: l’uno ha sempre affiancato l’altra. Con la Fiat, sullo sfondo, a fungere da pendolo.
Nella scia della Juve e della Ferrari, c’è posto per la Coppa America di vela, «una summa di tutto quello che lo sport può offrire», e per nostalgici frammenti delle Olimpiadi di Cortina, di Roma, di Monaco, quella finita nel sangue. E fra gli atleti che, allontanandosi dai sentieri del calcio, ha più ammirato figurano Ondina Valla, Luigi Beccali, Livio Berruti, Pietro Mennea, Giusi Leone, Sara Simeoni. Su tutti, Jesse Owens e Wilma Rudolph, la gazzella che si mangiò l’Olimpico. Gli sarebbe piaciuto guidare come Tazio Nuvolari. I grandi rimpianti sono stati Alfredo Di Stefano e Diego Maradona: «Con uno di quei due, avremmo potuto giocare senza allenatore». Il destino, prima dolce e poi terribile, l’ha costretto a vivere a passo di carica. Se ne va con la Juve campione d’Italia, Schumacher e la Ferrari in cima al mondo. Da quel pomeriggio di 77 anni fa, quando, bambino, il padre lo accompagnò al campo di corso Marsiglia, scrivere Juventus e dire Agnelli è diventata la stessa cosa. Al timone resta Umberto. L’Avvocato è salito dalla tribuna un po’ più su, immagino la sorpresa di Enzo Ferrari.

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