mercoledì 8 maggio 2024

Andrea BARZAGLI


«Un’emozione forte. Avevo vissuto una settimana molto tranquilla, perché mi sentivo sereno. Secondo me era arrivato il momento giusto. Poi la mattina mi sono svegliato e mi è iniziato un po’ di magone, sapevo che sarebbero venuti la mia famiglia e i miei amici. Ho avuto un’annata calcisticamente difficile, sono stato molto fuori, non mi sentivo più all’altezza degli altri. E quando sei in una squadra del genere, con dei giocatori così, allenarti diventa impegnativo, c’è tantissima qualità quindi devi star bene fisicamente. Nello spogliatoio i ragazzi hanno scherzato e il magone mi è passato. Non mi aspettavo il prepartita con i ringraziamenti del presidente e la squadra schierata. Gigi che è venuto apposta da Parigi, mi ha fatto un enorme regalo. E già lì è stata un’emozione forte».

DIEGO GUIDO, DA ULTIMOUOMO.COM DEL 14 AGOSTO 2019 
Il campo 5 di Coverciano è più piccolo di un normale campo a 11. Sembra lo abbiano voluto appiccicare a forza su un angolo del quadrilatero perfetto su cui sorge il Centro Tecnico Federale, come la piccola gamba di una grande Q. È incorniciato su tre lati dal fruscio di una ventina di alti cipressi e costretto tra i condomini di via Papini e via Saba. Ai bordi di questo campo seguo la seduta tattica di un gruppo di giocatori senza contratto. Si trovano sul campo 5, e più in generale a Coverciano, perché ospiti del ritiro che Assocalciatori ogni estate organizza per i calciatori svincolati. Tre settimane in cui possono allenarsi e seguire il corso da allenatori per iniziare a pensare al loro post-carriera.
In campo ci sono una ventina di calciatori, tra cui Sorrentino e Domizzi, Pasqual e Pulzetti, Nocerino e Capuano, Croce e Acquafresca. Sono diretti dalla voce di Francesco D’Arrigo, che disegna linee di coperture preventive e diagonali difensive. D’Arrigo è un docente della Scuola Allenatori del Settore Tecnico FIGC e in quel momento esatto, al centro del campo, sta applicando sull’erba i concetti che il giorno prima ha spiegato in aula.
Andrea Barzagli è diverso dagli altri compagni di ritiro nonostante non faccia nulla per sembrarlo. La sua partecipazione ha il solo obiettivo di ottenere il patentino Uefa B. A differenza degli altri lui ha deciso di non giocare più. Gli altri si allenano per farsi trovare pronti se e quando una società offrirà loro un nuovo contratto. Lui no. Gli altri hanno ancora la testa da giocatori. Lui no. Nonostante questo, nonostante non debba dimostrare nulla, nonostante non debba prepararsi a una nuova stagione, Barzagli sembra andare a una velocità diversa. Sembra calciare, usare il corpo, occupare lo spazio che lo circonda, in modo diverso dagli altri compagni. Una sensazione di differenza che diventa certezza quando D’Arrigo, dopo aver spiegato un paio di movimenti della difesa a tre, si ferma e chiede: «Ho detto bene Andrea?».
Visto da vicino Barzagli è molto grande. Forse più che grande, lungo. Porta addosso una sorta di forza cinetica. La voce profonda, le “r” scandite e incastrate dentro a un velato accento fiorentino. A ogni passo muove un corpo mastodontico che sembra sempre sul punto di prendere una velocità inattesa per quella stazza.
«Ho deciso di smettere perché ho sentito di aver dato tutto quello che avevo da dare». Nei primi giorni di questo ritiro gli hanno chiesto perché si sia ritirato. Lui ha risposto dicendo di aver raggiunto il limite. Gli chiedo se si tratti di un limite solo fisico oppure anche nervoso. «Fisicamente non sono stato bene come in passato, ma non si tratta solo di questo. Il limite è anche e soprattutto mentale. Sentivo di non essere più in grado di garantire i livelli di prestazione a cui ero abituato e la cosa mi disturbava». Barzagli è seduto nell’aula magna di Coverciano. Indossa i pantaloncini blu e la maglia azzurra della divisa AIC. È appena finita una lezione e si è fermato qualche minuto per rispondere alle mie domande.
La fine della carriera agonistica ad alti livelli a volte coincide con momenti di spaesamento. Un passaggio brusco dai riflettori al buio, dalle tensioni della partita decisiva a una quotidianità senza più strappi. Non sono però timori che sfiorano Barzagli. «Spesso ho sentito dire che una volta smesso ti può mancare l’adrenalina. Io sinceramente sto molto bene. Ho vissuto tutta la mia carriera talmente intensamente che ora non credo mi manchi nulla». L’assenza di questo tipo di nostalgia è perfettamente coerente con la consapevolezza di cui parlava prima, di riconoscersi ormai deficitario sotto l’aspetto mentale per poter proseguire a giocare a calcio. Coerente anche con ciò che aggiunge un attimo dopo: «In queste poche settimane mi sono sentito rinato come persona. Me lo sono spiegato con il dispendio nervoso che ho sempre messo nel mio lavoro. Ora ho passato molto tempo con la mia famiglia e non ti nascondo che sarei rimasto volentieri con loro quando è stato il momento di venire in ritiro», e quest’ultima frase la dice come una novità assoluta per lui e per come ha concepito la sua vita fino a maggio.
Nella riposta legata al distacco dalla sua famiglia, Barzagli ha anche aggiunto: «Sono venuto qua e mi sono rimesso una divisa e un paio di scarpe da calcio». L’ha detto come potrebbe dirlo chi ha già smesso da 5 o 10 anni. Lui ha salutato domenica 19 maggio e io l’ho incontrato alla fine di luglio. Nemmeno due mesi e mezzo eppure nella sua testa, per lo stacco nervoso, sembrano già passati anni.
Alcuni dei corridoi del Centro di Coverciano sono stati trasformati in grandi album dei ricordi. Il bianco delle pareti è interrotto da fotografie di formazioni azzurre e dei loro momenti passati alla storia. Barzagli è presente in almeno due di quei ritratti, entrambi dentro a stadi tedeschi. Sul prato di Bochum posa assieme agli altri dieci compagni con cui sta per vincere la finale degli Europei Under-21, nel 2004. Sul prato dell’Olympiastadion a Charlottenburg, Berlino Ovest, Barzagli è uno di quelli che alzano i pugni al cielo ai piedi di Cannavaro la notte del 9 luglio 2006.
Sono due fotografie che raccontano come si è dipanata la trama della sua carriera. Un lento e costante passo di avvicinamento al livello più alto raggiungibile nel suo sport. A 19 anni giocava in C2, nel Rondinella, una piccola società di Firenze. A 20 giocava nell’Ascoli, C1. Le due finali di Champions della sua carriera le ha giocate a 34 e 36 anni. Sembra quasi che Barzagli sia diventato davvero Barzagli dopo aver compiuto 30 anni. «Hai ragione. Secondo me sono partito molto bene nei primi anni di A e ho raggiunto presto anche la Nazionale. Poi mi è mancata continuità di rendimento e credo anche la possibilità di arrivare prima in una grande squadra. Perché non dico che siano due sport differenti, ma tra chi ha obiettivi di metà classifica o della salvezza e chi invece punta a vincere, c’è una differenza enorme. È tutto un altro giocare a calcio. Lo stress e i ritmi ti portano a crescere come non puoi crescere altrove. Se hai qualità migliori per forza».
La dimensione mentale torna ancora. La presenta sempre come un ingrediente che dentro a una carriera ha lo stesso peso del fisico e della tecnica. Dice che dopo i 30 anni «anno dopo anno sono migliorato come giocatore ma anche come uomo». Nel suo percorso vede due snodi cruciali che lo hanno aiutato. Il primo legato agli inizi – «non sono cresciuto nel settore giovanile di una società importante e in età da Primavera giocavo in una C di alto livello, in mezzo a gente più grande di me, con più esperienza. Un bagaglio che mi ha fatto arrivare in A molto maturo» – il secondo snodo è invece legato al gennaio del 2011.
«Il mio contratto con il Wolfsburg scadeva a giugno. Non mi trovavo bene né con l’allenatore né con il Direttore Sportivo e a giugno me ne sarei andato a costo zero. Così hanno preferito liberarmi già a gennaio e poter monetizzare qualcosa». A pensarci oggi, guardando alla qualità e ai risultati delle sue 8 stagioni e mezza a Torino, fa sorridere pensare che la Juventus allora lo abbia acquistato per 300mila euro.
Barzagli è la prima B della formuletta BBC con cui la stampa sportiva ha vezzosamente sintetizzato i tre protagonisti del blocco difensivo dei cicli di Conte e Allegri. «Con Giorgio e Leo ci siamo migliorati a vicenda. Ci siamo trovati in un momento in cui venivamo da storie diverse. Giorgio aveva già tanti anni di Juve e conosceva quel mondo, Leo era alla prima esperienza ad alto livello e io avevo la mia strada di alti e bassi».
Da fuori ho sempre avuto la sensazione che fossero tre buonissimi calciatori senza tuttavia il talento per valere costantemente un posto tra i migliori dieci difensori in Europa per una decade, come hanno invece poi dimostrato. Mi ero sempre risposto che le ragioni della loro affermazione risiedessero nel loro approccio mentale, nella loro fame di migliorarsi e nell’aver avuto la fortuna di aver trovato l’allenatore perfetto per farli esprimere al massimo assieme. L’idea che mi ero fatto l’ho voluta condividere con lui. Domanda secca: hai mai pensato di esserti trovato al posto giusto nel momento giusto? Risposta: «Sì».
Gli chiedo allora se secondo lui esista la fortuna. Se sia un concetto valido. «Più che la fortuna esistono momenti della carriera in cui puoi trovare tutto perfetto. Le condizioni migliori per lavorare e le persone migliori per fare quel lavoro. Abbiamo trovato un allenatore molto maniacale sulla fase difensiva e abbiamo combinato le nostre caratteristiche differenti e complementari. Se trovi condizioni così tanto favorevoli e ci metti del tuo, la tua storia può cambiare. Ecco, ci devi mettere però del tuo».
Ho parlato in maniera informale con Barzagli altre volte, durante il ritiro di Coverciano. L’ultima eravamo seduti a un tavolino del bar del Centro Tecnico. Si stava facendo raccontare da Pulzetti come fosse andata l’amichevole che il gruppo aveva giocato il giorno prima a Carrara. Pulzetti gli raccontava della squadra, io dei dettagli coloriti dello sfogo sopra le righe che Silvio Baldini – mister dei toscani – aveva avuto contro qualche discutibile scelta arbitrale. Barzagli spicca tra gli altri con inconsapevolezza. Mi sono fatto l’idea che fosse per lui parlerebbe il meno possibile e passerebbe molto più volentieri inosservato.
Nel corso dell’intervista e nelle poche parole scambiate con lui in quei giorni a Firenze ho pensato molto alla frase che mi ha scritto un amico milanista. Intervisti Barzagli? Beh alla fine degli juventini è quello che mi ha sempre dato meno fastidio. Gliel’ho confessato. Ha sorriso e mi ha detto di non aver mai avuto la percezione di essere stato più simpatico ai tifosi avversari rispetto ad altri compagni. Poi ha aggiunto: «Forse perché caratterialmente sono abbastanza moderato? Sia in campo, sia nelle dichiarazioni non penso di aver mai fatto o detto chissà che. Forse per questo». Barzagli non dà l’idea di qualcuno che faccia pesare il suo palmares, che si senta superiore a colleghi meno blasonati. Fa percepire però che non ama spiccare troppo nel gruppo. Non direi per timidezza, piuttosto per amore del proprio spazio.
Le chiamano le case matte. Sono tre bassi cilindri di cemento totalmente chiusi se non per delle sottili feritoie. Le hanno costruite sopra le colline messinesi perché servissero da fortini d’avvistamento negli anni della Seconda Guerra Mondiale. La loro posizione a dominare lo stretto era perfetta per avvistare navi in arrivo sia dal Tirreno che dallo Ionio. Un cuneo infilato tra due mari e all’incrocio tra i venti. Un luogo a quanto pare perfetto anche per coltivare le uve, dato che su quel terreno sorgono i vitigni e la cantina che Andrea Barzagli ha creato assieme a un socio. L’azienda agricola Le Casematte.
Avevo scoperto Le Casematte il giorno prima di intervistare Barzagli. Stavo per seguire l’allenamento del pomeriggio del suo gruppo. Prima che cominciasse, mentre sistemavo gli appunti, seduti a pochi metri da me sulla tribunetta del campo 1, lui e Sorrentino stavano parlando della cantina e delle sue etichette. Dai discorsi di Barzagli usciva competenza e passione per quel settore. Nonostante questo però non è detto che la sua prossima carriera sia nel mondo vitivinicolo. O perlomeno non solo.
«Non so ancora cosa farò. Sto valutando molte possibilità e la mia presenza qui è parte della ricerca. Non sono mai stato uno ultra convinto del passo successivo. Ho sempre preferito pensare a una fase alla volta. In tutta onestà, a oggi non so se mi vedo allenatore, o dirigente, o magari completamente fuori dal calcio. Sto cercando di capire quale dimensione mi può entusiasmare, che poi è quella la cosa principale».

SIMONE GOLIA, DA GIANLUCADIMARZIO.COM DEL 13 APRILE 2019
Lui e Gozzi. Insieme in difesa, separati da pochi centimetri in campo, da 20 anni fuori. Il padre che indica al figlio di stringere la propria posizione, che lo esorta a salire insieme al resto della linea. Che lo abbraccia nel tunnel prima dell’esordio. Il settore ospiti del Mazza canta per Barzagli, ma lui ringrazierà solo a fine partita. Troppo impegnato a guidare una Juventus mai così giovane. Troppo felice di essere tornato a scattare con la sua 15 fra l’attaccante e la palla.
Otto anni fa Andrea metteva piede a Torino, diventando padre della piccola Camilla. Dybala giocava nella B argentina con l’Instituto per appena 4mila pesos annui, il minimo sindacale. Otto anni fa la Juventus di Conte raccoglieva le prime vittorie.
Otto potevano essere anche gli scudetti. Barzagli sembrava tornato apposta per festeggiare a Ferrara, ma Floccari gli ha rovinato i piani. Questione di tempo, comunque. Come quello che manca alla sua ultima partita da calciatore. Un anno fa fu il primo ad abbracciare Buffon nel giorno del suo addio. A questo giro la scena sarà simile. Non esattamente uguale solo per il fatto che Gigi, nel frattempo, è volato in Francia e non potrà stargli accanto.
Ma una chiamata la riceverà sicuramente. Barzagli dirà basta dopo questa stagione. Maledetta, con tre infortuni a farlo soffrire. Preziosa, perché gli ha fatto capire che forse è giunto il momento di fare altro. Restando sempre nel calcio, magari ad insegnare piuttosto che apprendere: “Perché lui è un maestro della difesa” per dirla alla Allegri. Colui che, da quanto dice, in difesa ce lo ha messo. Stagione 2000-2001, i due giocano insieme alla Pistoiese. Max, che inizia a ragionare da allenatore, va da Pillon e parla chiaro: “Sposta Andrea dietro e vedrai”.
La prima di una lunga serie di intuizioni. Otto anni fa non c’era lo Stadium. Il logo era ancora quello vecchio, Ronaldo si preparava a fare grande il Real. Otto anni fa Barzagli arrivava settimo con la Juventus di Delneri, preludio alla BBC dei trionfi e dei record. Lui, arrivato per soli 300mila euro. Tornato in Italia completamente diverso da come l’aveva lasciata.
Nel 2006 vince il Mondiale da gregario, crede di meritare un top club e finisce con l’accettare malvolentieri il Wolfsburg: “Non mi piace la tua scelta” Gli dice Lippi; “Sai perché sei sempre infortunato e ti alleni male? Perché sei il primo a pensare di non farcela”: Parole di Felix Magath, che lo sgrida in tedesco e lo cambia. È lì che nasce il muro.
Non toccherà quota 300 presenze con la Juventus per poco. Con la Spal la sua squadra ha perso, ma sul viso gli esce un sorriso. Finalmente è tornato a finire una partita. Ci aveva provato anche con l’Udinese, di nuovo in campo dopo tre mesi di stop. Il polpaccio, però, gli tira dopo 25’. Esce con la faccia di chi sa che, purtroppo, sta finendo una pagina importante della propria vita.
Che lo ha visto diventare campione del mondo. Che lo ha visto nel Chievo dei Miracoli (sì, era l’ultimo in attività di quella squadra). Che lo ha visto alzare al cielo 15 trofei (presto saranno 16) con la Juventus. Che lo ha visto piangere per il dolore, come nel 2014, quando – dopo aver stretto i denti per giocare il Mondiale – si vede costretto ad operarsi in Finlandia al calcagno del piede destro.
Una fitta terribile, che gli impedisce di andare in bagno da solo. E che lo porta a pensare al ritiro. Invece, la scorsa estate, l’ultimo rinnovo: “Ancora un anno, poi vediamo” Le sue parole. Accanto a lui, a firmare il proprio contratto, anche Chiellini, che continuerà fino al 2020. Chissà, magari con Barzagli come maestro, che continuerà a portare il suo vino negli spogliatoi dopo un trionfo. Smettere, alla fine, è traumatico. Ma il capitolo che si apre può essere molto simile a quello che si sta chiudendo.

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