giovedì 13 giugno 2024

Enzo ROBOTTI


Una stagione, quella 1956-57 dei “Puppanti”, per Enzo Robotti, forte difensore alessandrino. Solamente 15 presenze per lui e una rete su rigore, in un roboante 5-1 all’Inter del 3 marzo ‘57. Questa la formazione della Juve di quel match: Romano; Corradi, Robotti; Oppezzo, Nay, Montico; Donino, Colombo, Boniperti, Conti, Stivanello. Per i nerazzurri: Ghezzi; Fongaro, Giacomazzi; Invernizzi, Rebizzi, Bernardin; Pandolfini, Vonlanthen, Nesti, Lorenzi, Skoglund. Segnarono, oltre al nostro, Colombo, Conti, Oppezzo e Montico per la Zebra. Di Rebizzi dal dischetto l’unico punto per il Biscione. Robotti troverà gloria nella Fiorentina (dove vincerà la Coppa delle Coppe e la Coppa Italia) e nella Roma, partecipando pure al nefasto Mondiale cileno del 1962.

SI RACCONTA SU “HURRÀ JUVENTUS” DEL GIUGNO 1963
Arrivai alla Juventus che avevo sedici anni. Mi pare superfluo rievocare le sensazioni di quei giorni: a quell’età entrare a far parte della quadra più popolare e più famosa d’Italia! Toccavo il cielo con il dito, ecco; gli inizi, nella squadra ragazzi dell’Alessandria, mi sembravano ormai lontani. Mi illudevo di essere arrivato, di aver raggiunto il tetto delle ambizioni, il vertice della carriera. Purtroppo, non fu così semplice.
Il mio tirocinio alla Juventus fu lungo e cosparso di spine. Trovai dapprima un limite nell’età, poi nella bravura dei miei compagni di squadra. Raggiunsi la prima squadra con Puppo allenatore (un vero signore, misurato, intelligente: sapeva lavorare il morale dei giocatori in maniera insuperabile), ma trovai la mia definitiva valorizzazione lontano dalla Juventus, in quella Fiorentina che è logicamente divenuta la squadra del mio cuore.
Con tutto questo, non dovete credere che i miei ricordi juventini siano venati di malinconia o di spunti polemici. Tutt’altro. Ricordo la Juventus come una squadra e soprattutto una società modello. Le piccole beghe che inevitabilmente capitano nel nostro mondo di calciatori non risparmiavano neppure la Juventus. Ma era lo stile nel superarle a dare la misura della classe della società. Nessuno scandalo, un trattamento sempre signorile. I problemi venivano discussi e risolti in famiglia, al di fuori non trapelava nulla.
Ricordo con affetto e gratitudine tutti i dirigenti di allora, ricordo Locatelli, l’allenatore di noi ragazzi che ci dava la carica con quel suo tratto semplice e pieno di umanità.
Ma a voi interessano forse di più i ricordi sportivi. La mia permanenza alla Juventus non coincise con un periodo felice per la squadra. Si lottava a metà classifica, Milan e Inter dominavano la scena. Per questo mi sembrava ancora più inspiegabile l’alone di affetto e di popolarità che circondava la squadra. I successi del passato, senza dubbio, rimanevano nella memoria del pubblico. Ma c’era di più: forse era proprio lo stile juventino che affascinava le folle, le faceva stringere attorno alla bandiera bianconera.
È piuttosto singolare il modo in cui mi guadagnai il posto in prima squadra. Io giocavo nelle riserve e spesso mi ero trovato in allenamento di fronte a quel mago di Praest. Poi arrivò uno svedese biondo, fragile come un cristallo allora, ma tecnicamente un demonio. Si chiamava Kurt Hamrin, i nostri destini dovevano poi incrociarsi.
Nelle partitelle di metà settimana, disputai alcuni duelli memorabili con Kurt. Lui a inciucchirmi di finte e scatti ed io a tenerlo spietatamente, con rabbia. Si accorsero di me, allora. C’era Puppo, appunto. Ero tornato da un anno di prestito alla Sanremese, che mi era servito per farmi le ossa, come si dice in gergo. Dopo dieci partite di campionato, divenni titolare e non mollai più il posto sino alla fine. Ogni tanto ricordiamo quei giorni, con Hamrin. La Juventus aveva due grandi terzini, Corradi e Garzena, che giocano ancora, sia pure in altre squadre. Ormai come riserva ero un lusso, fu così che si arrivò alla mia cessione alla Fiorentina.
Il primo incontro che disputai in campionato contro la Juventus, avrei voluto spaccare tutto. È un sentimento umano. Ma poi, pur impegnandomi sempre al massimo a ogni occasione, non riuscii mai a scovare un valido motivo di vendetta che potesse caricarmi. Non avevo nulla da rimproverare alla Juventus, mi avevano trattato con tutti i riguardi.
Il mio passato di juventino è ormai un capitolo lontano. Nella Fiorentina ho trovato la valorizzazione, la maglia azzurra. È difficile ipotecare il futuro di noi calciatori, ma posso dichiarare in tutta sincerità che se fossi costretto a lasciare la maglia viola, lo farei con l’animo pieno di amarezza. Alla Fiorentina sono legato a doppio filo. Questo non mi impedisce di mantenere un ottimo ricordo della Juventus. Penso che per un calciatore essere appartenuto alla Juventus sia un po’ un’etichetta di nobiltà: per questo ne vado fiero.

GINO STACCHINI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1963
Pensando a un terzino che io temo particolarmente, vi faccio un nome: Robotti. Il fiorentino Robotti. Ricorderete che, con Enzo, ho giocato parecchio tempo qui a Torino, per la stessa squadra, per la Juve. Giocavamo con i titolari e con le riserve. In genere non era lui che io trovavo sulla mia strada, appunto perché eravamo insieme. Ma poi, sapete come va a finire. Capita che in allenamento si giochi in formazioni miste, un tempo lo si fa con i titolari, un tempo con gli allenatori. Insomma, Enzo ha potuto «conoscermi» in tutta tranquillità, imparando a memoria, anche non volendo, il mio repertorio di gioco personale.
Poi, Robotti se n’è andato alla Fiorentina. La musica è cambiata perché me lo sono ritrovato di fronte e non si trattava più di allenamenti. Si trattava di Campionati e di Coppe... Qualche volta sono riuscito a portarlo a spasso; sovente, però, il nostro duello l’ha vinto lui. Lui, perché mi conosce e perché è per me un fatto psicologicamente negativo il sapere, appunto, che lui mi conosce. Il gioco diventa un fatto tutto psicologico, in queste condizioni. È una guerra fredda che è difficile improvvisare con lucidità. Non questa finta perché lui la conosce, non quell’altra perché lui non abbocca... La vita diventa difficile. Eppure, anche in questo caso la forma ha un grandissimo peso.

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