sabato 24 aprile 2021

Heriberto HERRERA


Non si può scindere Heriberto – scrive Vladimiro Caminiti – da un esclusivismo stoico, parente di remote tristezze. Un bambino mai troppo bambino, colpito in profondo chissà, vendicativo sul mondo, il quale si riversa nel mestiere, assumendo le tinte forti e spietate del sergente di ferro (una volta picchiò a sangue Dell’Omodarme), gli occhietti nerissimi imperativi, le mani nocchiute a strigliare, a torchiare, a pretendere che la gioventù soffrisse.
Arrivò per riportare la squadra alla disciplina e al lavoro. Sivori non ci stava e teneva conferenze sulla mania di quest’ultimo di volere imporre – a lui Sivori – di allenarsi. Però si allenò anche lui, maledicendo presenti ed assenti. Quell’uomo secco e forte li sfidava; se volevano fare a pugni ci stava. Ci stava in ogni modo, pur che la domenica rendessero, non mangiare grissini perché fanno male, non ascoltare i medici perché non capiscono un tubo, lui ne sapeva più dei medici, e non gli parlassero di quel poveretto di Spialtini il masseur, un ciarlatano.
Tutto spiegato in breve: noi italiani saremmo all’altezza di qualsiasi traguardo, ma non ci piace soffrire, non vogliamo allenarci. Sivori uguale Coramini. Non vince il «singulo», vince lo «equipo». Ecco il motivo per cui torchia Bercellino come Cinesinho. Per cui non accetta interferenze né consigli e procede, Favalli e Zigoni fanno in continuazione giri di campo, Bercellino si mette a giocare come non aveva giocato mai, lo smerigliato nasino di Sidney Cunha detto Cinesinho suda, la fatica è tremenda, ma se ne vedono i risultati la domenica, la squadra nomata Juventus viaggia a tutto campo, senza finezze o sofisticherie, aggredisce, romba, strappa con le unghie i risultati, il suo giocatore prototipo è Leoncini, il suo cuore ruggente è Del Sol. Come arriva lo scudetto ‘66-67 che per l’avvocato Agnelli che non stima gli allenatori è dovuto specialmente ad Heriberto? Arriva così. Lavorando tutti, lui per primo, in piedi davanti alla panchina in giacchetta nel freddo livido, stringendo i pugni e sbraitando, la truppa scatenatissima ad ottenere quei risultati di rendimento che le avrebbero consentito di sostituirsi all’Inter del presunto mago, all’Inter del boom consumistico e del petrolio.

PIERO MOLINO, “LA STORIA DELLA JUVENTUS” DI PERUCCA, ROMEO E COLOMBERO
Heriberto Herrera: così è se vi pare. Un personaggio originale. Per questo vale la pena di parlarne. Lo indicavano anche con una sigla che sapeva quasi di formula: HH2 per distinguerlo da HH1 che era Helenio Herrera, suo rivale dell’Inter. Molte cose sono state scritte su di lui, molte veritiere, altre di fantasia, ma di questo non si dispiaceva, lui che di fantasia non ne aveva molta. Non era uno sprovveduto, tutt’altro. Era il suo carattere intransigente fino alla caparbietà che gli impediva ogni cedevolezza. Sergente di ferro, lo dicevano, e sergente lo era stato all’Accademia militare di Asuncion, ed aveva giocato al calcio. Era bravo? Non lo era? Nessuno ha saputo precisare, e lui non ne parlava. Si sa che ben presto dovette abbandonare l’attività per un incidente di gioco. 
Ebbe fortuna invece in Spagna, dove si trasferì come allenatore dell’Elche e la consolidò quando fu invitato a Torino ad assumere le redini della Juventus. La scelta non fu casuale, ma determinata dalla società, perché la squadra torinese attraversava un momento poco propizio e denunciava una certa irrequietezza interna. Era necessario un allenatore di carattere che nulla concedesse ai capricci dei giocatori. E quello era l’uomo.
Militare nel pensiero, negli atteggiamenti, nel rigorismo mentale. Con sé stesso, prima che con gli altri. Gli raccomandarono al momento della sua assunzione di essere un duro, secondo le patenti che lo avevano preceduto: raccomandazione superflua, tanto che ad un certo momento qualcuno glielo rimproverò. A torto, considerando gli ordini ricevuti ed una certa difficoltà nella lingua, nuova per lui, che lo rendeva timoroso, fuori campo. A suo merito, la società si fregiò di un titolo di campione d’Italia e di una Coppa Italia, e bisogna riconoscergli che fece del suo meglio perché gli uomini a disposizione non abbondavano e il migliore era un fuoriclasse baciato dalla fortuna di godere del privilegio di svettare su tutti.
Grandissimo giocatore sulla faccia della terra Omar Sivori, perché di lui si tratta, non era uso ad ubbidire, ma a comandare. Sivori sapeva di poter contare sulla compiacenza dell’avvocato Gianni Agnelli, cui piacciono gli estrosi come l’argentino, capace di divertire la folla con le sue mirabolanti malizie. Giocava quando e come piaceva a lui: a suo vantaggio, però, segnava molti gol. Ma la disciplina non la conosceva, suscitando non soltanto le ire di Heriberto Herrera, ma anche quelle dei compagni di squadra, sui quali pesava il loro senso di inferiorità. E si venne alla lite, con la partecipazione dei comprimari. 
Il presidente era allora Umberto Agnelli, giovane manager industriale, meno romantico del fratello, del quale godeva tuttavia la massima fiducia e protezione, coadiuvato da dirigenti consapevoli delle sorti della società, ed Heriberto ebbe partita vinta. Fu lo stesso Avvocato che decise la partenza di Sivori verso i lidi partenopei: ma non ci si può nascondere che per l’allenatore fu una specie di vittoria di Pirro. Pur accreditandogli tutta la fiducia, nessuno gli perdonò il gesto di forza lo perseguitò un’ombra di rancore per aver privato la squadra del suo folletto.
Gli rimproverarono di aver democratizzato l’aristocratica Juventus, si accentuarono anche le critiche, appoggiate dai giornali, sul suo modulo di gioco, quel «movimiento» da lui praticato con successo in terra iberica, anche se non si trattava affatto di una novità. In uno dei primi libri sul calcio da me redatti, dal titolo «Rosetta insegna il calcio», il grande calciatore juventino, molti anni prima, già sosteneva che il giocatore non deve aspettare la palla ma spostarsi continuamente per trovarsi là dove può riceverla. Naturalmente a rigore della logica del gioco.
Durante i cinque anni di permanenza nella Juventus, alzi la mano chi vide Heriberto sorridere o cianciare col pubblico. Durante quel periodo dirigevo il mensile della Juventus ed ero addetto alle pubbliche relazioni, faticosissime anzichenò, perché oltre a seguire la squadra nelle sue peregrinazioni italiane ed estere dovevo, durante la settimana, occuparmi dei club bianconeri, che sono centinaia sparsi da un capo all’altro della Penisola, da Bolzano a Crotone (dove ha sede uno dei più eleganti club bianconeri). I club volevano essere ragguagliati sui giocatori, sulle loro abitudini, sui loro capricci, hobby, amori e dovevo, per fare un esempio, dare ragione del perché Favalli non era messo in campo dall’allenatore e perché questi preferiva Tizio piuttosto che Caio. Che cosa poteva rispondere il malcapitato che non aveva nessun rapporto con i giocatori e meno che meno con Herrera?
Heriberto era geloso dei suoi atleti come una chioccia con i pulcini. Non concedeva nessun giocatore da esibire nelle visite ai club, neppure se si trattava di una riserva, neppure se uno di essi doveva ricevere un premio destinatogli dai tifosi. Dovevo lavorare di fantasia, senza scostarmi troppo dalla realtà che immaginavo. Faceva sorvegliare i giocatori da persone di sua fiducia, sconosciuti a tutti, perché si ritirassero la sera alle 22, e quand’erano negli alberghi si può dire che li mettesse a letto come una brava mammina, per rifugiarsi poi nella sua stanza a sorbirsi il «mate», speciale bevanda sudamericana, rifiutando tè, caffè o liquori.
Un giorno che tentai di avviare un discorso con lui e che, al massimo dell’intraprendenza, osai dirgli che i gol erano pochi perché Anastasi in prima linea si sentiva troppo solo, mi rispose, sia pure gentilmente: «Perché non va a tenergli compagnia?».
Questo era Heriberto Herrera, e per questo e per altro del suo contegno non so chi mi confidò che era monaco trappista per cui la riservatezza e austerità erano più che comprensibili. Nulla infatti della sua vita privata trapelò mai. È facile pensarlo seduto sulla poltrona, a sorbirsi con la cannuccia il «mate», ascoltando musica folcloristica sudamericana (della quale era appassionato cultore), o a leggere libri di storia o di medicina (nella quale, a detta del medico della Juventus, era molto versato) e di dietologia. Un esempio: al termine di ogni incontro, quando i giocatori rientravano affaticati negli spogliatoi, non trovavano mai a disposizione liquidi, ma vassoi di frutta da mangiare per dissetarsi e vitaminizzarsi. 
Qualcuno si chiese a quel tempo quali erano i suoi rapporti con Helenio per il cognome che li univa. Dalla bocca di Heriberto non uscirono mai giudizi sconvenienti sul rivale, anche se l’altro gli buttava qualche volta l’esca. Chi frugò nella sua privacy per «chercher la femme», restò deluso. Un monaco trappista deve vivere in solitudine ed austeramente. È un ordine.

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